giovedì 29 maggio 2014

Je vais à Paris, ma non parlo francese.



Carissimi voi tutti, domani mattina presto presto parto.
Per tre giorni non ci sarò e, siccome non ho una seconda me da lasciare qui e della quale fidarmi (soprattutto), il blog si prenderà una piccola pausa.

La valigia è pronta, non è che ci sia voluto chissà quale ingegno a prepararla. In fondo sono solo tre giorni, ma tanta è la smania di arrivare e tante sono le sensazioni già in fermento, che mi sembra di non contenerle tutte. Mi pare di avere appena chiuso una valigia piccola  e leggera, eppure così piena. Lì dentro ci sono tutte le storie che ho inventato da me e che mi sono raccontata fino ad oggi. Con la speranza che prima o poi avrei visto con i miei occhi quei luoghi, avrei respirato quell'aria, i ponti, la Senna, i giardini e le vie di Montmartre. 

Quante idee prenderanno vita a partire da domani?
Io credo tante, lo spero.

Sapete che cosa si fa il primo giorno che si è a Parigi? Ci si procura un po' di pioggia: una pioggia che non sia troppo forte però, e una persona veramente carina con la quale girare in taxi per Bois de Boulogne. La pioggia è importante perché essa dà a Parigi un profumo speciale, sono i castagni bagnati dicono...
Dal film Sabrina

Ora vado, un sogno mi attende...
P.S. Je vais à Paris, ma non parlo francese. Me l'ha suggerito Google.

Maledetta Primavera - Che imbroglio era...



"Romanzi così capitano una volta ogni dieci anni".
-E menomale!
"Un romanzo intenso e indimenticabile".
-Sì, e chi se lo scorda...
"Da leggere tutto d’un fiato. Tanti personaggi ben delineati, riconducibili alla nostra realtà. Bravo Cammilli. Alla prossima storia".
-Cos'è una minaccia?
"Senza neanche accorgertene sei avvolta dalla storia dei protagonisti. L’ho letto d’un fiato. Non scorderò Carlotta e Fabrizio. E soprattutto il finale".
-Be' non li scorderò nemmeno io, pensa sono stata talmente tanto "avvolta" dal libro, da avere convulsioni e conati di vomito al limite dello svenimento. 
Pagina 145. Dopodiché il vuoto. Il ritorno alla vita. Libro chiuso. 

"Un noir corale condito da una storia d’amore (o viceversa!). Appassionante e scritto davvero bene".
-O viceversa? Ma che vuol dire?
Ma vi pagano per scrivere 'ste minchiate cosmiche...voglio dire, la mia è una domanda. Ditemi che vi pagano e pure bene. Vi prego. 
(Oooh?)

Mettiamo per ipotesi che, a questi critici, nessuno abbia dato compenso che si possa materialmente intendere (danaaaro). E proviamo a capire fin dove arrivi la loro simpatica esigenza di uccidere la letteratura, così come l'entusiasmo di tutti quei lettori che, ingenuamente, si affidano a codeste perle, pregne di cotanta e dico tanta, insana critica.
Be' non è facile individuare un confine che separi la follia dalla simpatia critica, ecco perché a me piace credere che tutti questi elogi nei confronti di Maledetta Primavera, altro non siano che piccoli e affastellati ictus artistici, o amnesie temporanee per le quali davvero ci si dimentica ogni perché. Perché esistiamo?
Perché sono su questa terra? Perché sono in libreria, ora? Perché ho in mano questo libro dal titolo banale (non me ne voglia la Goggi)? Perché proprio a me? Perché sono stata così stupida da credere che sarebbe stato un buon libro, una piacevole lettura?

Non c'è una risposta esaudiente, questo è il vero problema di noi esseri umani. Abbiamo le domande, ne abbiamo a miliardi, ma scarseggiano le risposte. Forse è un bene, pensa quanti mali avremmo dovuto sostenere con tutte quelle risposte in mano. Naaa. Meglio rimanere in sospeso, al massimo cantare una canzone. Sì io faccio così, quando sono in difficoltà canto. Magari fa lo stesso Paolo Cammilli, l'autore del libro di cui sto provando a parlarvi da non ricordo più nemmeno quanto tempo.
Figuriamoci se non potrebbe essere così. Io trovo ispirazione in Peppa Pig, non vedo come uno scrittore non possa sognare di diventare il nuovo Dante della letteratura nell'era del 2.0, grazie a Loretta Goggi. 
Che male c'è?

Voglia di stringersi e poi 
vino bianco, fiori e vecchie canzoni 
e si rideva di noi 
che imbroglio era 
maledetta primavera. 
Che resta di un sogno erotico se 
al mattino è diventato un poeta 
se a mani vuote di te 
non so più fare 
come se non fosse amore 
se per errore 
chiudo gli occhi e penso a te. 

Come dimenticare questi versi e questa musica...
Ma, avete mai pensato a quanti libri troveremmo nelle librerie, se ogni autore si ispirasse alle canzoni italiane? E penso a tutti i titoli, e alla gente che entra in libreria e cerca tra gli scaffali, non più chiedendo consigli sugli ultimi autori, bensì sulle top ten musicali, l'ultima di Emma o il vincitore di Amici di Maria de Filippi...
un dramma post apocalittico!

Volete sapere se davvero è così brutto questo romanzo, è così?
E volete pure la verità, e avete mille ragioni.
Ecco perché l'avrete, nuda e cruda come mamma l'ha pensata e fatta.
La verità.

La verità è che sono arrivata a pagina 145. Non ce l'ho fatta. Ho chiuso il libro maledicendo non solo tutte le stagioni dell'anno e tutti i giorni delle settimane e i mesi e le domeniche scritte in rosso e così via...
Soprattutto ero incazzatissima con me stessa. Per aver creduto in un libro osannato dalla critica moderna, reso divino dagli status di cui facebook è gravido, zuppo, tempestato e bombardato. Senza tregua.
E così tu sei fottuto. La tua capacità di valutare con occhio e mente, entrambi critici, si va a fare benedire Fabio Volo solo sa dove...
Il fatto grave è che oggi crediamo in qualcosa che fondamentalmente non c'è. Non c'è nulla che vada al di là della curiosità legata a un titolo che canticchia nelle orecchie una canzoncina famosa, e la cosa ti piace pure, ti rallegra, ti diverte. Ma poi ti violenta, ti morde quell'allegria provvisoria e la trasforma in rabbia definitiva.

"Maledetta Primavera è una delle cose più indegne che io abbia letto negli ultimi ventinove anni. 
Da quando vivo".
Questa è mia. E non mi hanno pagato, giuro.

Errori ortografici come non mi capitava di vedere dai tempi della scuola, quelli in cui l'amico che sbagliava le "h" mi chiedeva aiuto. Cose davvero raccapriccianti. Punteggiatura ubriaca dalla prima a, immagino, l'ultima pagina. Almeno vi garantisco fino a pagina 145. Sparate che bene si sposano all'elevatezza poetica contenuta nella carta dei baci Perugina. Retorica di poco gusto e similitudini improvvisate (e pure brutte!).

Sì lo so che in teoria un libro va letto dalla prima all'ultima pagina. Come un film. Come una canzone. E forse non ho nemmeno il diritto di dirvi di non leggere questo libro, anche se a chiedervelo è un amico russo che in alternativa potrebbe proporvi quel giochino carino molto tipico...com'è che si chiama?
Ci sono dei segnali, delle sensazioni più che divinatorie. Io le chiamo difese immunitarie.

“Deve essere tosto come Rambo e calmo come Piero Angela”. -Pag. 15-
-Ma dai? L'uomo dei miei sogni...
"Gli girano. Gli girano tantissimo. E’ nero. Più nero di un vu cumprà”. 
-Non credo che l'abbia scritto, dai non è vero, non può essere...
e invece è!
 "Rocco Siffredi glielo sgrulla". -Pag. 40-

Però voi siete liberissimi di andare in libreria e provarci. Magari a voi farà l'effetto piccoli ictus che ha travolto molti lettori e critici. In ogni caso io non mi offenderei, è bene che lo sappiate. Al massimo mi canto una canzone, e vivo bene nonostante tutto...


Seee 
per innamorarmi ancooora 
torneraaai 
maledetta primavera 
che imbroglio seee 
per innamorarmi basta un'ora 
che fretta c'era 
maledetta primavera 
che fretta c'era 
*se fa male solo a meee

*Non fa male!
 -Non fa male.

mercoledì 28 maggio 2014

Gomorra - La serie (Ep. 5 e 6)



Faccio sempre così, scrivo di Gomorra il mercoledì, dopo aver visto gli ultimi due episodi e, come ormai è consuetudine, faccio un passo indietro e mi tocca perdere sul tempo, trovandomi in ritardo, a cadenza binaria.
Quindi oggi parliamo del 5° e 6° episodio, andati in onda martedì 20 maggio su Sky Atlantic HD e Sky Cinema HD

Dietro la macchina c'è Francesca Comencini, nel 5° episodio, e la storia si fa quasi individuale, passando dal percorso di emancipazione, più che riuscito, di donna Imma, alla tragedia personale del contabile di famiglia, Franco Musi. Devo ammettere con assoluta sorpresa che, questo episodio, rimane uno dei miei preferiti, almeno tra quelli visti fino ad ora, e sono otto. In più di un'occasione ho pensato di trovarmi sul set di un film Refn o Tarantino, e mi riferisco a quei giochi di luce interni, nei ristoranti o nei locali notturni ed è emblematica in questo senso la sequenza degli "spaghetti alle vongole" che vede coinvolti Musi e donna Imma. Fantastica!!!


La storia di Musi capovolge l'impatto che lo spettatore ha avuto, fino al 4° episodio, con l'intera serie. Perché dalle morti violente e dagli affari sporchi che vedevano coinvolte le famiglie avversarie e i conti da pareggiare con ogni mezzo, si passa al dramma individuale. Ovvero alle morti silenziose, e alle arterie ostruite con maggior finezza, le più pericolose, quelle velate da grattacieli sospesi e architetture perfette. Il finale del 5° episodio ha una forza enorme, la morte e una torta di compleanno che canta sulle note di quelli che furono i giorni felici, gli Happy Days di Fonzie. Poi un volo nel vuoto, la disperazione che chiude, solo temporaneamente, quel circolo vizioso dal quale è impossibile uscire. 


Nel 6° episodio torna Stefano Sollima, il protagonista è Ciro. Ormai stanco delle regole di donna Imma, si ritroverà ad affrontare, con tutta la paura del caso, la "questione Conte". Una trasferta a Barcellona e un incontro ravvicinato con i Russi, che ve lo dico a fare...c'è un momento che avrebbe rischiato seriamente di scivolare nel banale e nel trito e ritrito, e invece Sollima porta lo spettatore a riflettere su qualcosa che va oltre il giochino della roulette russa. La mafia non prevede amicizie, solo affari e morte, solo interessi malati, percentuali più o meno allettanti. "Amici"...pff.

Siccome ho visto gli ultimi due episodi e sto morendo all'idea di non potervi dire di più, vi lascio con il mio immancabile invito a seguire Gomorra. 
Ah, Genny è partito per l'Honduras e...
posso dirlo? Posso?
Mo' so cazz.

lunedì 26 maggio 2014

Di Peppa Pig, e altre storie #2



Torna l'appuntamento con la rubrica dedicata a Peppa Pig & Co. qui, su CriticissimaMente. 
Lo so che la stavate aspettando con ansia, non mentite a voi stessi, anzi voglio approfittare subito per scusarmi, avendo tardato un po' nell'aggiornamento della rubrica che, in teoria, dovrebbe essere settimanale. Vedrò di rimediare e recuperare con regolarità e costanza a questo prezioso appuntamento, e sapete che penso? Che una bella storia oggi ci vuole proprio.

Una delle caratteristiche dei cartoni di oggi, molto spesso, è la semplicità. Quella che, o la capisci e di conseguenza la ami, oppure ti sfugge e sei costretto a rinnegarla, con netto e sentito rifiuto.

Io la capisco, ma spesso mi ritrovo ad applicare il mio fare "critico" anche dove non dovrei, mica per altro, a che mi serve? Peggio ancora, mi rovina delle piccole gioie che potrebbero essere anche mie e che, al contrario, proprio per questo mio vezzo maldestro, non lo sono.
Che stupida che sono. Che stupidi noi grandi...



Il pozzo dei desideri 

Nonno Pig mostra il suo orto a Peppa e a George. 
Barbabietole, cavoletti di Bruxelles e carotine bellissime, 
finché la curiosità di Peppa non arriva a una pianta del tutto insolita.
Stonata, sola solissima in mezzo a quella perfetta armonia ortofrutticola.
"Nonno Pig e questa cos'è?"
-Vedi Peppa, questa è l'erbaccia.
"E cos'è l'erbaccia?"
- È una pianta ostinata che cresce dove non dovrebbe.
E così Nonno Pig butta via l'erbaccia, continuando la visita guidata ai suoi nipotini
nel suo bellissimo orticello.
A un certo punto arriva Nonna Pig con in mano un piccolo nano di plastica.
Nonno Pig non è convinto e non capisce cosa vorrà mai farci la nonna con quel nano.
È molto semplice in realtà, sta cercando un posticino per lui, il simpatico nanetto, in giardino.
"Non c'è spazio per il tuo nano, nel mio giardino".
Esclama Nonno Pig.
"Ce n'è in abbondanza, invece".
Risponde Nonna Pig.

Al piccolo nano seguirono poi cento, mille altri nanetti da giardino e,
un piccolo pozzo.
Non era un pozzo vero però, non aveva un buco profondissimo e non conteneva acqua.
Era molto di più. Era un pozzo dei desideri.
La nonna spiega ai bambini che tirando una monetina nel pozzo, ogni desiderio sarà esaudito.
La gioia di Peppa è incontenibile, immaginate...
Invece il nonno non è per niente felice.
Be' io lo capisco.
È uno che appartiene al mondo dei grandi, anzi dei grandi bis
Uno che strappa via l'erbaccia perché ostinata, è lo stesso che non crede più che un pozzo finto possa star bene in giardino, così come centinaia di nanetti di plastica.
Ma la sensibilità dei bambini e delle donne, che siano mamme o nonne, va oltre ogni regola.
Se quel pozzo esaudisce i miei desideri e se tutti quei nanetti mi rendono felice solamente a guardarli, a saperli nel mio giardino, be', io me li tengo.

Basta poco per essere felici, e a noi grandi aiuterebbe molto provarci, anche solo facendo finta. 
Giocando ad essere felici finisce che ci si diventa davvero.
Io ci credo.
Lo ha detto nonna Pig.

sabato 24 maggio 2014

Riflessioni di un'italiana media disillusa e incazzata, alla vigilia dell'ennesimo voto che...



...con buone probabilità, non cambierà un ciufolo di niente anche questa volta.

Premetto che io non amo parlare di politica. Tuttavia, così come odio parlare di tumori e mali incurabili, prendo coscienza di un fatto imprescindibile: devo informarmi! È un mio diritto, un mio dovere e come tale, mi porta a riflettere spesso anche su questioni bizzarre e pallose, cose che eviterei tranquillamente, tipo campagne e dibattiti in tv. Nella travagliata e caotica ricerca di un'idea, giungo però quasi sempre a una conclusione. Provo a fare il punto della situazione, a valutare ogni singola "possibilità", cercando l'alternativa, qualcosa che non somigli più a tutto ciò che è stato già visto, raccontato, sputtanato e dimenticato dai nostri cari vecchi politici.

Bene.

Allora, vedo vedo vedo...
un pervertito pregiudicato ladrone con tanto di cerone. (scartato)
Uno che prima dice una cosa e poi ne fa un'altra e quasi quasi mi si allea col pervertito citato poc'anzi. (scartato, pure questo)
Uno che urla a destra e a sinistra pur sostenendo di non appartenere né all'una né all'altra. Che spacca roba sui palchi e parla di democrazia ma guai a non pensarla esattamente come lui...(peccato, all'inizio mi piacevi ma no, ora mi fai quasi paura: scartato!)
Non mi rimane che provare a guardare questo volto nuovo, questa prospettiva differente che parla "di" persone e "alle" persone.
Ci provo, proviamo...

Attenzione spoiler
Voto Tsipras.<----- qui


P.S. Se siete curiosi, evidenziate il seCretissimo voto.

"Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo"



I Rolling Stones cantavano "Time is on my side", il tempo è dalla mia parte, quando avevano vent'anni. E cantano ancora. Un antico proverbio afgano dice: "Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo", un motto contro la frenesia occidentale. Qualche capello bianco insegnerà anche a noi a ridurre la velocità e a investire nella saggezza. La prossima puntata sta per iniziare.

Così Federico Rampini introduce il lettore al suo "Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo", un libro che sembrerebbe più una scossa che porti a riflettere, "un manifesto generazionale per non rinunciare al futuro". Il titolo del libro (che leggerò a breve) si rifà a un motto afghano, e non cambia di una virgola, è esattamente così. Pensare che noi occidentali abbiamo tutto a disposizione, abbiamo la supermegatecnologia e una percentuale di successo che potrebbe (e non lo fa), garantire la migliore delle vite possibili, a chiunque. Facciamo passi da giganti ovunque, smartphone in grado di chiacchierare con noi, la vocina ammaliante di una donna virtuale che si preoccupa del nostro stato d'animo. Navigatori ci portano ovunque, i nostri hard disk vorrebbero esplodere poiché costretti a conservare tutti i nostri lavori, i nostri vezzi più o meno inutili, le nostre preziose "cose da occidentali". Foto, video, film, bollette da pagare o già pagate, ricevute e bollettini di ogni genere. Promemoria per questo, promemoria per quello e chi più ne ha più ne metta. 


Eppure, di tutto questo mare innovativo e sempre all'avanguardia, non rimane che il sapore di un corredo superficiale. Abbiamo gli orologi, ma non abbiamo il tempo. Ed è così che viviamo la nostra era cazzuta e tecnologica. Incapaci di vivere nonostante "tutto". Che te ne fai del tuo iPad o del tuo iPhone, delle tue memorie esterne megagalattiche pronte a salvare ogni cosa, se poi non sei in grado di fermarti un attimo a godere del tuo tempo, a respirare la vita per quella che è?

Penso al resto del mondo, e a quanti uomini vivano la giornata secondo una concezione del tempo, completamente diversa dalla nostra. Guardare come cambia la luce del sole, capire che è il momento giusto per un pranzo, per coricarsi o per iniziare una nuova giornata. Senza robot o macchine che lavorino al posto loro. "Loro". E noi?

Noi siamo l'homo sapiens evoluto all'ennesima potenza, sì. Quello che non ha mai tempo per gli amici, per le feste dei compagni di scuola dei figli. Quello che...
"Ciao, ho esaurito le vite a Candy Crush, puoi aiutarmi?"


venerdì 23 maggio 2014

Il Sospetto - La disperazione è fredda, e non suona il banjo.



Io credo molto nelle coincidenze, o meglio, credo che non esista avvenimento riconducibile a un altro, se non per un motivo ben preciso. Soprattutto ci credo quando si tratta di film, e di come, in un modo o nell'altro (coincidenze?), mi ritrovi coinvolta in visioni completamente diverse, eppure così legate l'una all'altra.
Che poi a ben vedere non sono così diverse, c'è sempre di mezzo un piccolo punto che diventa comune denominatore. 

Nell'arco di un mese ho visto tre film "tosti", tutti riguardanti la disperazione dell'essere umano. Alabama Monroe, Miele e Il Sospetto. Visto oggi. Questa mattina. Poco fa.

So che non si dovrebbe fare, e che ogni film in teoria fa il suo gioco se preso singolarmente, senza stare a comparare per forza o a cercare paragoni ostinati. Quel condizionale sta a significare che poi la realtà è diversa. Lo spettatore, non necessariamente critico per professione, tende a confrontare i film che vede e prova se può, a ricollegarli, a metterne in risalto le similitudini, gli abissi che li separano così come le reazioni scaturite da suddette visioni. Tutte dissimili, quasi sempre. Identiche addirittura, capita di rado ma quando accade è straordinario.

Mi capita a volte di reagire in maniera impulsiva, senza contare fino a dieci. Avete presente?
Immagino di sì.

"Continuo a non capire come ci si possa far conquistare da un tatuaggio e da un banjo. Solo perché questi devono a tutti i costi incarnare la vita, l'amore e la morte. Davvero non lo capisco. Sarà che tendo a sentire più vera la disperazione pacata che grida silenziosa tra le rughe del viso, negli occhi, nelle mani e nelle gambe che tremano e non sanno più se essere capaci o meno, di sostenere un corpo pesante e svuotato dal dolore. Ultimamente di film importanti ne sto vedendo, di film che mi prendono e mi travolgono con storie tanto vere quanto assurde. Perché così è la vita, così va il mondo e a volte basta un piccolo sospetto, una voce, un pensiero, un'immagine vista al momento sbagliato ed è la fine. Credo nel cinema e credo in quei registi che, senza troppe forzature, sanno far passare la disperazione senza farla necessariamente vedere. Attraverso sguardi rabbiosi o di un condannato a morte, come gli occhi di Lucas che non sa da dove cominciare, per affrontare la follia scaraventatagli contro. Ecco, Vinterberg è la prova vivente di come i miei dubbi in merito al clamore e alle lacrime legate ad Alabama Monroe, siano subdole, evitabili o, peggio ancora, troppo facili. Il dolore ti annienta, ti stordisce come un pugno in faccia. Lo so, in teoria non c'entrano nulla, l'uno con l'altro, ma mi interessa il discorso legato a come un regista può, o meno, dare corpo al dolore. Senza risultare ruffiano e scorretto. Il sospetto è un grande film, un dramma che riguarda gli uomini e che ti porta a credere e a dubitare di chi hai accanto, senza volerne parlare perché la paura è più grande di ogni dubbio. Le risposte che arrivano le abbiamo partorite insieme al nostro terrore, mentre il mondo ci stava crollando addosso. Ed è così".


Questo è quanto ho scritto di getto, nell'immediato post visione del film Il Sospetto.
Ora, so che è sempre antipatico andare a distruggere l'entusiasmo generale che ruota attorno a un film, in questo caso si tratta di Alabama Monroe. Ne sto leggendo di dichiarazioni d'amore e di canzonette tragiche dal sapore Country...e va bene, per carità. Ma parliamo di qualcosa che a me sfugge, non arriva. E metto sempre in preventivo che potrebbe essere un mio problema, un limite o difetto di fabbrica. Chi lo sa.

Insomma ho scritto/sto scrivendo l'ennesima (non)recensione. Mi perdonerete mai per questo?

Sarà che amo quei film che si intrufolano nell'anima dello spettatore, nella carne, e non ti chiedono né lacrime né giudizi. Non per forza.
Il Sospetto è un dramma sulla follia dell'uomo e sulla spietata forza divoratrice che hanno i nostri dubbi, i nostri sospetti. Una vita intera può essere condannata a morte da una storia sbagliata, inventata o no, a te non è dato saperlo. L'uomo è condannato al dubbio eterno, e che tu sia la vittima o il carnefice, poco cambia. Anche perché qui è in ballo una storia di quelle da prendere con i guanti di velluto. Delicata ed estremamente fragile. La fantasia dei bambini è tanto imprevedibile come la loro verità, limpida o indecifrabile a seconda dei loro piccoli ma significativi dettagli assorbiti di continuo. Una foto vista al momento sbagliato, una frase ben precisa, memorizzata così bene da poterla recitare a puntino, come se fosse tua davvero e non fosse inventata, ma "vera". 


Il film ha il grande merito di non mettere lo spettatore in condizione di schierarsi. Viviamo il dramma prima con gli occhi di Lucas, poi con quelli della piccola Klara, poi con quelli dei suoi genitori e del papà Theo, migliore amico di Lucas. E poi proviamo addirittura a metterci nei panni di quelli che reagiscono con i cazzotti e con la paura, e con la discriminazione che non ammette tolleranza. "Tu sei uno psicopatico, un malato e non puoi fare la spesa nel mio supermercato". Una donna che ti è accanto e non sa più nemmeno se dire "sì ti credo, so chi sei", oppure "no". Una lenta e crescente tragedia che da intima diventa di tutti, addirittura dell'aria e delle strade. Dei boschi che raccontano ballate di caccia e di cervi stesi al suolo, privi di vita. Una fotografia fredda. La storia di un cane che abbaia al nome di una donna sbagliata, fedele, sempre con te e proprio per questo morto ammazzato dalla paura e dalla follia degli uomini. E quando pensi che il sospetto e tutta la sua terribile odissea ti abbiano lasciato per sempre, eccolo sbucare all'improvviso. Per spararti un colpo alle spalle, e stenderti di nuovo.

giovedì 22 maggio 2014

Miele - Storie di vita e di morte, con o senza zucchero.



Valeria Golino esordisce alla regia con l'adattamento di un romanzo per niente facile, "A nome tuo" di Mauro Covacich. Il film assume nel titolo un aspetto diverso, quasi a dire subito allo spettatore che, nonostante di morte si parli, ciò che rimane ha un sapore che non fa male. Dolce, come il Miele.

Sarà davvero così? Be', no.
Jasmine Trinca è Irene, una donna cinematograficamente vittima dei cliché italiani. Sola, apparentemente senza una fissa dimora, una casa che dà sul mare e nessuno con cui condividerla. Viaggi in Messico non alla ricerca di souvenir ma di un preciso prodotto farmaceutico, il Nembutal, un barbiturico veterinario ad azione rapida. Un amante, un migliore amico nonché ex ragazzo, un padre che esiste, ma così, tanto per dire di averne uno e una madre morta dieci anni fa. La vita di Irene va avanti così, entra e esce dalle case di tutti quegli uomini o donne, decisi a mettere fine a tutto. Irene segue rigorosamente la prassi, spiega ai pazienti e ai loro assistenti che si può ancora tornare indietro, e puntualmente ciò non avviene. Chi sceglie di morire quasi mai torna sui propri passi. E va così sempre. Irene prepara il necessario, cioccolata e un po' di musica se il paziente gradisce e poi il sonno definitivo. Il corpo si abbandona e lei (una donna che non ha un ruolo ben definito nel mondo e nella società, o meglio ce l'ha, ma è illegale, non accettabile umanamente/moralmente), è lì. 


E noi con lei assistiamo a quella "morte dolce", voluta e trovata insieme alla disperazione di una vita finita già da un pezzo. Con un pizzico di spietato e cinico voyeurismo, che ci appartiene pur non consapevolmente, la Golino evita se non altro la retorica del dolore pedante e non si impone sulla questione. Anche se poi alla fine apprezziamo di più chi lo fa. Ma qui è in ballo una questione ben diversa, complessa e delicata, la più intima e indicibile delle questioni. Desiderare la morte è come sognare un mostro orribile che ci viene incontro e, nonostante la paura, trovi in lui la possibilità concreta di ricominciare a vivere. Ma come lo racconti? Come te lo spieghi questo desiderio di lasciarsi prendere e sbranare da quel mostro?

La mia è una teoria ovviamente, un pensiero che ho io di questo terribile e intimo pensiero che spesso travolge l'essere umano. E siccome ritengo impossibile parlarne senza esporsi, devo riconoscere questo merito alla regista, la quale esordisce con coraggio ma lascia in sospeso ogni giudizio. Questo non significa essere codardi o lanciare il sasso e nascondere la mano, no.

Miele è un film che risente parecchio dei luoghi comuni, come dicevo prima in merito al personaggio di Irene.
Una cosa che io non mi spiego, ad esempio, è la ragione per cui io debba per forza associare alle protagoniste femminili del cinema italiano, la solita storiella che fa così: "amplesso in macchina - nuotata in mare o piscina - viaggio in aereo - musica alle orecchie - amante con moglie e figli - migliore amico ex ragazzo al quale si è ancora profondamente legate - finale di m***a". Gli stessi che poi per fortuna, vengono soffocati dalla grandezza scenica, in questo caso specifico, che è fisica e mentale, dell'ingegner Grimaldi, un impeccabile Carlo Cecchi. Il rapporto con questo uomo solitario e stanco della vita, annoiato, è senz'altro il punto forte dell'intero film. Perché è da questo incontro che Irene inizia a rivedere la sua vita, questo mestiere assurdo seppur necessario e fino a ieri, per lei, dignitoso. I dubbi che rimettono in discussione l'idea di "concedere" la morte a chi soffre e non ne può più. Be', è una cosa di cui andare fieri...(?)

Ma quanto costa, ai pazienti stanchi di vivere, questa "dolce morte"? Eh...mica tutti se la possono permettere, come giustamente dirà l'ingegnere a Irene. Tu sei lì e guardi i tuoi pazienti morire, anche se la macchina da presa mai ci svela il fatidico momento, e la tua sola preoccupazione è che abbiano firmato quella sorta di liberatoria che parli di suicidio e ti sollevi la coscienza. Brava!
  

L'ingegnere non è un paziente come gli altri. Lui è uno di quei malati immaginari, affetti da un male invisibile, scientificamente non valido. La sua noia e la sua stanchezza nei confronti della vita ci ricordano molto un grande artista morto suicida quattro anni fa, Mario Monicelli.

Per questi uomini la morte arriva, senza zucchero. Amara e silenziosa, come l'apatia e l'indifferenza per il mondo intero; un tonfo sull'asfalto e la finestra aperta di una casa ormai vuota, al quinto piano.

Nonostante il finale risulti troppo poetico e "edulcorato", questo Miele, rimane nel complesso una buona prova da regista. Prossima visione, La bella addormentata di Marco Bellocchio.

mercoledì 21 maggio 2014

Gomorra - La serie (Ep. 3 e 4)



Scrivere del 3° e 4° episodio, dopo aver visto il 5°, è un'esperienza devo dire tra il mistico e il confusionale.
Sarà un problema mio?
Può darsi.
Eppure qualcosa mi dice che abbiamo fatto un bel salto, non che ai primi due episodi mancasse qualcosa eh? Anzi. Però adesso Gomorra ha portato a termine l'impresa più difficile: convincere lo spettatore e confermare un'idea ben precisa. Quella di una serie tv, finalmente audace, con gli attributi!


Con il 3° e 4° episodio, lo avrete letto da più parti o l'avrete notato con i vostri stessi occhi, si entra nel vivo della vicenda. Don Pietro in carcere e tutta la "baracca" da mandare avanti, senza di lui. La voglia di prendere in mano le redini, da parte di Ciro, e la paura di non essere all'altezza, mista all'esigenza di crescere, da parte di Genny, mettono in tavola le carte di una partita giocata puntando su tutto. Il rispetto del capo, il ruolo della donna/moglie/madre che deve gestire tutto, la nuova ragazza del figlio e i comandi del marito dettati da dietro le sbarre. Si vive il clima soffocante del carcere, si capisce che uno come Don Pietro ha i suoi rispetti, anche, anzi soprattutto, tra detenuti. La situazione si complica, a seguito di fatti duri da digerire perfino per un boss come Savastano. Il ragazzino compagno di cella, che si fa pestare a sangue per difendere lo "zio", e il suo gesto estremo, dettato dal rifiuto di una vita da finire in galera.
Poi la condanna ormai certa di Don Pietro, al 41 bis, il carcere più duro riservato ai condannati per mafia. 


Dal punto di vista cinematografico questi due episodi confermano pure la grande qualità visiva della serie. Si prende parte spesso a contrapposizioni forti e suggestive, contrasti che portano dentro e fuori e destabilizzano quanto basta lo spettatore. La strage degli africani, con chiaro riferimento alla "strage di Castelvolturno", del 2008, nella quale morirono sei africani e il gestore di un bar.
Qui viene fuori tutta la paura di Genny, la sua inadeguatezza, il suo è uno scendere sul campo solo per carpirne l'orrore, respirare l'odore del sangue e non capire fino in fondo le ragioni, di tutta quella vita ammazzata e gettata a terra. Tornare a casa e vomitare pure l'anima, con la mamma che ti dice:"è tutto normale, vedrai poi ti abitui". Insomma, per rendere l'idea di cosa sia Donna Ilma, non è che dica proprio così, ma il senso è quello.


Molto suggestivo anche il suicidio del ragazzo in carcere, parallelamente avviene la dichiarazione/serenata di Genny a Noemi. La vita, la morte e le scelte che facciamo probabilmente. Come a dire: "ragazzo mio, se scegli lei, la biondina che hai accanto, e decidi di fare questa vita normale, magari hai una speranza di salvarti. Ma tu non puoi scegliere, sei un Savastano. Figlio di un mafioso".

Insomma Gomorra va vista, c'è poco da aggiungere.
Made in Italy, voglio dire...
Roba da non credere!


martedì 20 maggio 2014

Con me, di me.



Questo è un post breve. Forse uno dei più brevi mai scritti su CriticissimaMente.
Siccome tutto ciò che accade nella vita, e parlo delle cose di tutti i giorni, dalle più piccole alle più grandi, è fonte primaria d'ispirazione per chiunque, delle volte ne approfitto anch'io e condivido con voi pezzetti di me.

Oggi è un giorno normalissimo, ieri invece ho scritto qualcosa di importante, di indelebile, e non su una pagina, bensì sulla mia pelle. Con l'adrenalina a mille nel corpo e l'euforia che ricorda la me di dieci anni fa. E si parlerà senz'altro di come si ceda oggi alla moda, alle tendenze e al bisogno di ribellarsi, di distinguersi con un atto che avrà effetti permanenti. 

(Chi lo sa se è davvero così...)

Io non so spiegare dal punto di vista antro-socio e psicologico il perché del mio tatuaggio. Rimarrà con me, insieme al ricordo di un pomeriggio normalissimo, con mio fratello e mio cugino che fanno gli scemi e cercano di farmi ridere. Con la voglia di vivere ogni momento senza pensare troppo al peso che avrà sul nostro domani. Cercando canzoni e frasi che vorremmo fissare per sempre, e magari a un altro tatuaggio da fare insieme. Sentire la pelle che brucia e sorridere davanti allo specchio, una volta finito. Be' è durato poco alla fine, solo quaranta minuti, nemmeno.
Qualche nuvola sopra di noi, un caffè, un paio di tramezzini e un Winner Taco.
Pensare che la felicità per oggi esiste, e non chiede il conto.


L'infinito, le iniziali dei miei bimbi e una rondine. Siamo noi, sono io e per me rappresenta tutto ciò per cui io vivo. L'amore per i miei figli e la mia presenza, il mio ruolo nelle loro vite. Noi. Il nido dove in ogni caso io tornerei. Sempre e comunque.


lunedì 19 maggio 2014

Memento - Voce del verbo Nolan




..Concentrati. Dai, trova una penna. Scrivilo. Scrivilo subito...concentrati concentrati concentrati! Non dimenticarlo non dimenticarlo non dimenticarlo! Dai, trova una penna. 
Ora scrivi questo, scrivi esattamente quello che è successo, devi scrivere esattamente quello che è successo! Forza forza forza, devo trovare una penna, Cristo! Dai, concentrati! Continua a concentrarti! Dai, tienilo a mente, forza dai concentrati, non dimenticarlo, dai concentrati, non dimenticarlo, dai, trova una penna trova una penna trova una penna trova una penna trova una penna, trova...
(Troppo tardi. No penna -no party?- No dai, è una cosa seria questa. C'è in ballo la mia salute mentale. Niente, troppo tardi anche per lei).

Ero molto tentata di chiudere qui, perché mi sento esattamente così. Confusa, frenetica, scomposta, inutile, idiota, un po' schizofrenica. Critica, ma non abbastanza. Oppure fin troppo (?).

C'è qualcosa che mi sfugge e mi sollecita il corpo e la mente. Mi prende e mi volta le spalle nel giro di un nano secondo. 
(Christopher Nolan)
Un uomo al telefono racconta storie assurde (bianco/nero), scatta e osserva foto apparentemente banali, ricorda e dimentica quasi contemporaneamente, e poi scrive qualcosa. Su carta, sul petto, sulle gambe, sulle braccia. Una donna morta lo guarda per l'ultima volta, e tu lo sai. Poi però è lui a guardare lei, sempre per l'ultima volta, e sai anche questo.
(Christopher Nolan)
Sammy ha una scintilla negli occhi, per alcuni è un bugiardo, per Lenny non del tutto. Perché Sammy ha imparato a fingere per non sentirsi diverso, il che non fa di lui un vero bugiardo. 
Natalie è buona, piena di compassione nei confronti di Lenny. Ma anche una grandissima stronza.
Teddy è il migliore amico, quello che sa tutto della storia di Lenny, dell'incidente, della moglie stuprata e uccisa, della memoria andata, distrutta, disintegrata come la sua stessa vita. Quella di Lenny, sia chiaro.
Ma se devi dubitare di qualcuno, be', allora Teddy è l'uomo che fa per te. "Non credere alle sue bugie". 
Ricordi?
-No.
Appunto!
(Christopher Nolan)


A un certo punto l'uomo che parla al telefono corre, o meglio rincorre qualcuno, un tale chiamato Dodd. Anzi no, è Dodd a rincorrere l'uomo, che poi l'uomo è Lenny. Una foto, una voce fuori campo, il viso di Natalie e i segni delle botte, le botte di Dodd. (Bugiarda, tu menti!)
No, cioè sì. Non è per niente vero. Questa è solo l'ennesima trovata della stronza...lo so.

Brutta storia, si capisce.
Ah, perché tu stai capendo qualcosa?
-No.
Appunto!
(Christopher Nolan)

La verità è che qui è rigorosamente vietato capire. Ora, può sembrare assurdo, ma è proprio così.
Io non amo lasciarmi andare (sì come no) e palesare fin troppo la mia posizione nei confronti di un regista. Figuriamoci, mai fatto in vita mia...
"Mento a me stesso per sentirmi meglio". 
Ecco perché mi pareva inutile dire che, Christopher Nolan, al suo secondo film ha praticamente già fatto quello che di solito, in media, fanno i registi dopo, che so, una decina di film? Tra i quali, almeno tre/quattro, sincerissime ciofeche. E invece no, Chris lo fa, lui è così vuole andare controcorrente. 


Lo so, dovrebbe essere una recensione questa. E non lo è. Per niente.
Io però vi giuro che ce l'ho messa tutta e, nonostante il mio evidente stato confusionale, sono certa di una cosa. Memento è uno di quei film che non dimentichi così facilmente. Una volta entrati in questo tunnel, capirete che non è prevista alcuna via di fuga. Un film che procede singhiozzando e al contrario. Toccando la psiche, le turbe mentali, la follia dell'uomo che mente (voce del verbo mentire), mente a tutti perfino a se stesso. Perché mentire è a volte necessario per sopravvivere. Ma è anche ciò che ci è più conforme.

Le nostre bugie sono accessorie, tranquillamente evitabili come una bottiglia mezza vuota in mano che non ti ubriaca. I nostri ricordi sono potenti e rimbombano nella testa con tanto di rinculo, e poi si fanno leggeri e profumati, come tutto ciò che la fantasia altera e reinventa da capo. Non è un ago a scalfire la pelle, ma un gesto ingenuo, spensierato, una cosa da nulla. Sopprimiamo i nostri errori e i nostri mali per non morire. Solleviamo indagini e cerchiamo risposte quando invece è già tutto sotto i nostri occhi, limpido, chiaro, come se fosse scritto, nero su bianco, marchiato a pelle. Immortalato, fissato per sempre, svelato al mondo intero. Raccontiamo storie e inciampiamo su noi stessi per suscitare compassione, credibilità. Evitiamo ciò che non ci piace e, cosa ancor più grave, non riusciamo ad accettarlo. E alla fine anziché provare a cambiarci, chiudiamo gli occhi perché sappiamo che il mondo lì fuori continuerà a girare, ad esserci. Ci sarà sempre una moglie da vendicare, storie da raccontare, un amico bugiardo da tenere a bada, un John G. da uccidere...

E la cosa più assurda sapete qual è?
Che Memento è come quel libro che hai letto cento volte e non ti stanca mai. Perché non conta cosa accade dopo, ma ciò che (ti)accade mentre provi a capirlo. 
Vero Chris?

sabato 17 maggio 2014

Matrimoni, canzoni e un viaggio "interstellare".



In teoria non dovrei essere qui. In pratica dovrei essere di là in camera a stirare un vestito elegante, mooolto elegante. E invece no.
Perché l'incombere di un matrimonio deve privarmi dei miei piaceri quotidiani? Delle mie piccole grandi cose che mi fanno sentire in pace con me stessa. Perché?

Mi ribello al tempo che non ho e ai vestiti eleganti di tutto il mondo, e scrivo qualcosa. Non aspettatevi nulla di che, ve lo dico. Ma cercate di capire pure che, io, se non scrivo e lascio queste pagine anche per un solo giorno, potrei metaforicamente "schiattare" di dolore e senso di colpa. Dunque...

Tra un'ora tutta la famiglia deve esser fuori di casa, bimbi, marito, vestiti stirati, e me compresa. Così sarà, lo giuro. Ma siccome ieri è uscito il tanto atteso trailer di Interstellar, che fai, non dici nulla? Be' mi pare troppo. Evviva la Warner Bros che si è finalmente decisa a distribuire un trailer comprensibile e godibile sotto ogni punto di vista. Linguistico, visivo e sonoro. Soprattutto, perché come molti avranno "udito", da sfondo c'è Evey Reborn, il brano di Dario Marianelli composto per il film V per vendetta


"Tutto quello che può accadere, accadrà. Non è una cosa poi così brutta, la Legge di Murphy". Almeno così prova a dirla, Matthew McConaughey. Per il resto attendiamo novembre, i trailer acutizzano solo l'ansia e la smania di vedere. Tirare conclusioni dopo soli due minuti e mezzo è sempre poco intelligente. Ma ciò non toglie che, qualcuno possa aver già perso l'interesse o, al contrario, averlo alle stelle. 

Novembre, novembre...non so perché, ma da Chris Nolan sono passata a canticchiare tutte le canzoni che parlavano di questo mese. Ho detto a mio fratello di prepararsi, perché Nolan quest'anno ha deciso di fargli un bel regalo, e gli ho proposto una festa di compleanno come si deve. In sala, io e lui, in mezzo il nostro regista preferito, e di nuovo lui e me. Così parte una carrellata di canzoni, alcune stupidotte, altre belle da morire. Come questa.


A questo punto non mi rimane che scappare e mettermi addosso un bel mascherone che sprizzi gioia finta da tutti i pori. Odio i matrimoni, ancor di più odio la gente che ci va. Falsi, tutti, dal primo all'ultimo. Me per prima. Allora me lo dimentico per un attimo e torno alle piccole gioie quotidiane. Una canzone così, che nemmeno è bella ma oggi mi piace. Mi piace così tanto da cantarla a squarciagola.



Ho difeso le mie scelte io ho 
creduto nelle attese io ho 
saputo dire spesso di no 
con te non ci riuscivo. 

Ho indossato le catene io ho 
i segni delle pene lo so 
che non volendo ricorderò 
quel pugno nello stomaco. 

Aaa novembre.


venerdì 16 maggio 2014

Il Google Doodle di oggi - Maria Gaetana Agnesi, chi era?



La cultura vuole che, alla base di una vita dignitosa e vivibile, ci sia il netto rifiuto dell'indifferenza. Soprattutto se questa, potrebbe un giorno, gettare terra su ciò che non sappiamo/conosciamo. Io ci credo a questa teoria (anche perché l'ho inventata io adesso), tanto che oggi ho deciso di parlarvi di una "tizia" del Settecento, della quale non sapevo nulla, nemmeno l'esistenza. 
(Via ignoranza, viiiia).

Da sempre attratta dai giochini spettacolari dei famosissimi Google Doodles, mi fermo questa mattina ad osservare il volto di una donna, sicuramente una dama, chissà una scrittrice oppure una scienziata, mi son detta. Be', non lo so finché non lo scopro, e così ho iniziato la mia ricerca su Google.

Maria Gaetana Agnesi è stata una matematica e benefattrice italiana, nata nel 1718 a Milano, il 16 maggio. Ma a dirla tutta, questa donna è stata tante cose insieme. Filosofa, aspirante monaca, genio dei numeri e poliglotta (a nemmeno vent'anni conosceva sei lingue oltre all'italiano). Studiando i trattati dei più noti matematici, la Agnesi, arrivò al suo sorprendente, "Istituzioni analitiche ad uso della gioventù". E già il titolo a me manda in tilt. Roba analitica e gioventù, nella stessa frase...bah.

Ad ogni modo, in questo trattato, la Agnesi parla di una curva chiamata "versiera". Una linea che praticamente segue procedimenti geometrici e forma una sorta di campana (come possiamo vedere nel disegno animato di Google). Ma la cosa più curiosa è che, spulciando in rete, scopro che qualcuno parla di lei come della "ricercatrice di Cristo". E io ho pensato: "non mi dire che l'ha pure trovato!".

Più che altro mi interessava sapere in quale senso, si parlasse di lei come di una donna che "cerca Cristo". Leggendo un po' qua e un po' la, svelo l'arcano.
A quanto pare, alla Agnesi, venne proposta una docenza all'Università di Bologna, con tanto di consenso del Papa, Benedetto XIV. E lei rifiutò.
Per dedicarsi a Dio.

Ebbene, Maria Gaetana Agnesi ancor prima di essere una donna dotata di uno straordinario talento, era una di quelle con "il pallino di Dio". Per carità, le opere di beneficenza alle quali si dedicò le fanno solo che onore, però pensa se una come la Agnesi vivesse ai tempi odierni. 
Forse la storia di Maria Gaetana Agnesi altro non è, che la prova dei tempi che cambiano (e di brutto!).
Però a me un po' è dispiaciuto, anzi ha fatto rabbia, il fatto che lei abbia rinunciato alla carriera per la beneficenza. So che oggi questo non avrebbe senso, sarebbe inconcepibile. E sapete perché?

Perché oggi siamo costretti a fare beneficenza, e con questo intendo tutti i lavori per i quali non è previsto compenso. E penso a chi lavora "a gratis". E so che non si tratta di una scelta coraggiosa, ma di una misera realtà che non ammette potere decisionale. Con questo che voglio dire?

Che nel Settecento ancora potevamo scegliere. Oggi no.

giovedì 15 maggio 2014

Gomorra - La serie (Ep.1 e 2)




Se avessi dovuto scommettere su me, che scrivo di serie tv, vi giuro, non avrei puntato due lire.
E invece eccomi qua, il momento tanto (non)atteso è giunto. Parliamo di Gomorra?
Ma sì dai.

A distanza di otto anni dal libro di Roberto Saviano, e sei dal film, glorioso a Cannes, di Matteo Garrone, arriva la serie tv (hai detto serie tv?). Dodici puntate in tutto, in onda su Sky Atlantic e Sky Cinema HD, Gomorra esordisce più che bene, registrando un indice di ascolti da record. 

Il regista è Stefano Sollima, colui che ha fatto del film di Michele Placido Romanzo Criminale, arte seriale, possiamo dire, visto anche lì, il grande entusiasmo da parte di critica e pubblico. Tornando ad oggi e a Gomorra, diciamo subito che non sono mancate le (prevedibili) numerose e accese polemiche riguardanti la serie.

Perché?
Be', in fondo è l'ennesima storia cine-televisiva che affronta la realtà di Napoli. Qui siamo nello specifico a Scampia, periferia nord, e a quanto pare il sindaco non ha ben accolto questo esordio seriale diretto da Sollima, così come si è fatto sentire il netto rifiuto da parte di artisti e giornalisti attivi sul web, soprattutto. Ne ho lette di svariato impeto, di queste critiche, più o meno pesanti. E mi è piaciuta la risposta di Saviano riguardo alla questione legata al rischio "empatia per la camorra". E si sa cosa si voglia/debba intendere. Lo si dice spesso (lo dicono), che il cinema istighi alla violenza, che certe cose non dovrebbero essere filmate, raccontate, perché occhio non vede cuore non duole, era così no?
E Saviano parla di un aspetto importante, forse quello che meglio distingue e fissa il confine, tra la finzione e la realtà.


"Credo che guardare Gomorra e poi emulare le gesta dei personaggi sia profondamente improbabile. Ma per una ragione: quei fatti già avvengono. Guardare alle serie televisive come a un ufficio stampa del male è uno sguardo un po' superficiale. Possono al massimo dare spunti a chi ha scelto di essere un criminale. Si torna sempre al punto di partenza: alla realtà che ha fatto fare una scelta del genere. Il film non può mai essere un'educazione al crimine. La realtà è già oltre, non è la fiction che può indurre qualcuno a intraprendere la strada del crimine nella vita. La materia su cui intervenire è quella realtà, non il film che la racconta. In 'Gomorra - La Serie' noi raccontiamo la realtà così com'è. È la nostra finzione perché ovviamente la serie è una finzione, fatta da attori. Non è un documentario".
Queste le dichiarazioni di Saviano (fonte panorama.it).

E io condivido.
Ma parliamo della serie, abbandoniamoci alla mera fantasia degli autori e spoileriamo un po'

Ci sono due clan, due famiglie potenti che iniziano a farsi la guerra. Da una parte i Savastano, dall'altra i Conte. Don Pietro è lo "zio" che tutti rispettano, il capo, il boss. E così come tutti i Savastano, anche la moglie e il figlio Gennaro/Genny godono di tali "onori". Che poi alla fine si sa, gli onori sarebbero le colpe dei padri che inevitabilmente, come un male genetico, arrivano ai figli e poi ai figli dei figli, e così via. Non solo, perché seppur di sangue differente, a tale maledizione sono condannate anche le donne dei boss, e ammetto di avere da sempre, un debole per le protagoniste femminili dei suddetti film o serie tv. Imma è la moglie di Don Pietro, e mi pare lampante la sua finta corazza, quella che ha messo addosso semplicemente per non morire pazza


E poi c'è Ciro...
(eh...Ciruzzo!!!)
Il degno figlioccio del capo, quello che merita tutta la sua fiducia, esclusiva (non voglio ricordare l'atto di fiducia estremo segnato dal cocktail di urina bevuto dal povero Ciro...vabbè l'ho detto), tanto da innescare il tormentato "dubbio". Infatti la guerra appena scoppiata con i Conte, non sarà l'unico problema di Don Pietro, perché il male più grande ora è il traditore. Quello che ha fatto la soffiata e ha mandato all'aria un carico non indifferente di merce.
Chi è la spia, l'infame?

A differenza del primo episodio, nel quale viene iniziato lo spettatore, alle vite e alle vicende di Ciro e Attilio, quelli che capiamo da subito essere la coppia perfetta, come un padre e un figlio, nel secondo si entra nel vivo e brutale nervo della storia. La vendetta fai da te, messa in atto da Don Pietro, la stessa che gli costerà la galera e le poche possibilità di uscirne, almeno non a breve. Gli affari con gli africani, mica roba da niente...e poi il delicato passaggio del "trono". Se al boss succede qualcosa, chi prende le redini del clan?
Sì, suo figlio. 
Ma Genny non è ancora pronto, vorrebbe dimostrare al padre che è forte, che può farcela, ma in fondo a lui ciò che importa davvero è trovare una ragazza che gli vuole bene. Un cuore a terra e una canzone, la voglia di correre su una moto fino a schiantarsi. Ma la paura non è ammessa, non qui. Non ora.


Ciro mi ha colpito (sì torniamo a lui) fin da subito, e credetemi, non solo perché è un grande "gnocco" (posso dirlo?). No no, sono sincera (?). Mi ha lasciato in sospeso e senza fiato la sua brutale violenza e freddezza, nel lavoro da svolgere per Don Pietro, poi però quello stesso ragazzo spietato è anche colui che piange e parla come un bambino, di fronte alla morte del compagno. 
Ti chiedi da dove parta l'umanità di questi uomini e dove finisca. Ma la risposta non c'è ed è probabile che così sarà, sempre.

Gennaro: "Gli volevi bene eh?".
Ciro: "Era come un padre per me".
Gennaro: "E com'era come padre?".
Ciro: "Facile".

Provo a concludere l'articolo come fossi una tipa piuttosto avvezza a discorsi seriali...ci provo eh?
Ehm...dunque, se consiglio questa serie?
Altroché. L'ultima serie italiana vista è stata Distretto di Polizia, ci voleva un ritorno entusiasmante.
(Ma che veramente Distretto di Polizia?)
-Sì.
(E l'eco -non- rispose...)

Bene, ci vediamo per il 3° e 4° episodio. Vi aspetto!

mercoledì 14 maggio 2014

"Supersonico" di Salvatore Luca d'Ascia



Credo sia la prima volta questa, che io mi ritrovi a parlare di un libro che, con buone probabilità, mai avrei scelto se lo avessi visto in fila tra gli scaffali, e tutto fosse dipeso dalla mia immediatezza sensoriale.

È un genere che tendo ad evitare (come la peste? - è probabile), per vigliaccheria, per una questione di ignoranza voluta, o auto imposta, ancora non lo so. Così accade quando si parla delle guerre in mondi che paiono essere collocati chissà dove, troppo lontani per interessarci davvero, cose troppo complicate. Ma chi prova a superare la paura, la pigrizia e l'ignoranza, merita almeno la nostra attenzione. La merita tutta.

Salvatore Luca d'Ascia è un medico chirurgo specialista in cardiologia. Classe 1979, padre napoletano e madre brasiliana, d'Ascia si occupa tra Napoli, Milano e New York, di nuove tecnologie applicate allo studio del cuore. 

"Dal cuore alle pagine stampate", è stato il mio primo pensiero. Incuriosita come non mai dalla storia di questo scrittore e dal titolo, inizio a leggere Supersonico. Butto via l'ignoranza, mi armo di occhi nuovi e comincio a scoprire l'inferno

Siamo nei quartieri spagnoli di una Napoli che possiamo definire "contemporanea". Qui cresce un ragazzino al limite dell'anonimato, perché la sua storia non è un caso limite, nu guaglione come tanti, con la voglia di spaccare il mondo e bruciare le tappe, quella che è di tutti i ragazzini che vogliono volare, impennare in faccia alla vita. Il mezzo/motorino sempre a disposizione, le prove da superare, le prime botte che bruciano sulla pelle, i silenzi delle strade che si scontrano con le urla stonate di tutte le vite buttate. Vasi di porcellana destinati a cadere in mille pezzi, è così che pensiamo ai protagonisti di questo libro. Così ne parla l'autore stesso e a loro è rivolto questo libro, quasi una dedica proveniente dall'oltretomba ma forte, tanto da arrivare lontano. 

Leggere Supersonico è un po' come venire aggrediti da uno sciame di api avvelenate, condannate ad attaccare per difendersi e poi morire. Cadere a terra sfatte, senza aver pensato mai una volta che il loro destino è così infame. Come le api, i ragazzini dei rioni vivono in maniera del tutto assente e passiva il loro destino. Chissenefrega della morte, se mi brucia il naso per aver sniffato benzina, o per aver ingerito chissà cosa o per aver impennato ogni motore e aver dato mazzate a chiunque. Non c'è il male finché non c'è vergogna. Quella che ti fa tremare le gambe e ti svuota, ti violenta da dietro come un boss con la canottiera aderente, sporca, sudata...

"Ribrezzo, paura, malattia, moderazione, cosa erano mai?. Non le capivo. Non le volevo. Nel cibo e nella vita erano cose per deboli e io non avevo debolezze, ma solo desideri e una fame inestinguibile, da cane bastonato. Napoli rimaneva forgia impietosa e non smetteva di battermi addosso, ma oramai io ero acciaio e non esistevano esperienze immotivate, stupide, pericolose, ma solo rabbia e fretta. E non esistevano regole e orari, catene, sonno, fatica, ma solo nuove lotte e io che volevo vincerle tutte. Bruciare ogni tempo e ogni mondo. Urlare. Ruggire. Perché ogni cosa è una guerra e in guerra il secondo posto non è ammesso e quindi io esploravo e correvo, veloce e inafferrabile, ovunque volessi. Splendente. Supersonico".

Supersonico è un pugno in pieno viso. Farà male, ma è indispensabile.

martedì 13 maggio 2014

Alabama Monroe, ma non è una recensione.



Avevo promesso a me stessa che mai avrei ceduto all'istinto, almeno non nel momento in cui so che sto per mettermi a scrivere, non esageratamente, non così.

Ho aspettato che passasse tutta la notte, ci ho dormito sopra, non ci ho voluto più pensare. Ho chiuso gli occhi dicendomi che, "domani", avrei avuto tutto più chiaro, in ordine. 

Ma quale ordine? Ma cosa vuoi chiarire ancora?
La verità (volete la verità?) è che a volte tutto diventa inutile, miseramente superfluo, tranquillamente evitabile. Ecco, ci sono momenti in cui, che tu scriva o meno, alla gente non importa. Non importa nemmeno a te stesso, ma tu non puoi farne a meno. E sai che nonostante ti farà schifo chi sei in quel preciso momento, nonostante le parole non ti verranno fuori disciplinate, corrette, pacate, sensate, tu non ti tiri indietro. Lo fai. Senza accendere il cervello, senza badare al fatto che, non averlo fatto (ecco, tipo adesso), implicherebbe un qualcosa di scomposto, di brutalmente primordiale. Come un grido nel silenzio, come la voglia di rompere per un istante ogni schema, ogni prassi. 


Ho sempre creduto nella mia facoltà critica di vivere distaccata, per mia decisione, per rispondere alla mia libertà di essere umano che sceglie il cinema come un'alternativa. L'alternativa per eccellenza. Distaccarsi aiuta a capire meglio alcune sfumature proprie dell'Arte, della bellezza, del mondo circostante. Capirebbe ciò che sto dicendo Bertolt Brecht, colui che diede allo spettatore la possibilità di vivere in maniera critica ciò che vede. 

Cosa c'entra tutto questo popo' di roba con Alabama Monroe?
C'entra, perché io oggi non sono né un critico né una spettatrice in grado di valutare un film in maniera distaccata, mi manca il punto di vista neutrale, l'essere imparziale. Se il cinema oggi mi ha messo al tappeto, è con buone probabilità legato al fatto che sia un soggetto facilmente suscettibile di fronte a certe storie. Sono una mamma. (Cristo Santissimo, sono una mamma, ma anche se non lo fossi stata avrebbe cambiato qualcosa?).


Odio le strategie mediatiche, odio tutto ciò che arrivi a speculare sul dolore, a schiaffarti in faccia il male fisico che spacca le ossa e l'anima. Odio chi ne approfitta per richiamare commozione, lacrime facili. Odio chi imbocca la via più spianata, quella che per esempio non risparmia la retorica del dolore. Se parliamo di bambini poi tutto si amplia, tutto assume sembianze abnormi, mostruose. Ma non è colpa del cinema. Questa è la vita, e io lo so. Ma oggi non ci sto. 

Film come Alabama Monroe non dovrebbero esistere. Perché ti fanno odiare lo schermo, la vita, il mondo tutto. Ti fanno vomitare l'anima sopra ogni cosa, sopra il tuo voler essere un critico, uno che rimane per indole e autodifesa, distaccato. E se non ci riesci cessi di esistere. Non ha alcun senso chi sei, che fai, come lo fai e perché. Io mi rifiuto. Rifiuto il mondo, rifiuto il cinema oggi, rifiuto le lacrime che non ho saputo versare. Le stesse che mi stanno scavando da ore un solco che non so riempire. Fanculo il cinema. Mi devasti. Ti odio. Oggi ti odio.

E comunque sì, La guerra è dichiarata credo abbia trovato la giusta via, il modo non convenzionale di trattare il dolore. Altro film, stessa storia, stesso dolore. 
Ma un altro film...

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