sabato 29 settembre 2012

This must be the place



Da una Croisette all'altra. E' così che Paolo Sorrentino passa per i Festival di Cannes proponendo, uno dopo l'altro, due film che danno al regista napoletano l'ufficiale conferma nel panorama cinematografico "mondiale". Nel 2008 fu la volta de Il Divo, la biografia drammatica resa memorabile dall'interpretazione di Toni Servillo, nei panni del senatore a vita, Giulio Andreotti. Numerosi i riconoscimenti sia in Italia che all'estero, Premio della giuria a Cannes, 7 David di Donatello e una nomination agli Oscar 2010 per il Miglior Trucco. Pensare che proprio lì, tra la Giuria di Cannes (2008) il destino volle mettere come Presidente lo stesso Sean Penn che nel 2011, diede il "benestare" al primo film "all'Estero" di Sorrentino. 

This must be the place è il quinto lungometraggio del regista campano, un regista che ha già convinto pubblico e critica fin dai tempi del suo primo L'uomo in più (2001). C'è però qualcosa in questo "road-movie" un po' rock e un po' malinconico, che, per diversi motivi, non ha convinto in modo omogeneo. Cerchiamo di capire (perché?)

Cheyenne è una rock star lontana dai palchi e dalla chitarra da molti anni. E' sulla soglia dei '50 ed è alle prese con una crisi esistenziale non del tutto chiara. Forse è depressione, forse è solamente noia. Da Dublino, dove vive con la moglie JaneCheyenne si sposta per raggiungere New York. Qui, ad attenderlo, un padre morente che non vede da trent'anni e un terribile dolore "marchiato" a pelle, chiamato Olocausto. La morte di un padre/sconosciuto e un 'umiliazione ancora viva, nonostante la morte dell'uomo che l'ha subìta in passato,  porteranno Cheyenne in viaggio per gli Stati Uniti, alla ricerca dell'ufficiale nazista colpevole di questa grande mortificazione.


"Veniamo a noi". E' vero. A un primo sguardo c'è sullo schermo un mezzo pagliaccio dark che se ne va in giro con un trolley e col "trucco e parrucco",  tipici del disadattato perennemente in conflitto con una società che non sarà mai "pronta" ad accettarlo. (Il mio pensiero va, inevitabilmente, a Edward mani di forbice...) Ed è così, perché sappiamo che Sorrentino ha puntato molto su questo, e su quel che un grandissimo attore come Penn avrebbe potuto fare (e ha fatto). Ma attenzione a non cadere nella convinzione di quanti sostengono che, Penn/Cheyenne, altro non è, che una versione rocker del Mi chiamo Sam di Jessie Nelson. Non è accettabile e condivisibile come accostamento. L'uomo di Sorrentino è un personaggio dalle mille sfaccettature. Cheyenne è il disagio per un mondo che non comprende, è il rimpianto di un cinquantenne che troppo in fretta è passato dal "farò così" al "avrei potuto fare così, e non l'ho fatto". Cheyenne è la vendetta di un ebreo costretto a subire ignobili barbarie, è la perseveranza, è la distrazione dei giovani di oggi, gli stessi che si attaccano a un'idea e non la mollano più, seppur sbagliata. 

C'è, nel susseguirsi di immagini a volte anche fin troppo strane e non collocate nella diegesi del film (mi viene in mente il bisonte o l'oca nella cucina della professoressa di storia), qualcosa che ritorna incredibilmente a capo, insieme all'uomo che arriva a "smascherarsi" sotto la finestra di una donna disperata "che aspetta". Il viaggio alla ricerca di sé stessi risulterebbe fin troppo banale se non "raccontato" in un certo modo. Tra movimenti di macchina ad immortalare gli sguardi e i passi di un uomo che si riavvicina a sé stesso. Superba la sequenza di David Byrne nei suoi stessi panni, complice la musica dei suoi Talking Heads, ma la scelta scenografica è stata altrettanto fantastica. I dialoghi quasi invitassero, "in ogni dove", al confronto e all'esternazione, cosa che oggi, soprattutto i giovani, hanno dimenticato. Non c'è solamente lo "strano" che somiglia al ritardato ben fatto dall'attorone di Hollywood, non è così. Se c'è qualcosa però, che ancora non comprendo, tra le scelte di Sorrentino, e forse l'unica, è il tema dell'Olocausto. Mi son chiesta subito se fosse davvero così necessario "servirsi" di un tema così forte e orribile (un tema che, diciamolo pure, "dove lo metti sta") per accompagnare sullo schermo la storia della rock star depressa in fuga da e verso sé stesso. (?)


Le storie e gli incontri che Cheyenne fa, non sono dei quadretti messi lì a casaccio, come molti sostengono.  La ragazza triste, Mary ( Eve Hewson, la figlia di Bono) e il ragazzo timido che non sa come conquistarla, Desmond. Porteranno Cheyenne alla scoperta di una delle cose più belle della vita, "la riconoscenza". Fare qualcosa per gli altri, rende felici (e alla fine tutto il film giunge a conclusione proprio in questo senso, il "fare qualcosa per"...). Dopo aver visto This must be the place, penso al fatto che l'autore sia un giovane regista napoletano, così, tiro un sospiro di sollievo, e torno a credere che, per il cinema italiano, una speranza magari, ancora c'è. Il bambino con la paura dell'acqua, il tatuatore, il detective e il proprietario del pick up. Una piscina senz'acqua e una casa immensa per sole due persone...


"Home, is where I want to be
But I guess I'm already there
I come home, she lifted up her wings
I guess that this must be the place".

...dev'essere questo il posto.

giovedì 27 settembre 2012

Caro Gubitosa, il tuo appello a chi scrive gratis, non mi sta bene. Ti spiego perché.


Mi sono imbattuta ieri, "l'avessi mai fatto", in un articolo scritto da Carlo Gubitosa, ingegnere delle Telecomunicazioni, giornalista free lance e saggista, il quale esordisce con il seguente titolo: Appello a chi scrive gratis tanto per farsi leggere: è il momento di smetterla. A seguire: Se ti senti una ostetrica che partorisce un nuovo giornalismo, sappi che sei solo il becchino che sta scavando la fossa a quello vecchio.


Caro blogger che su Facebook dichiari con orgoglio "me ne frego se non mi pagano. finché posso esprimere ciò che penso senza vincoli, e finché qualcuno mi legge e magari apprezza quello che scrivo".
Voglio dirti una cosa col cuore in mano: anche a me e' capitato di scrivere gratis per questo maledetto prurito alle mani che mi perseguita da una ventina d'anni, e perche' il piacere di pubblicare un editoriale su un quotidiano nazionale puo' mettere in ombra il compenso che ne corrisponde. Ma poi ho cominciato a interrogarmi sulla responsabilita' sociale delle mie azioni.
 E sono arrivato alla conclusione che i ragionamenti come quello che fai tu, e che purtroppo ho fatto anche io in passato, hanno fatto crollare il valore della professione giornalistica negli ultimi 5 anni da 100 euro a pezzo (quanto prendevo io nel 2003 per scrivere articoli da freelance sul sito di un grande gruppo editoriale) a zero.
Questo dato non possiamo piu' permetterci di ignorarlo. Non mi illudo che si possa rispolverare la "lotta di classe" per farsi valere come categoria professionale, ma almeno si potrebbe concordare sul fatto che il lavoro gratuito che genera profitto per altri e' cosa negativa che non danneggia solamente chi lo pratica. Si puo' discutere sui due euro a pezzo che a volte scendono a pochi centesimi, e possiamo farlo misurando i rapporti di forza tra editori e giornalisti, che non sono mai stati cosi' sbilanciati come in questa stagione del giornalismo. Ma sul fatto che un compenso pari a zero non sia accettabile non ci dovrebbe nemmeno essere discussione. Quantomeno non tra giornalisti.
Vorrei poi capire perche' non ti interessa la paga per  cio' che scrivi su un portale dove poi faranno centinaia di migliaia di euro di profitti con i contatti che gli porterai anche tu. Sei di nobili discendenze? Sei ricco di famiglia? Vivi ancora con mamma e papa'? In ogni caso il tuo hobbismo che se ne frega del salario per le ragioni piu' varie e' una seria minaccia alla sopravvivenza di gente che fino a ieri viveva col valore dei propri scritti e oggi stenta a mettere insieme una paga decente perche' sono arrivati in massa sulla rete persone come te che lavorano gratis pur di mettersi in vetrina.
Ma in ogni caso non credo che la responsabilita' piu' grave sia quella di chi ragiona come fai tu e come facevo anch'io in passato con responsabilita' che all'epoca non percepivo: le omissioni piu' pesanti sono quelle di un sindacato che ha accettato un contratto di lavoro dove i freelance del web semplicemente non esistono, lo stesso sindacato che dovrebbe denunciare per esercizio abusivo della professione i portali registrati come testate giornalistiche che fanno profitti pubblicitari o di altra natura sfruttando il lavoro gratuito di anime belle.
Persone che amano considerarsi "scrittori puri" amanti dell'arte per l'arte e lontani dalla preoccupazione della vil pecunia, mentre in realta' sono solo pedine di un nuovo tecnocapitalismo che monetizza sugli aggregatori la tua voglia di farti leggere, monetizza su facebook la nostra voglia di farci i fatti degli altri e i nostri dati personali, monetizza la voglia dei lettori di sentirsi alla moda cliccando sul portale piu' in voga del momento  per sapere di cosa discutere poi al bar o su twitter. Se ti senti una ostetrica che partorisce un nuovo giornalismo, sappi che sei solo il becchino che sta scavando la fossa a quello vecchio. 
Ti chiedo soltanto una cortesia: cerca di lavorare sulla tua autostima per capire qual e' vero valore che vuoi dare a quello che scrivi. Per i tuoi lettori potrai valere anche quanto Hemingway, ma per un editore se ti fai pagare zero varrai sempre zero.  E tu quanto vali per te stesso, indipendentemente dal fatto di avere dieci o diecimila click sui tuoi articoli?
Vai a vedere gli articoli che i quotidiani di carta pubblicano sulle loro pagine, pagando (nella maggior parte dei casi) chi li scrive, e fatti un'idea del valore editoriale che hanno quei contenuti, passando dai pennivendoli strapagati ai cronisti piu' umili. Decidi se tu e la tua scrittura libera valete almeno quanto loro, oppure meno di loro.
Se ti convincerai che tu vali almeno quanto il cronista piu' umile pagato da un quotidiano pochi euro al pezzo, smettila di scrivere gratis sui portali degli altri, e scrivi solo per chi ti garantisce un compenso adeguato. Se invece ne concluderai che vali di meno, smettila di scrivere e basta. 
Il nostro mondo non sara' di certo peggiore se scritti di scarso valore rimarranno confinati sui blog personali dei loro autore, e se pensi veramente di essere bravo a scrivere il tuo mondo potra' solo essere migliore se darai il giusto valore (anche economico) al tuo lavoro di scrittura.
Spassionatamente.

La mia risposta a Carlo Gubitosa:

Certo fanno sempre un bell'effetto questi messaggi rivolti a tutti quei poveri disgraziati che, come me, hanno avuto la sfortuna di andarsi a capare la peggiore delle fosse scavate in questo paese. Tutto suona come deve, già. Lavorare sull'autostima, smettere di scrivere "a gratis", fare la rivoluzione di massa...Ma poi alla fine anche "tu", che in passato hai fatto esattamente il becchino come "me", sai quale sia la realtà che con abile maestria si cerca di camuffare in articoli come questo. Crediamo ancora che un blogger, un giornalista cui gli viene negato a priori il diritto del praticantato con una qualsivoglia testata o sito, abbia davvero la possibilità di "SCEGLIERE"? Finiamola con questa favoletta sulla dignità e sull'autostima che a quanto pare ormai è carente in noi che scriviamo si, per passione, ma anche perché crediamo che prima o poi, qualcuno, qualcosa, si smuova(*) e ci apra una porta. Se io avessi davvero la possibilità di fare una scelta, di certo non farei quella della povera blogger che scrive per passione e non scenderei a collaborazioni misere e vergognose con testate o siti bombardate da annunci pubblicitari. Gli stessi che sappiamo benissimo, "finanziano". L'appello che lei fa non ha ragione. Proverei a invertire le parti. Date a noi l'opportunità di lanciare un appello, dateci la possibilità di scegliere. Me lo trovi lei un sito o una testata che paghi i miei pezzi...io sono qui. Il mio nome e cognome ce l'ha. Nel frattempo, sà com'è, IO VOGLIO SCRIVERE. E non smetto certo perché qualcuno dall'alto trovi vergognoso e immorale questo mio bisogno e questa mia ambizione con cui vado avanti, nonostante tutto, nonostante "NIENTE".

(*) La cosa buffa è che ora credo mi abbiano tipo bannata, non lo so. Fatto sta che non riesco a inserire più commenti all'articolo di Gubitosa. Volevo sottolineare che, tra opinioni differenti riguardo l'appello lanciato dall'autore, una simpatica ragazza ha avuto il coraggio di aggrapparsi a un errore grammaticale che "purtroppo" mi è davvero sfuggito e non ho avuto il tempo di correggere dopo una seconda lettura, il mio commento era già stato inserito. Conosco il congiuntivo, (si scrive smuova, e non smuovi, SI.) cara Francesca. Ragazzi credetemi, quanto mi rattrista vedere che la gente si attacchi a queste cose, quando sappiamo benissimo che ci sono "Zappe" che scrivono e vengono strapagate. E tu vieni a fare il mentore della lingua italiana a me? A una povera blogger disgraziata? Ahahahah...

Questo è quanto amici miei, volevo condividere con voi qualcosa che a me sta terribilmente a cuore. L'imbarazzante situazione che il giornalismo vive nel nostro paese è questa. Voi cosa ne pensate? Credete davvero che colpevoli di tutto ciò siano i giornalisti free lance sfruttati e i blogger che agli occhi del mondo passano per quelli che "scrivono solo per passione"?






mercoledì 26 settembre 2012

Noah. La prima foto dell'Arca di Aronofsky


Mentre si gira tra l'Islanda e gli studi di New York, arriva dalla pagina twitter di Matthew Libatique, direttore della fotografia, la prima foto dell'Arca di Noè realizzata da Darren Aronofsky. Il film, il cui titolo originale è Noah, uscirà negli Usa a marzo 2014. Il regista ha deciso di portare sul grande schermo, una storia raccontata nel Vecchio Testamento, quella che vede un uomo alle prese con una missione mandatagli da Dio: costruire un'immensa barca al fine di salvare la specie umana e quella animale dal Diluvio Universale. Sembra  infatti che Aronofsky abbia ricreato a Oyster Bay, New York, l'Arca, e sarà uno dei set del film. Dopo aver visto Russel Crowe nei panni di Noè, ecco a voi una splendida immagine dell'interno dell'Arca. Molti, me compresa, si aspettano da questo film qualcosa di maestoso, di mai visto prima, scenograficamente parlando e, la curiosità e la voglia di prender parte alla visione di un vero kolossal, si fa sentire...



Oltre a Crowe nel film, Emma Watson, Jennifer Connely, Douglas Booth, Ray Winstone e Hantony Hopkins.

(Fonte della news http://www.bestmovie.it)

martedì 25 settembre 2012

Parliamo di: View Conference 2012

CriticissimaMente è lieta di annunciarvi che seguirà la Conferenza Italiana sulla Computer Grafica, la View Conference, che si terrà dal 16 al 19 ottobre a Torino. View è oggi alla sua 13° edizione, e può vantare un programma davvero sorprendente.

Ma, cos'è View Conference?


View Conference è un evento internazionale a cadenza annuale incentrato sulla computer grafica, le tecniche interattive, il cinema digitale, l’animazione 2D/3D, i videogiochi, gli effetti visivi.
Ogni anno, View propone le novità più all’avanguardia e le applicazioni più aggiornate della realtà virtuale e delle tecniche interattive in vari campi, riservando un’attenzione particolare alle applicazioni industriali, all’ambito della formazione e a quello del cinema, grazie a presentazioni da parte di esperti di livello mondiale nell’animazione e negli effetti visivi.
View 2012 continuerà ad esplorare il confine sempre più fluido tra mondi reali e mondi virtuali. Attraverso lezioni, workshop, conferenze, incontri, mostre, proiezioni, e presentazioni demo, View continuerà a indagare le nuove frontiere del digitale, passando dal cinema all’architettura, dall’automotive design alla pubblicità, dalla medicina ai videogiochi.



La stessa direttrice Maria Elena Gutierrez si ritiene più che soddisfatta e orgogliosa del programma di quest'anno. Torino, in quei giorni, avrà infatti l'onore di ospitare due grandi registi come Genndy Tartakovsky ed Eric Darnell. Presentando in anteprima alcuni minuti dal lungometraggio di Sony Pictures Animation Hotel Transylvania, Genndy Tartakovsky condividerà la sua esperienza in questo debutto alla regia cinematografica. Lo scrittore e regista Darnell porterà alla Conferenza il delirio spassoso del suo Madagascar 3. Durante la Conferenza verrà inoltre presentato, in anteprima europea, l'ultimo corto della PixarPartysaurus Rex. Dallo stesso regista Mark Walsh. Non mancheranno poi ospiti di rilievo operanti nel mondo dei videogames e degli effetti speciali, un nome su tutti per quest'ultimo campo, Paul Franklin, premio Oscar per Inception di Christopher Nolan (parleremo di Franklin nello specifico più avanti).

Ci sarà Jason Smith, supervisore agli effetti visivi della Industrial Light & Magic, per la prima volta a View, per mostrare gli effetti visivi del popolarissimo The Avengers.Tra gli altri ospiti alla View Conference, Josh Holmes, direttore creativo di Halo, che presenterà in anteprima Halo 4. Rex Grignon, capo dell’animazione alla DreamWorks Animation. Rob Bredow, CTO alla Sony Pictures Imageworks. Chris Perry, fondatore di  Bit Films, professore di scienze e arti dei media all’Hampshire College, e direttore tecnico di A Bug’s Life e Alla Ricerca di Nemo. Vander Caballero, direttore creativo al Minority Independent Studio, e creatore dell’ irresistibile Papo Y Yo.

CriticissimaMente cercherà di tenervi aggiornati sul corso degli eventi della Conferenza, parlando ancora e di più, nello specifico, degli ospiti e dei loro ultimi lavori presentati a Torino.

lunedì 24 settembre 2012

Emmy 2012: Michael J. Fox proclama Modern Family miglior commedia dell'anno


Amici e amiche innamorate delle serie tv americane, "veniamo a noi". Si è conclusa ieri sera, 23 settembre, la 64° edizione degli Emmy 2012 per il Primetime, al Nokia Theatre di Hollywood, Los Angeles. A splendere durante il corso della serata, oltre ai vari ospiti d'eccezione come Julianne Moore, Nicole Kidman, Zooey Deschenel e molti altri, le serie tv "protagoniste" Modern Family e Homeland.

Vediamo insieme la lista completa di tutti i Premi consegnati ieri, nella notte degli Emmy 2012:


PROGRAMMI
Miglior serie tv commedia: Modern Family – ABC
Miglior serie tv drammatica: Homeland – Showtime
Miglior miniserie o film tv: Game Change – HBO
Miglior talent show: The Amazing Race – CBS
Miglior presentatore di un reality o talent show: Tom Bergeron – Dancing with The Stars
Miglior programma varietà: The Daily Show with Jon Stewart

Il cast di Modern Family
REGIA
Miglior regia per una serie tv drammatica: Tim Van Patten (episodio To the Lost in Boardwalk Empire – L’impero del crimine)
Miglior regia per una serie tv commedia: Steven Levitan (episodio Bimbo a bordo – Modern Family)
Miglior regia per un film, miniserie o speciale drammatico: Jay Roach (Game Change)
Miglior regia per un programma varietà: Glenn Weiss (Tony Awards 2011)


ATTORI
Miglior attore in una serie tv drammatica: Damian Lewis (Homeland – Caccia alla spia)
 Miglior attrice in una serie tv drammatica: Claire Danes (Homeland – Caccia alla spia)
Miglior attore in una serie tv commedia: Jon Cryer (Due uomini e mezzo)
Miglior attrice in una serie tv commedia: Julia Louis-Dreyfus (Veep)
Miglior attore in una miniserie o film tv: Kevin Costner (Hatfields & McCoys)
Miglior attrice in una miniserie o film tv: Julianne Moore (Game Change)
Miglior attore non protagonista in una serie tv drammatica: Aaron Paul (Breaking Bad – Reazioni collaterali)
Miglior attrice non protagonista in una serie tv drammatica: Maggie Smith (Downton Abbey)
Miglior attore non protagonista in una serie tv commedia: Eric Stonestreet (Modern Family)
Miglior attrice non protagonista in una serie tv commedia: Julie Bowen (Modern Family)
Miglior attore non protagonista in una miniserie o film tv: Tom Berenger (Hatfields & McCoys)
Miglior attrice non protagonista in una miniserie o film tv: Jessica Lange(American Horror Story)

SCENEGGIATURA
Miglior sceneggiatura per una serie tv drammatica: Alex Gansa, Howard Gordon e Gideon Raff (episodio Eroe di guerra – Homeland – Caccia alla spia)
Miglior sceneggiatura per una serie tv commedia: Louis C.K. (episodio Pregnant – Louie)
Miglior sceneggiatura per un film, miniserie o speciale drammatico: Danny Strong (Game Change)
Miglior sceneggiatura per un programma varietà: Louis C.K. (Live at the Beacon Theater)

Standing Ovation "for you"...

Fonte della news: http://www.cinefilos.it


venerdì 21 settembre 2012

Cani di paglia. L'ennesimo "Perché?"


Perché, è una domanda fin troppo vaga lo so, ma già solamente quel cane che oggi si pluralizza e diventa cani, aiuta a comprendere meglio, quel disperato punto interrogativo che grida vendetta.

Eppure, la storia del critico che diventa regista a me affascinava non poco. Perché dovete sapere che Rod Lurie, colui che ha avuto il gran coraggio di accostare la parola "remake" al capolavoro degli '70 diretto da Sam Peckinpah, era proprio quello che per professione e, ancor più per istinto, già solo al pensiero di dover accettare "l'idea", di un remake, si corrodeva dal di dentro. E allora? Come ce lo spiega il regista, tra l'altro non del tutto "accio", che nel 2000 dirige un cast brillante per il film The Contender, Gary OldmanJoan Allen, Jeff Bridges e Christian Slater (?).
Insomma i remake nessuno li vuole, e nessuno li chiede, eppure, sembra ormai essere destino che proprio quando meno te lo aspetti: "SBAM"!. E non hai alcun mezzo per difenderti, per evitarlo. Anche se mentre "tu", col telecomando in mano, dal momento che leggi "Cani di paglia", come dire, il sospetto dovrebbe rinsavirti. Ma "ti" piace l'avventura, ti piace rischiare e finisci col fare nottata in sala sul divano per provare a dare anche un misero "senso" al film che, ti ha "fraudolentemente" sorpreso.

Immagino la storia si conosca abbastanza bene, David e la "bella"Emi, sua moglie, tornano a vivere nel paese natale di lei. I due avranno subito a che fare con tensioni mai avute prima di allora. I vecchi amici della donna infatti, inizieranno a manifestare atteggiamenti piuttosto strani, "violenti". Gli stessi che, porteranno pian piano, alla metamorfosi dello scrittore tranquillo e codardo che diventa un uomo capace della più primordiale ferocia.

Povero James Marsden, mi son detta io. In quale terribile confronto ha dovuto imbattersi...il giovane attore statunitense ha avuto a che fare sempre con il ruolo del "bello e sfigato" per eccellenza. Anche tra gli X-man di Singer, forse il meno sfigato dei personaggi interpretati, nel suo mutante Ciclope, lo stesso regista che poi non gli ha risparmiato il ruolo del marito di Lois Lane in quell'obbrobrio di Superman Returns. Ho come l'impressione che manchi a questo attore la vera possibilità di riscatto (Che qualcuno gliela dia, per favore!!!). Per non parlare del marito cornificato e contento "contro" un pezzo di UOMO come Ryan Gosling. Questa è cattiveria...

Tornando al film Cani di paglia, vien da ridere solo a pronunciarlo, Marsden devo dire che ce la mette tutta a omaggiare Dustin Hoffman. Invani però i suoi tentativi di assecondare le stesse movenze e la sua stessa maniera di indossare la camicia, o il modo di aggiustarsi gli occhiali sul volto. Il David di Hoffman era un uomo dal carattere quieto e il regista che lo diresse ha saputo curar bene questa lenta e sconvolgente metamorfosi, caricandola di suspense e adrenalina "psicologica". E' un film violento quello di Peckinpah, un dramma sulla violenza e sull'abattimento delle leggi etiche e morali che governano l'uomo, anche il più mite. Quello dal quale non ti aspetteresti mai l'epilogo del caos e del sangue, di cui egli stesso è artefice.

Il film in quegli anni venne infatti vietato ai minori di 18 anni, così come vennero fatti dei tagli alla scena della violenza subita da Emi, ben diversa quella della Kate Bosworth (2011) rispetto a quella della Emi, Susan George (1971).

Comparando le singole sequenze, c'è da ammettere che dal punto di vista puramente formale, Lurie ci riesce pure, a salvaguardare l'insegnamento di Peckinpah. Però è doveroso ricordare che non basta certo questo. Non basta il rifacimento fedele della forma che ha fatto di un film un capolavoro. E i rischi che si corrono poi sono quelli di ritrovarsi di fronte un inutile copione che offre allo spettatore un thriller che si muove su binari ben prevedibili e scontati. E poi vogliamo parlare del "coach" fatto da James Wood?  Ridicolo, imbarazzante, ed è stata questa la prima volta in cui avrei voluto fare a meno di lui. L'americano "coatto"  del Sud che si sbronza e "gestisce" il gruppetto dei bulletti dei "Drughi della Louisiana"...





mercoledì 19 settembre 2012

Fast & Furious? No, "DRIVE".


Perché a pensarci bene, la prima immagine che ho avuto di questo film è stata proprio quella del maschione "macigno" di Vin Diesel appoggiato sul suo bolide a quattro ruote, e a tutto quel che poi, come un contagio inarrestabile ne consegue, Fast & Furious 1, 2, 3, 4, 5 e 6. Che orribile abbaglio è stato...(non me ne voglia il caro Vinicio).

Un abbaglio, appunto. Un ingannevole pre-giudizio che molto spesso uno/a si fa, su un film fatto da un regista di cui poco o nulla ha visto. Sbagliato, nulla di più sbagliato!!!
Del danese Nicolas Winding Refn in effetti non conoscevo nulla, nemmeno, ahimè, il Bronson del 2008 che vede Tom Hardy nei panni del feroce criminale protagonista, o la trilogia Pusher (1996-2004).
E devo ammettere che gli è bastato davvero "poco", per convincermi. Per farmi parlare oggi di lui, come di un giovane cineasta talentuoso e promettente. Parte col piede giusto fin dalla prima e fondamentale scelta: il protagonista, il "Driver". Il mio primissimo ricordo, tenero e adolescenziale lo vede ancora come il piccolo Hercules, il ragazzino dal viso scarno ma con quel "non so che". Forse esattamente quel che serve a dare uno sguardo lungimirante sul futuro di un giovane attore. Ryan Gosling è stato fin troppo esaudiente circa le mie aspettative. Bastano un paio di titoli a prova di ciò che sto affermando, The Believer di Henry Bean (2001), Half Nelson di Ryan Fleck (2006) e Blue Valentine di Derek Cianfrance (2010). Tutti film da recuperare qualora non li aveste ancora visti.

E oggi, in un emblematico gioco di ralenti e scatti dalle sfumature dorate, il regista che uscì tra gli applausi dal Festival di Cannes (2011) con il merito per la miglior regia, mi incolla davanti allo schermo, impalata e immobile di fronte allo sguardo "laconico" del protagonista. Un ragazzo disegnato con i tratti dell'anonimato. Un uomo sul quale non è concesso saper nulla, se non il suo "ruolo", colui che guida. Ma è fin troppo evidente che l'etimologia e la traduzione "letterale" del termine che dà il titolo al film, non basti ad interpretarne il senso, i molteplici significati. Il "Ragazzo", così come lo chiama Shannon, amico e proprietario dell'officina per cui lavora, alterna la sua vita tra il ruolo del meccanico/stuntman, a quello dell'autista al servizio della malavita. Ma l'incontro e un sentimento profondo per la donna della porta accanto, lo metterà sul volante nel mezzo della rapina sbagliata per gli uomini sbagliati.
Fin dal principio la storia, che si rifà al romanzo omonimo di James Sallis, è caricata, in modo mai eccessivo, di quegli espedienti che rimandano all'action stile Miami Vice o a momenti significativi (vedi la scena del bacio in ascensore resa ancor più efficace col ralenti) che ricordano alcune sequenze dei film di Tarantino. La parte musicale curata da Cliff Martinez è davvero sorprendente, con brani che spesso "stonano" con le immagini, creando un effetto disorientante ma quanto mai funzionale alla diegesi filmica (e sonora). Ogni cosa "nel quadro" non viene messa a caso. Tutto "ruota" come la chiave di un rebus da risolvere. La casa del ragazzo, vuota. E lui sembra non viverci affatto se non per mettere a punto un pezzo dell'auto. La sua vita va sul volante, quasi lasciata in balìa degli eventi. 500 dollari per fare la controfigura della star, correre in pista assecondando i progetti di un uomo inaffidabile come Shannon. Imbattersi in una rapina pur di aiutare il marito della donna che riesce perfino a rubargli un sorriso, un'espressione più decisa su quel volto sempre spento. Nel passato di Driver c'è qualcosa di misterioso ma certamente oscuro, terribile. Qualcosa che gli ha insegnato a tirar fuori una rabbia e una ferocia inaudita. La stessa però che non riesce a controllare sotto gli occhi spauriti della donna che ha appena baciato, alla quale ha aperto, seppur per un istante (dilatato dal ralenti), il suo cuore.

Una doverosa nota di merito per Carey Mulligan nei panni di Irene

Una performance splendida per il giovane attore canadese. Un personaggio che difficilmente dimenticheremo. Un uomo, "un nessuno" (pensate anche voi a quel che penso io?), che si muove per le strade di Los Angeles con un'auto. Senza nulla addosso se non quel cappotto e quel suo scorpione dorato...

venerdì 14 settembre 2012

"Un venerdì da cinepanettoni". Mereghetti vs Sky


Si discute in queste ore riguardo l'articolo apparso ieri su Il Corriere della sera, scritto da Paolo Mereghetti, contro lo spot in onda su Sky dall'invitante titolo: Un venerdì da cinepanettoni.
Il critico italiano, che io peraltro non amo in particolar modo, ha fatto le sue considerazioni, ritenendo colpevole l'emittente televisiva di esaltare la bassa qualità e il disimpegno, promuovendo film cretini a sfavore di quelli di qualità.


<<Forse è solo un caso, una coincidenza fortuita, ma il livore gratuito che si legge in certi attacchi a Marco Bellocchio e il disprezzo grossolano che Sky ha messo in campo per pubblicizzare la programmazione di una serie di cinepanettoni mi sembrano i sintomi di un’unica, inquietante mentalità: il disprezzo qualunquista per una cultura che si vorrebbe all’altezza dei tempi e che quei tempi cerca di interrogare, contrapposta all’esaltazione di un cinema di disimpegno e disinformazione ma che permetterebbe di «rilassarti» e «farti una risata fuori stagione».
È questo il messaggio finale di uno spot in onda in questi giorni. Quattro amici al tavolo di un ristorante discutono come impiegare il venerdì sera: chi propone «l’ultimo film di Kiarostami», chi «Godot al mattatoio», chi deve scegliere tra «una performance tribale e un concerto di musica concreta», salvo poi decidere per un «cinepanettone per tutti». Lo dicono sorridendo ma anche vergognandosi non poco delle proposte precedenti, tipiche, ci viene suggerito, del culturame intellettuale che si riempie la bocca di belle parole (magari in difesa di Bellocchio, viene da aggiungere) e poi non può fare a meno di divertirsi con quel tipo di film, «con le sue allegre scorregge, le sue battute pesanti e gli inevitabili flussi di m… in faccia a De Sica e a Ghini, rutti compresi», come ha sintetizzato uno dei massimi teorici nazionali del genere>>.
Qui potete leggere l'articolo completo

A leggere l'articolo di Mereghetti è chiaro lo spirito polemico, del critico ferito nel "profondo". Ma non è chiaro, e forse non può esserlo in maniera definitiva, l'atteggiamento ideale che un lettore/spettatore debba assumere di fronte allo spot imputato. Voglio dire, la reazione di Mereghetti è stata quella di un cinefilo/critico che si è formato negli anni più importanti del cinema italiano. Per uno che si è laureato in Filosofia discutendo una tesi sul cinema di Orson Welles, è fin troppo palese lo sconcerto di fronte a uno spot del genere. Io non amo le sue recensioni, né tantomeno ho mai letto il suo Dizionario dei film, quello che dal 1993 sembra essere il più venduto in Italia. Giusto per intenderci...

C'è chi si trova d'accordo con Mereghetti, e dunque ha interpretato lo spot come uno squallido stratagemma commerciale mirato a incentivare ancora di più quella fetta spettatoriale che tanto ama perdersi nelle risate   (risate=parolacce, rutti e scorregge) e godersi al meglio il venerdì sera. Ma, molti si domandano (me compresa), non sarà un atteggiamento troppo "snob", del critico che vuole a tutti i costi imporre un pensiero assoluto che esiste da ormai mezzo secolo? E se il Mereghetti avesse espresso comunque il suo (condivisissimissimissimosibile) pensiero dando però all'articolo una leggera dose di umorismo, mettendo da parte l'ostentata rabbia e il risentimento del critico"con gli attributi"?

Io non discuto sul "merdume" cinematografico...quello è, e quello rimane. Attenzione a non fraintendere!!! Il fatto è, che delle volte, mi piace prendere le cose dando loro una sottile sfumatura di ironia e umorismo e concedere magari molteplici interpretazioni, anche a uno spot pubblicitario che di "primo acchito" condannerei a morte. I quattro "soggetti" del video altro non sono che parodia dello stesso pubblico che ogni Natale va al cinema a vedere i film di De Sica e Boldi. Quelli che vedono nel cinefilo che apprezza la qualità, l'intellettualone occhialuto e pesante, incapace di passare un venerdì sera all'insegna delle risate...



mercoledì 12 settembre 2012

"A proposito di"...Roger Ebert.

Pochi giorni fa, discutevo con alcuni amici riguardo ai più importanti critici cinematografici, quelli che in poche parole possono permettersi di dire: <<Ebbene si, io faccio il critico!!!>>, senza dover subire le risatine malefiche e deprimenti di chi ha di fronte (come faccio io, ad esempio).

Dopo aver dedicato un breve articolo a Fernaldo Di Giammatteo, vorrei spostarmi "oltreoceano" e parlare di  Roger Ebert, l'uomo dei Movie Year Book, la penna storica del Chicago Sun Times.

Ebert è un critico e sceneggiatore statunitense, classe 1942. Vinse il Pulitzer per la critica nel 1975 ed è stato il primo critico cinematografico a guadagnarsi una stella nella Walk of Fame di Hollywood (2005). Conduttore di una trasmissione televisiva, dedicata al cinema (ovviamente), e autore di numerosi saggi, Ebert rientra "per merito" nella lista dei migliori critici "viventi".

Avete presente il sistema delle "stellette" che tanto va di moda oggi al fine di valutare un film? Bene, lo ha inventato lui. Ogni recensione di Ebert si conclude infatti con un punteggio in stelle, che va da un minimo di mezza stella a un massimo di quattro. In alternativa, come molti di voi sapranno, il sistema dei Thumbs Up o Thumbs Down (pollici in su/pollici in giù). Anche se, lo stesso critico, ci tiene a specificare che si tratta pur sempre di un concetto di valutazione piuttosto relativo: "Il sistema delle stellette è da considerarsi relativo, non assoluto. Quando chiedete ad un amico se Hellboy è un bel film, non gli chiedete se è un bel film rispetto a Mystic River, gli chiedete se è un bel film rispetto a The Punisher. E la mia risposta sarebbe che, se in una scala da 1 a 4 Superman è 4, allora Hellboy è 3 e The Punisher è 2. Allo stesso modo, se American Beauty è un film da 4 stelle, allora Il delitto Fitzgerald ne merita due".

Pensate che, proprio per i film che vanno da 1½ stella in giù, Ebert ha raggruppato tutte le sue recensioni più sferzanti nel suo Roger Ebert's Most Hated. C'è poi la raccolta in due volumi su quei film valutati "zero stelle", il primo uscito nel 2000, I Hated, Hated, Hated This Movie (tratto dalla recensione del film Genitori cercasi del 1994), e il secondo, pubblicato nel 2007, intitolato Your Movie Sucks, frase conclusiva della recensione di Deuce Bigalow - Puttano in saldoD'altro canto, non manca la lista dei film considerati dal critico i più importanti, sia dal punto di vista tecnico che puramente estetico e visivo, Great Movies. Per i film precedenti al 1961, il sistema delle stellette, ancora non esisteva.
Ma ciò che più mi affascina di quest'uomo è il suo Movie Yearbook (sentite come suona bene...), una raccolta delle recensioni scritte durante l'anno appena concluso.


Arriva in questi giorni poi, la notizia di un film-documentario sulla vita di questo grande critico, ispirato proprio all'autobiografia scritta dallo stesso Ebert (Life itself), diretto da  Steve James e Steve Zaillian, e prodotto dall'amico di vecchia data Martin Scorsese. Questo il pensiero di Ebert sul film: "Dicono di avere una buona idea. Penso che Hoop Dreams di Steve James sia uno dei più grandi documentari mai fatti, e le mie aspettative sono alte. Non ho mai pensato al mio libro come a un documentario. Sto facendo in modo di non essere coinvolto a nessun livello, neanche per la sceneggiatura, perché non voglio essere la terza ruota. Qualunque cosa faranno ne sarò affascinato".
Oltre alla stima per il Roger/critico, c'è quella ancor più grande, più consistente. Quella per il Roger/uomo, un uomo costretto a convivere con una terribile malattia, che riesce ad affrontare tutto con una dose di carattere da vendere. 
"La mia vita è felice. Nessuno sembra perfetto, dobbiamo trovare la pace con il nostro modo di guardare e andare avanti con la vita". (Roger Ebert)

Avevo voglia di dedicare qualche riga a questo grandissimo critico e credo la cosa si ripeterà per tutti quei critici che si rispettino. Il mio sogno non è diventare come loro, sarebbe infantile dire una cosa del genere. Quello che voglio io è imparare tramite loro, crescere seguendo il loro esempio. Proseguire su questa strada credendo che alla fine, forse, un'ambizione può veramente portare lontano...

P.S. E se scrivessi anch'io un Movie Yearbook, lo comprereste?

lunedì 10 settembre 2012

Up. L'avventura di una vita, una casa volante e una miriade di palloncini colorati


Chi l'ha detto che l'animazione è "parente" meno fortunata della settima arte? Forse chi sostiene questa assurda e inaccettabile tesi non ha mai visto quei pezzi d'animazione che, da soli, basterebbero a far parlare di "cinema", quello vero!!!

Bene, Up, è esattamente uno di quei film da vedere almeno una volta nella vita, anche solo per rendersi conto sul serio, del reale potenziale che un "cartone" fatto in un certo modo, può sfoggiare senza preavviso, lasciando lo spettatore divertito e commosso al tempo stesso; catapultarlo in un vortice incredibile di colori e suoni che arrivano fino all'anima. E non si bada a dati anagrafici. Perché Up, come del resto tutti i film nati in casa Pixar, è un film pensato apposta sia per il bambino che per il papà, quello che magari credeva di andare solamente ad accompagnare il figlio al cinema a vedere "un cartone".

Con UP (che rappresenta il primo 3D per la Pixar), Pete Docter (Monsters & Co.), inaugura il Festival di Cannes 2009 e lo fa esibendo il capolavoro n°10 sfornato dalla Pixar (Disney). Era dai tempi del classico La Bella e la Bestia che un cartone non riceveva una nomination come miglior film. E alla fine saranno ben due statuette a conferire a questa malinconica e divertente avventura il merito per il Miglior film d'animazione (Pete Doctor) e per la Migliore colonna sonora a Michael Giacchino ( Ratatouille e Gli Incredibili).
Ma al di la dei riconoscimenti, come accadde anche in Wall-E, precedente a Up e diretto da Andrew Stanton, basterebbe guardare i primi 10' del film per capire che presto avremmo assistito a un altro capolavoro. I dialoghi sono azzerati, a parlare sono i suoni e i colori, è la forza dell'immagine la protagonista assoluta. Ripercorrendo in un brevissimo arco spazio-temporale la vita di Carl ed Ellie lo spettatore rivive le emozioni del signor Fredicksen, il tipico "vecchietto" dall'aspetto scontroso e brontolone, vissute accanto all'amore della sua vita, compagna di sogni, gli stessi che avrebbero portato entrambi ad esplorare il mondo.


Arriva però anche in Up il culmine della drammaticità, quella che a stento fa trattenere la "lacrima". Il film ad un certo punto prende le sembianze di una malinconica vita fatta di rimpianti, alimentata dal ricordo onnipresente della moglie ormai scomparsa. Ma c'è ancora una possibilità per Carl, quella di vivere la più grande avventura della sua vita...

Servendosi delle qualità acquisite grazie al lavoro di tutta una vita, Carl, che è infatti "l'uomo dei palloncini", inizierà una inaspettata avventura in stile "Indiana Jones", lanciata nel cielo e appesa a un nuvolone immenso di palloncini colorati. Un uomo che arrivato sulla soglia dei 70, decide di lasciare la terra per un viaggio a mezz'aria, portando con sé tutto ciò che gli rimane, una casa. A dare al film una sempre gradita sfumatura comica e divertente, un grazioso novello Boy-Scout, grassottello e fin troppo caparbio, un cagnolone parlante e uno "struzzo in Technicolor" da salvare dalle grinfie del "cattivo" Muntz.


Ripensando con immenso piacere al cinema del Maestro dell'animazione Miyazaki, si guarda Up e si apprezza sempre di più la vincente impresa della Pixar: la ricerca di un equilibrio che si muove a metà, tra la perfezione puramente grafica e spettacolare e una carrellata di emozioni e rimandi a quei film che hanno fatto la storia del cinema.

sabato 8 settembre 2012

Venezia 2012. Leone d'oro a Kim-Ki duk


Si conclude oggi l'edizione n° 69 del Festival del cinema di Venezia. C'era nell'aria una "mezza" idea sul probabile vincitore e per la maggiore si pensava proprio al film del coreano Kim. Forse ci si aspettava di più per la Bella addormentata di Marco Bellocchio (?). Vediamo l'elenco completo dei Premi:

LEONE D’ORO per il miglior film a Pietà di Kim Ki-duk (Corea del Sud)
LEONE D’ARGENTO per la migliore regia a The Master di Paul Thomas Anderson (Stati Uniti)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA a Paradies: Glaube di Ulrich Seidl (Austria, Germania, Francia)
COPPA VOLPI per la migliore interpretazione maschile a Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix
nel film THE MASTER di Paul Thomas Anderson (Stati Uniti)
COPPA VOLPI per la migliore interpretazione femminile a Hadas Yaron
nel film LEMALE ET HA’CHALAL di Rama Bursthein (Israele)
PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore o attrice emergente a Fabrizio Falco
nel film È STATO IL FIGLIO di Daniele Ciprì (Italia)
PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA a Olivier Assayas
per il film APRES MAI di Olivier Assayas (Francia)
PREMIO PER IL MIGLIORE CONTRIBUTO TECNICO, PER LA FOTOGRAFIA, a Daniele Ciprì
per il film È STATO IL FIGLIO di Daniele Ciprì (Italia)
LEONE DEL FUTURO - PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA (LUIGI DE LAURENTIS) a:
KÜF (MOLD) di Ali Aydin (Turchia, Germania) 

 Pietà, di Kim Ki-duk

ORIZZONTI

PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM (riservato ai lungometraggi) a San Zimei di Wang Bing (Francia, Hong Kong)
PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI (riservato ai lungometraggi) a Tango Libre di Frédéric Fonteyne (Francia, Belgio, Lussemburgo)
PREMIO ORIZZONTI YOUTUBE PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO a Cho-De di Yoo Min-young (Corea del Sud)
EUROPEAN FILM AWARDS 2012-EFA a Titloi Telous di Yorgos Zois (Grecia)
 LEONE D’ORO ALLA CARRIERA 2012
a Francesco Rosi
JAEGER-LECOULTRE GLORY TO THE FILMMAKER AWARD
a Spike Lee
PREMIO PERSOL
a Michael Cimino
PREMIO L’ORÉAL PARIS PER IL CINEMA
a Giulia Bevilacqua

Fonte della news http://www.labiennale.org

venerdì 7 settembre 2012

Cinquanta sfumature di grigio. Il best seller più squallido dell'anno.



 E fu così, che per un terribile e ingannevole “passaparola” dilagato nel web tra le “combriccole vecchio stile Harmony”, più di 10 milioni di persone solo negli USA, e in soli sei giorni, hanno letto il best seller più squallido dell’anno.

Questa mattina mi cade l’occhio su un articolo apparso sul Corriere della sera.it, il cui titolo recita: «Cinquanta sfumature di grigio» e la trilogia erotica: boom di nascite in Inghilterra.  L’autore è Francesco Tortora e il fatto assolutamente curioso, palese almeno per chi il libro lo ha “sfortunatamente” letto, è constatare quale effetto possa avere sui lettori di mezzo mondo, e a quanto pare anche sui giornalisti,  un libro che senza mezzi termini si può definire inutile e “obbrobrioso”.
La cosa che a me sconvolge di più ad essere sincera è l’idea di navigare in rete cercando notizie o recensioni su un libro per ritrovarmi poi accidentalmente scaraventata nelle ridicole e vorticose confessioni delle mamme inglesi, con la fiamma ardente ritrovata,  grazie alla loro (ormai) beniamina del sesso proibito Erika Leonard James. Possibile che la gente trovi così interessante accostare il boom delle nascite in Inghilterra a un fenomeno tristemente editoriale, tanto triste e tanto fenomeno, da vincere addirittura il record sbalorditivo detenuto fino a “ieri” dalla Saga del Maghetto scritta dalla Rowling?

Vabbè dai, però se oggi la chiamano Mommy Porn, vale davvero la pena comprare il suo libro no? Quale considerazione si ha delle lettrici medie? Mi domando io. Di tutte le donne che dedicano gran parte del loro prezioso tempo alla lettura, casalinghe, lavoratrici, giovani, mature, sole, sposate, mamme, amiche… Io non accetto il fatto che si parli di questo libro come di un fenomeno letterario e si associ il “dramma” ai gusti e alle esigenze provenienti soprattutto dal pubblico femminile. Anche se è evidente che parliamo di un libro scritto e pensato  per il “gentil sesso”. Non voglio sembrare contraddittoria, ma è chiaro che se una donna entra in libreria e compra così, per caso, Cinquanta sfumature di grigio, lo legge tutto d’un fiato, ne rimane affascinata (magari resterà l’unica a godere di tale beneficio) tanto da chiamare l’indomani la migliore amica “obbligandola” a correre in libreria… beh, sappiamo come va a finire. Altro che catene di Sant’ Antonio...

Ma, lasciamo perdere il “gossip” e veniamo alla “critica”, quello che a me interessa. Siamo sicuri che bastano frustini sadomaso e il giochino del “Io sono il Dominatore e tu la mia Sottomessa” per poter parlare di Letteratura erotica? Io non ho competenza tale da sfoderare “i Classici” del genere, ma chi ne ha letti più di me, potrebbe invitarvi a leggere alcuni di questi titoli per poi riprendere in mano il libro della James e provare a riflettere un attimino: Justine o le sventure della virtù di François de Sade (Rizzoli), L’amante di Lady Chatterley di David H. Lawrence (Rizzoli) e per finire direi la Lolita di Vladimir Nabokov (Adelphi), forse l’unico libro del genere che io abbia veramente letto e apprezzato in ogni minimo dettaglio.

Il linguaggio della James risulta noioso, ripetitivo, banale ai livelli nel nostro carissimo Moccia. Assente il pathos che ogni romanzo “d’ammore” dovrebbe avere. Manca del tutto il coinvolgimento del lettore, si ha quasi la sensazione di  sfogliare il diario di una diciassettenne alle prese con le sue prime esperienze sessuali. Si ripetono pesanti e fastidiose le circostanze che anticipano i momenti più ardenti. Lei che si morde il labbro e a lui gli parte la vena; Lui che guarda verso l’alto, lei che parla con la sua Dea interiore farfugliando sempre con se stessa. Ma basta… Sembra una versione leggermente più  colorita delle “peripezie” amorose dello sbiadito Edward Cullen e dell’imbranata Bella Swan. Lui ricco, bello e misterioso. Lei, imbranata, goffa che rischia la vita ad ogni scalino…
Ne abbiamo abbastanza!!!

Sembra ormai certo che la Universal abbia addirittura acquistato i diritti del libro e si stia già pensando a un Christian Grey fatto da Ryan Gosling. Ma...magari il grande schermo compie "il miracolo"...(?)

Della serie: “Che cosa faranno ora Ana e Christian”? “Ci sarà un lieto fine per loro”?
Per i più coraggiosi, i capitoli successivi al primo, Cinquanta sfumature di grigio (io con il primo direi che STO!!!): Cinquanta sfumature di nero e Cinquanta sfumature di rosso. (Miii, che fantasiiia…)


giovedì 6 settembre 2012

Una nuova sinossi ufficiale per Lo Hobbit


La Warner diffonde quest'oggi un'altra sinossi ufficiale "in italiano" del primo capitolo della nuova trilogia di Peter Jackson dedicata a J.R.R. Tolkien, Lo Hobbit. Il film, in Italia il prossimo 14 Dicembre, ritrova nel cast Il Gandalf interpretato da Ian McKellen, Martin Freeman nei panni del protagonista Bilbo Baggins, e Richard Armitage per Thrin Oakenshield. Sempre dalla precedente trilogia de Il signore degli anelli, Cate Blanchett/Galadriel, Ian Holm/Bilbo anziano, Christopher Lee/Saruman, Hugo Weaving/Elrond, Elijah Wood/Frodo e Andy Serkis per Gollum. A completare il cast: Jed Brophy, Adam Brown, John Callen, Mark Hadlow, Peter Hambleton, Barry Humphries, Stephen Hunter, William Kircher, Sylvester McCoy, Bret McKenzie, Graham McTavish, James Nesbitt, Dean O’Gorman, Conan Stevens, Ken Stott, ed Aidan Turner. In fase di sceneggiatura accanto a Jackson, che ha anche prodotto il film, Fran Walsh, Philippa Boyens e Guillermo del Toro. Per la componente musicale, ancora una volta, il grande e impeccabile, Howard Shore.

La storia racconta il viaggio del protagonista Bilbo Baggins, coinvolto in un’epica ricerca per reclamare il Regno Nanico di Erebor governato dal terribile drago Smaug. Avvicinato dal mago Gandalf il Grigio, Bilbo si ritrova al seguito di tredici nani capeggiati dal leggendario guerriero Thorin Oakenshield. Il viaggio li conduce per terre piene di pericoli e avventure, abitate da Goblin e Orchi e implacabili Wargs. La loro meta principale è raggiungere l’Est e le aride Montagne Nebbiose, ma prima dovranno sottrarsi ai tunnel dei Goblin, dove Bilbo incontra una creatura che gli cambierà la vita per sempre… Gollum. Qui, da solo con Gollum, sulle rive del lago seminterrato, l’ignaro Bilbo Baggins non solo si scoprirà così ingenuo e coraggioso al punto da sorprendere persino se stesso, ma riuscirà a impossessarsi del “prezioso” anello di Gollum che possiede qualità inaspettate ed utili… un semplice anello d’oro, legato alle sorti della Terra di Mezzo in modo così stretto che Bilbo non può neanche immaginare.

Fonte della news http://www.cineblog.it
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