giovedì 31 gennaio 2013

Paperman, un amore "di carta".


Arriva finalmente nella versione integrale, il corto della Disney diretto da John Kahrs e proiettato in anteprima al Festival di Roma introducendo il lungometraggio, Ralph Spaccatutto. Io quella mattina ero presente, la sala gremita di bambini euforici e carichi per il film che di lì a poco avrebbero visto. La cosa straordinaria però, è stata la calma e la pace fatta di assoluto silenzio durante questi sei minuti "animati", tanto da ammutolire anche il più irrequieto dei "mocciosi".

Kahrs, già supervisore in passato di importanti "pezzi" d'animazione come Tangled (2010), The Incredibles (2004) e animatore in Bolt (2008), Ratatouille (2007), Monsters Inc. (2001), Toy Story 2 (1999), A Bug's Life (1998) arriva oggi a compiere qualcosa di rivoluzionario. E se è vero che a volte la Rivoluzione più importante sta nel "ritornare" indietro e riscoprire il passato, questa, si potrebbe considerare tale a tutti gli effetti. Già, perché realizzare un corto il più similare possibile alle linee Disney-Pixar che bene si sposi alla naturale armonia di un disegno fatto "a mano", può risultare qualcosa di veramente straordinario. Ed è così che Kahrs, decide di raccontare uno degli attimi più indecifrabili e sfuggevoli della vita di ognuno, quello dell'innamoramento. Il primo sguardo, il destino che fa incontrare due persone, le separa facendogli scalpitare i cuori per poi farle ritrovare, di nuovo, l'una accanto all'altro. Questo è, Paperman...


Scendendo nei meandri più tecnici e specifici dell'animazione e delle tecniche che la riguardano, Paperman vanta l'utilizzo di una nuova tecnologia chiamata "meander" che, se non ho capito male, punta sulla fusione del 2D col 3D (per farla molto molto breve). Ciò significa che i protagonisti del corto di Kahrs sono stati realizzati tramite disegni in 2D, gli sfondi sui quali si muovono sono invece opera della Computer Grafica e la cosa straordinaria è proprio l'impatto che avviene quando questi si incontrano.

Detto ciò, consiglio a tutti di ammirare questo piccolo gioiellino d'animazione che, con assoluta eleganza e fascino del "vecchio stile" cattura lo spettatore; regalandogli quelle emozioni soffici e indispensabili per vivere. Quelle che, silenziosamente, come un soffio di vento, ti cambiano la vita...

                                      

mercoledì 30 gennaio 2013

Rio, "quanta magia"...


Dopo aver diretto l'Era glaciale 2: Il disgelo e L'era glaciale 3: L'alba dei dinosauri, Carlos Saldanha passa in terra natìa per mettere in scena un esplosivo e colorato trionfo dell'animazione, Rio. Il film, arriva nelle sale nel 2011e racconta le avventure rocambolesche di un Ara Macao chiamato Blu. Questo delizioso pappagallino, il cui nome rimanda al colore delle penne, si troverà involontariamente fuori dalle mura domestiche in cui è cresciuto, con tutto l'affetto e le cure della sua padroncina, Linda.
Sarà infatti Tullio, ornitologo esperto, da Rio de Janeiro, a convincere la ragazza a lasciare il Minnesota per volare in Brasile. Ad attenderli li, uno splendido esemplare femmina di Ara Macao, Gioiel. La missione dei due è quella di salvare una specie in via d'estinzione, pertanto, decidono di organizzare un appuntamento coi fiocchi, con tanto di Lionel Richie in sottofondo...

Una volta giunti a Rio però, i due simpatici pennuti (dopo un irresistibile approccio), si ritrovano nelle mani di una losca combriccola di trafficanti. Nel mentre, le strade di Rio, iniziano a colorarsi e ad animarsi assieme alla tradizionale festa del Carnevale. Abbandonati i ghiacciai e le peripezie "scrattose", Saldanha si cimenta in uno spettacolo dal sapor "carioca", tenero e pieno di significative metafore rivolte a grandi e piccoli spettatori. Questo piccolo animale è un eroe piuttosto insolito, ha qualcosa di speciale e lo si capisce fin da subito. Blu infatti non sa volare, colpa del trauma subito da piccolino che lo strappò al suo habitat. La cosa incredibile di questo piccolo protagonista è la cura e la precisione con cui prova a studiare le dinamiche del volo. Formule e schemi su fogli di carta e libri, tanti libri  e manuali di scienza aeronautica. Il tutto però non può aiutare Blu, poiché la chiave per imparare a volare non si trova nei libri...


Qualcosa ci porta a credere che, a volte nella vita il segreto è mettersi in gioco e lasciarsi andare anche alle prove più difficile e all'apparenza "impossibili". Andare contro alla nostra poca autostima, la stessa che, troppe volte, ci oscura la strada più ovvia e semplice da percorrere. 
Il volo è per Blu, un istinto naturale, una dote congenita imprescindibile e, nonostante questo, diventa una missione impossibile per i suoi occhi spauriti. Con l'aiuto della compagna decisamente più forte e convinta delle proprie idee, e della straordinaria combriccola di pennuti trovata lì, Blu ritroverà la forza e la fiducia necessarie a credere di più in se stesso. Al ritmo della samba, e sulla scia di un'esplosione visiva fatta con i  colori più belli, questo piccolo affresco/omaggio alla terra di Rio troverà il modo di travolgervi e trasmettervi la cosiddetta "febbre da samba".


Questa è per i miei bimbi. Perché capiscano che a volte il cinema, la musica e un po' di fiducia in sé stessi, possono far volare davvero alto...


lunedì 28 gennaio 2013

Django Unchained


Da qualche parte nel Texas...
Siamo nel periodo che precede la Guerra Civile, nel profondo Sud degli Stati Uniti. Esattamente il luogo in cui, Quentin Tarantino, desidera da sempre, realizzare il "suo" Western. 
Sulla testa dei fratelli Brittle c'è una grossa taglia. La stessa che, porterà a un fatidico incontro fra due uomini, dissimili nell'aspetto imposto dalla storia ma "fratelli" per le comuni cause e per le qualità, "inverosimilmente", umane. Certo, "umano", è un aggettivo che appare fin troppo stonato nel contesto del Django Unchained di Tarantino. Certo, ad uno sguardo superficiale, è la più palese delle osservazioni.

Per la prima volta qualcuno "si prende la briga" di raccontare (a suo modo), una delle macchie più infamanti e dolorose che gravano su tutta l'America, quella della schiavitù. Un'istituzione legale (?) esistita nel Nordamerica fino al 1776 e proseguita prevalentemente negli stati del Sud, fino al XIII emendamento voluto da Lincoln nel 1865. Ma come da Tarantino ci si aspetti, la Storia, è solamente un pretesto, un trampolino per le più crude e (dis)umane vicende degli uomini protagonisti da lui disegnati. Viene perfino naturale credere che, dietro questa impresa, nessun'altro regista a parte lui, sarebbe stato, diciamo così, più "azzeccato". Affermazione questa da prendere con le pinze, almeno fin quando ci si ostini a vedere Django Unchained come l'esatto clone di quello che fu nel 1966, il Django italiano di Sergio Corbucci. E' fin troppo evidente che, Tarantino, non abbia intenzione alcuna di rivisitare, o riproporre "letteralmente", un qualcosa di già visto, seppur egli stesso ne sia il primo grande estimatore. Come già avevamo visto in Bastardi senza gloria, sfilano anche qui,  tra carrellate paesaggistiche più tipiche del Western, Sorvegliati e Sorveglianti, Cacciatori di uomini spietati e Prede in corsa verso la salvezza.


Non appena da quel carretto (con tanto di dente e molla a dondolarlo qua e là), scende il Dottor Schultz/Christoph Waltz, si capisce già, che nelle mani di quell'insolito "dentista", vi è finemente riposta una missione significativa, al fine più narrativo, e non solo, voluto dal regista. Ed è così, perché l'ex odontoiatra è oggi un Cacciatore di taglie, un uomo che, come tradizione vuole, viaggia solo, con il manifesto degli ultimi ricercati in tasca alla giacca. Il suo compito è consegnare gli uomini, vivi o morti, alle Autorità. Django sarà per Schultz, non solo un valido compagno di "lavoro". Entrambi, per ragioni differenti, vogliono arrivare ai fratelli Brittle e, Django, li conosce bene...
Una volta finito il lavoro, una volta sciolta la neve, Django però, avrebbe portato a termine la sua epica battaglia, quella  con tappa finale a Candyland, piantagione in cui è prigioniera Brunilde, sua moglie.


A partire dal fascino della mitologia nordica racchiuso nell'amore tra Sigfrido e Brunilde (a subirne il fascino e l'inevitabile interessamento è infatti , non solo Schultz, quanto il medesimo spettatore), ancora una volta Tarantino sfoggia il suo cast fenomenale e trova, a mio avviso, il culmine nelle sfumature e nei discorsi improvvisati a mo' di commedia dal buon Waltz. Un uomo dotato di una freddezza dettata dal senso del proprio dovere e di una insolita malinconia. Si legge negli occhi di Schultz una carica di nostalgia e di orrore per l'epoca in cui sta vivendo. Un gentiluomo che uccide e al contempo si preoccupa di mettere in chiaro al suo neocompagno, ex schiavo, i propri sensi di colpa. Quelli che realmente lo hanno spinto a liberarlo dalle catene. Da questo però, si va avanti nel corso del film fino ad un lento e sincero evolversi di un rapporto reale e "leale". Fatto di stima e fiducia reciproca. L'ex dottore che prende a cuore l'ex schiavo, l'uomo di colore in sella a un "ronzino" (come esclamerà stupito il signor Stephen/Samuel L.Jackson, il nero "integrato", fedelissimo di Calvin Candie/Leonardo Di Caprio). Schultz è straordinario, lo sono i suoi modi di muoversi sulla scena, il suo modo di porsi a chiunque incontri. Sembra una versione "dramaturge" di Tarantino, il regista/commediografo che si preoccupa di rammentare al suo attore quale ruolo deve astutamente ricoprire (per sopravvvivere). Momento di più alta umanità e commozione quasi, durante l'accenno arpeggiato al motivo Per Elisa (che avevamo lasciato in Bastardi senza Gloria), vediamo Schultz ai limiti della tensione, come mai lo avevamo visto prima, rivivere l'orrore di un mandingo sbranato dai cani. 

Potrei dirne davvero molte su questo personaggio (a mio avviso il più importante dell'intera pellicola), così come non potrei mai dimenticare la rabbia e la potenza interpretativa di un Leonardo Di Caprio straordinario, cosa che mi porta ancora una volta a riflettere su quali assurde logiche si muovano gli illustri Academy...(bah)
Ma devo per forza di cose fermarmi qui e tornare ad "oggettivare" le ragioni che mi portano a considerare Django Unchained, un film a tutti gli effetti spettacolare e,  fuori dall'ordinario cinematografico che ogni comune spettatore si aspetti.

Considero Django un film coraggioso e sfacciato, come il regista stesso. Perché nessuno avrebbe mai pensato di mettere uno accanto all'altro, il Django di oggi e quello di ieri con una tale presunzione. Quella che ci fa vedere Jamie Foxx al bancone di casa Candie sottoscrivere a Franco Nero come la D di Django sia in realtà muta (Nero che risponde: si, lo so. Fantastico!!!). Considero Django un film dotato di una spettacolarità visiva assoluta. Il sangue e la violenza che troppo spesso condannano Tarantino, rappresentano solamente la sua forte e cruda retorica. La ridicolizzazione della violenza è il messaggio più forte che arriva al di qua dello schermo (emblematica la sequenza degli uomini a cavallo incappucciati), quel sangue sui fiori di cotone è forse la più affascinante delle metafore inserite nel film da Tarantino. Il sangue che realmente in quelle piantagioni hanno lasciato quei poveri schiavi, viene trasformato dal regista nel sangue di un bianco. Il sangue di una rivalsa, di una vendetta che lentamente si attenua tra il bianco del cotone. Trovo una serie infinita di piccole sfide lanciate dal regista, a partire da un nero a cavallo che nel 1859 indossa un paio di occhiali da sole, oppure un cacciatore di taglie che con estrema cura e precisione spunta la schiuma di una birra. Considero Django un'ulteriore conferma del genio artistico che si diverte a "rubacchiare" a destra e sinistra e con questa sua minuziosa ricerca riesce a dar vita a qualcosa che cinematograficamente e musicalmente risulta straordinario. Per la prima volta in un film di Tarantino vengono scritti temi musicali apposta per il film, anche se non mancano i sempre presenti prestiti del citazionista per eccellenza. Si va dal main theme di Django, di Luis Bacalov e Rocky Roberts, passando per The Braying Mule di Morricone del film Two Mules for Sister Sara fino ad arrivare alla splendida Freedom, brano originale di Anthony Hamilton e Elayna Boynton


Concludo dicendo che, siamo di fronte a quanto di più spettacolare e godibile esista di cinematografico in questo mondo bigotto e ipocrita. 
Così come Sigfrido e Django salvano la loro Brunilde, Tarantino realizza il suo sogno cinematografico di sempre. Un western colorato e "pompato" dalla sua estroversa e sanguinosa retorica che affascina e non può lasciare indifferenti. 

Concludo dicendo che, Django Unchained è un film straordinario e tu, caro Quentin, sei il solito fottutissimo genio. Ne sono "persuasa"...

giovedì 24 gennaio 2013

Moulin Rouge


Dopo aver rivisitato in chiave pop una delle più amate tragedie shakespeariane, Baz Luhrmann torna a stupire con la sua incredibile dote dell'arte della contaminazione artistica. Il regista australiano aveva infatti riportato fedelmente il testo per il suo Romeo + Giulietta di William Shakespeare nel 1996, fino alla Verona Beach di Los Angeles, rimettendo di nuovo in moto gli animi romantici e sognatori dello spettatore. 

Nel 2001 quello stesso regista torna a sfoggiare la sua atipica e seducente regia, sfidando stavolta i canoni più classici del musical, quelli che, prima di lui, mai avrebbero permesso una rivisitazione di brani preesistenti. Due attori messi in scena e improvvisatisi cantanti pop, un miscuglio di generi musicali che portano all'ascolto di un Diamonds are a girl's best friends di Marylin fino ad arrivare, sfumando, a un Material Girl di Madonna. Moulin Rouge viene presentato in concorso al 54° Festival di Cannes, vincendo due statuette poi, per la miglior Sceneggiatura e per i migliori Costumi.


Siamo nella Parigi di fine 800 e al Moulin Rouge ogni notte, a far scalpitare gli uomini presenti, Satin, la stella del famoso locale ricavato in un mulino, nel quartiere di Pigalle. La vita di questa cortigiana, fino ad allora animata dal solo pensiero di trovare il miglior offerente per una notte d'amore, viene stravolta da un giovane e timido scrittore, Christian. Questi, viene immediatamente illuminato dall'entrata in scena della donna e, dopo una dichiarazione di quelle che farebbero resuscitare anche i più cinici, l'amore tra i due sembra non avere alcun dubbio di esistere. A complicare tutto però, un ricco Duca disposto a pagare esorbitanti somme e salvare le sorti del locale, ad una chiara e unica condizione: avere Satin per una notte. Christian muore al solo pensiero, ma al tempo stesso ignora, ancora, il suo più grande e terribile nemico, insito nella grave malattia dell'amata.


Quel che affascina del Moulin Rouge di Luhrmann è, non solo l'amore e la voglia di amare sprigionati dalle impeccabili performance canore e attoriali degli interpreti, Ewan McGregor e Nicole Kindman non hanno nulla da invidiare a cantanti professionisti. Quel che conquista lo spettatore in assoluto è (e qui potrei dire il  Toulouse-Lautrec di John Leguizamo, fantastico!) la magia di questa storia inserita in una atmosfera Bohemién, dominata dal gusto per i contrasti, per l'eccesso evidente fin dalla scelta dei colori. Il rosso e il nero che si scontrano e si fondono come le passioni contrastanti che esplodono sulla scena. Da un can can al moderno corale Lady Marmalade, passando per Smells Like Teen Spirit dei Nirvana e culminare nella passione con El Tango De Roxanne
Indimenticabile la sequenza ai limiti del surreale con Elephant Love Medley così come resterà nella memoria di ognuno di noi quel McGregor cimentarsi nella Your Song di Elton John.


Perché in fondo, quel che voleva più di ogni altra cosa Luhrmann, era sfidare i canoni di un genere nato a cavallo tra l'800 e il 900. Reinventare qualcosa che la gente associava oramai solo a qualche classico Disney o a qualche vecchio film (seppur amabile ma troppo distante) come West Side Story, My Fair Lady, Tutti insieme appassionatamente, giusto per citarne alcuni. (E ci è riuscito!!!
Moulin Rouge rilancia un genere straordinario, grida al mondo, tirandola fuori, la voglia di Musical che abita in ognuno di noi. Quella che ci fa passeggiare per strada nel parco e canticchiare, senza sentire addosso il timore di esser presi per pazzi...


mercoledì 23 gennaio 2013

Lincoln


Nel 1997 Spielberg ci aveva raccontato gli antefatti di quella che fu, per gli Stati Uniti d’America, la sanguinosa battaglia per la Secessione. Allora era l’imbarcazione Amistad al centro dell’obiettivo (eravamo nel 1839), oggi, quello che sta più a cuore al regista statunitense, è la storia dell’America coinvolta in quella Guerra durata quattro anni, dal 1861 al 1865, il cui assoluto protagonista fu il Presidente Abraham Lincoln.

Assoluto protagonista, e  si faccia bene attenzione, non l’assoluto “illustrissimosanto”, di uno dei fatti più importanti della Storia. Premetto questo dal momento che già immagino le immediate repliche di quanti potrebbero rammentare alla memoria di chi scrive che, la figura di Lincoln, sia stata in realtà, piuttosto ambigua e controversa, seppur fondamentale. Quando Lincoln nel 1862 sosteneva che il suo obiettivo primario e assoluto era “Salvare l’Unione” si andava già in direzione dell’Emancipazione. Questa però, non significò la fine della schiavitù, poiché liberò gli schiavi solamente nelle aree della Confederazione non controllate dall’Unione. Dunque la Proclamazione  abolì la schiavitù negli stati Ribelli e fu l’incipit per la rettifica del 13° e del 14° emendamento, laddove il primo aboliva la schiavitù e il secondo stabiliva i diritti civili federali. Ma, chi erano i Confederati e soprattutto, cosa volevano? Legittimo chiederselo dal momento che tutto nasce da qui. Quando Lincoln venne eletto Presidente, alcuni Stati, ovviamente favorevoli alla schiavitù, non presero bene la cosa, tant’è che decisero di distaccarsi dall’Unione dichiarando la propria Secessione, formando la cosiddetta Confederazione degli Stati Uniti d’America.


Bene, storicizzare abbiamo storicizzato, ora passiamo al film. Dimentichiamo per un istante la nostra congenita tendenza alla polemica “facilotta” e proviamo a capire se davvero esiste un briciolo di logica nel considerare il Lincoln di Spielberg, un “grande” film. Quello cui assistiamo in realtà, e ci tengo a sottoscriverlo fin da ora, non è uno sdolcinato omaggio a quello che è stato uno dei Presidenti più amati dagli americani. Certo l’idea che si fa è molto simile a questa, un’idea che inizia a vacillare però, non appena “vediamo”. Lincoln è un grande politico, un uomo la cui autorità sola potrebbe bastare a stravolgere le sorti di un’intera nazione e del mondo intero. La storia non gli ha mai chiesto se si “sentisse adeguato”  per quell’epoca, non gli ha mai dato il tempo e il modo di versare degne lacrime per la morte di un figlio ammalatosi di tifo, non gli ha dato nemmeno il tempo di capire quanto stesse invecchiando nei suoi ultimi anni di vita e non gli ha nemmeno risparmiato l’orrore del sangue e delle carcasse causati dalla guerra. Eppure, il primo aspetto a colpire di quest’uomo è la sua naturale ironia e profonda intelligenza, resa ancor più avvincente da una semplicità aggraziata. Traspare fin da subito la profondità di un uomo ritrovatosi in mano un ruolo enorme, fatto di responsabilità ma soprattutto di tanta “umanità”. Lincoln è un uomo che sceglie come chiunque altro e, come chiunque altro, può sbagliare. Quando la politica era sorretta da uomini che prima di tutto, “pensavano” e discutevano, ognuno sostenendo i propri ideali e le proprie vedute. Tanto è il contrasto con i giorni nostri ,che ci si domanda quale assurdo processo abbia trasformato i nostri rappresentanti, i nostri uomini “pensanti” e dediti al dibattito.


A render tutto di un fascino storico ineccepibile è la bravura degli interpreti, e non faccio riferimento solo al “divino” Daniel Day-Lewis nei panni di Lincoln, ma che dire della splendida Sally Field/signora Presidentessa oppure di un dilettevole Tommy Lee Jones alias Thaddeus Stevens? 


Pochi dialoghi consistenti ma monologhi profondi e fondamentali per comprendere il protagonista. Lewis è talmente “dentro” al suo Lincoln da fondersi con esso, tanto che la sensazione che si ha è che venga risucchiato dalla scena e dalla Storia stessa, sbalorditivo!!! Un film storico o in costume quasi potremmo dire, reso perfetto nella sua costruzione e intenso nelle scelte musicali, pacate come mai le avevamo sentite prima dal Maestro, John Williams e una macchina da presa che segue il suo protagonista fino ad arrivargli dentro e a tirargli fuori l’anima. 
Questo è Spielberg, e questo è il suo Lincoln.

lunedì 21 gennaio 2013

Benny & Joon


Benny vive la propria vita badando a Joon, sua sorella più piccola. Una ragazza "speciale", dalla verve artistica e una personalità instabile. Dopo la morte dei genitori, avvenuta troppo presto, Benny farà il possibile per evitare che la sorella vada a finire in un ospedale "per matti", anche se a volte gli equilibri tra loro sembrano vacillare. Quando in casa arriva Sam però, la giovane troverà un motivo in più per prendere in mano la propria vita e iniziare a guardare al futuro.

Il regista canadese Jeremiah S. Chechik dirige nel 1993 questa deliziosa commedia dal retrogusto "dolceamaro" incentrata sui problemi di una ragazza speciale e del suo complicato rapporto con il fratello. Benny è un uomo che ha deciso di estraniarsi da una vita sociale e sentimentale. Non ha rapporti, se non quello con gli amici e colleghi della sua officina e, quando si ritrova al primo appuntamento con Ruthie, una giovanissima Julianne Moore, entra in crisi. Curioso dare un'occhiata alla filmografia di questo regista che non si è più visto in maniera decisiva nel corso degli anni, tranne in un paio di titoli che ci tengo a ricordare come Pecos Bill - Una leggenda per amico (1995), un western/fantasy con protagonista Patrick  Swayze e quel The Avengers - Agenti speciali (1998), con Uma Thurman e Ralph Fiennes, che gli valse addirittura un Razzie


Perdere una partita a poker e ritrovarsi in casa un giovane dall'aspetto e dai modi stravaganti, fragile e più che mai amabile. Una bombetta e un bastone in bambù, vi ricorda qualcuno vero? Ancor prima di vedere, Sam, un adorabile e giovane Johnny Depp, appare sullo schermo un libro di Buster Keaton e non appena la macchina si posa su questo insolito personaggio, il pensiero che di lì a poco avremmo assistito a un fine e garbato omaggio al cinema muto, comincia ad avvalersi. E' un mimo che indossa fiero la sua giacchetta e cammina con assoluta raffinatezza, e i modi del gentiluomo. Joon (Mary Stuart Masterson) ne rimane colpita al primo sguardo, e la cosa straordinaria è pensare a come Sam, sia entrato in casa quasi come l'ennesima governante scelta da Benny (Aidan Quinn), per gestire la casa. Joon aveva l'abitudine di farle scappare tutte, anche con Sam ci ha provato, con lui però si è resa conto subito che non avrebbe voluto mandarlo via davvero. Le prime parole di Benny a Sam, sono state fin troppo chiare, riguardo a Joon: "lei è malata, sente delle voci e a volte parla da sola". 
Ma Sam sapeva benissimo che Joon, al di là dei suoi problemi, poteva essere una ragazza "normale" e non così "strana" come il fratello la descriveva. I momenti in cui i due giovani si ritrovano a scoprire i loro sentimenti, credo rientrino nei più dolci e puri che la mia memoria conservi. Ancora una volta questo attore straordinario mostra la sua spiccata dote di calarsi nei panni dei personaggi che gli vengono offerti. La macchietta dell'uomo emarginato, che vive per la strada e intrattiene, se può, la gente. Lo sguardo malinconico e le espressioni meravigliate proprie dei bambini, i modi di fare che rimandano ai grandi di quegli anni, Chaplin e Keaton. Tutto per far rivivere in qualche modo, allo spettatore, il fascino di quel cinema e, con assoluta modestia, ribadire ancora una volta la grandezza di uno degli interpreti più versatili di cui Hollywood possa vantarsi.

Non ho visto tutti i titoli di Chechik che nel complesso sono sei, ma qualcosa mi porta a credere che, con Benny & Joon questo regista, abbia dato il meglio di sé, e noi, gliene saremo eternamente riconoscenti.

sabato 19 gennaio 2013

Gremlins e Roger Rabbit, in bilico tra reboot e sequel


Questa mattina mi cade l'occhio su una news di screenweek.it che vede al centro dell'attenzione il regista Robert Zemeckis e un "ipotetico" sequel di Chi ha incastrato Roger Rabbit. Sembra infatti che durante la premiere londinese dell'utimo film Flight, il regista e i due produttori Jack Rapke e Steve Starkey siano stati intervistati da una reporter del Flicks and the City e, quel che viene fuori, altro non è che una scombinata (s)comunione di intenti e di idee che, a quanto pare, vede coinvolti i tre artisti. Basta dare un'occhiata alle loro dichiarazioni:


Secondo Starkey

“Quel seguito verrà fatto, fidati, Si, abbiamo un grande script, stiamo cercando di mettere tutto insieme e vedere se siamo in grado di realizzarlo, ma siamo pronti a partire. Se quando ci dice partite, possiamo farlo”.

Questo anche a fronte dei problemi dell'attore protagonista di allora Bob Hoskins, malato di Parkinson.

Nonostante i problemi di salute, l’attore sembra però interessato a tornare.

“Bé è problematico, abbiamo avuto una cena con lui… Troveremo una soluzione. Con la tecnologia digitale c’è sempre un modo per far tornare una persona sui suoi piedi”,

ha spiegato Starkey.

“Ed è pronto a farlo!”

ha confermato subito dopo Rapke.

Il bello è che quando arriva il momento di ascoltare Zemeckis...

“No, non ci sarà un sequel”.

Ma, che dire? Noi, nel frattempo che i tre si mettano d'accordo, attendiamo curiosi di saperne di più...



Da Roger Rabbit passiamo poi al mitico cult degli '80 diretto da Joe Dante e prodotto da Spielberg I Gremlins. Bene, anche qui sembra si respiri l'aria di un probabile (non sequel) ma reboot, che, secondo il magazine cinematografico Vulture, vorrebbe rilanciare in qualche modo lo spirito e il gusto della saga. Ricordiamo infatti che poi nel 1990 ci fu un seguito, dello stesso Dante, che non ebbe il successo del primo. Nonostante a me sfugga la chiara differenza tra reboot e remake (per me è la stessa cosa), nutro nei confronti di questa impresa poca, pochissima fiducia. Secondo Wikipedia il reboot prevede un nuovo inizio, con la totale o parziale riscrittura degli eventi avvenuti nella saga originaria. 
(Ma non lo fanno anche nei remake?)

Fonte della news sceglilfilm.it



venerdì 18 gennaio 2013

"E' nata una rubrica", CriticissimaMente Parlando (onAir)



Carissimi e carissime, oggi vorrei parlarvi di una grande novità che riguarda CriticissimaMente, ovvero "me". Che io impieghi il mio tempo a parlare di cinema, ovunque mi capiti, è cosa ben risaputa, non necessita di un post esclusivo. C'è di nuovo però che le mie "chiacchiere cinefile" abbiano trovato collocazione anche in radio. Eh già...devo confessarvi che da qualche mese a questa parte, arde in me una nuova fiamma, avviata con gli amici di Moviegoers a giugno 2011. Quella con il mondo radiofonico si sta rivelando un'avventura straordinaria, alla quale nemmeno avevo mai pensato. E' iniziato tutto un po' per gioco, avevo voglia di mettermi alla prova e sfidare alcune delle mie più grandi paure. Paure che dietro a una tastiera hanno la peggio, perché il pc in qualche modo fa da schermo, ti senti protetta mentre scrivi e cerchi di mettere tutte le tue emozioni. Il microfono invece "ti frega", non hai scuse, devi tirar fuori la voce e insieme a questa tutto quello che vuoi arrivi dall'altra parte. Senza barriere, viene fuori tutto e, chi ti ascolta, percepisce ogni singolo fremito, ma questo è l'aspetto più affascinante, quello di esporsi, venire fuori davvero. Per questo ho deciso oggi di condividere con voi anche questo, e lo farò regolarmente, sappiatelo, perché la Rubrica di CriticissimaMente Parlando andrà in onda tutti i venerdì dalle 16 e 30 alle 17 e 30 e potrete ascoltarla solo qui, su www.ryar.net, nella trasmissione di Chiacchiere e Distintivo. Oggi è la seconda puntata, ma vi posto di seguito il podcast del primo appuntamento così potrete ascoltare la mia voce (il primo che ride verrà bannato). Ero emozionatissima, probabilmente lo sarò anche oggi, e così  sarà, magari tutte le volte...però sono sicura che ne vale la pena, che crescerò e farò di tutto per dare sempre il meglio. Seppur in una maniera semplice e poco impostata, purché dall'altra parte si capisca quanto io ami quel che faccia, e dica...

P.S. Grazie alla splendida redazione di Ryar Web Radio, in particolar modo ai ragazzi di Chiacchiere e Distintivo!!!
                     
                      



giovedì 17 gennaio 2013

Dylan Dog, il film. Ogni cinefilo ha il suo incubo.



Licantropi e vampiri, direi che ne abbiamo fin sopra ai capelli di queste trovate alla Meyer, almeno nel mio caso, il primo pensiero finisce inesorabilmente lì. Non so quanto e come poi, questo abbia influenzato il mio giudizio. Solamente posso dire che, quando decisi di vedere Dylan Dog, il film, non immaginavo (al di là delle comuni perplessità) che avrei avuto a che fare con quello che, a tutt'oggi, io considero: il peggior film della mia vita!!!

Abbandoniamo il rimando al film di Giovannesi, che qui a confronto è una boccata d'ossigeno per ogni cinefilo, e torniamo al film di Kevin Munroe. Il regista canadese aveva esordito nel 2007 con TMNT (Teenage Mutant Ninja Turtles), dopo aver scritto e coprodotto nel 2001, un altro film d'animazione del regista Tony Shutterheim, Donner. Non è chiaro, tuttavia, quale malsano meccanismo sia scattato nella mente di Munroe quando, nel 2010, decise di portare sullo schermo la storia di un personaggio tanto popolare, dapprima in Italia, da divenire fenomeno di costume e stimolo per menti illuminate, come quella di Umberto Eco, per dirne uno. Anche il cinema si è mosso in questo senso, tentando ben due volte di portare sul grande schermo le fattezze e le vicende oscure di questo personaggio, creato da Tiziano Sclavi nel 1986.


Il primo tentativo è stato azzardato dal regista italiano Michele Soavi, nel 1994, con il suo Dellamorte Dellamore, e ricordo che non fu un successo all'unisono, anzi. Suscitò non poco clamore e si lamentava il fatto di una assoluta mancanza di coerenza rispetto al fumetto di Sclavi. Forse il film di Soavi non è stato compreso come avrebbe meritato. Si, la Falchi era qualcosa di improponibile, così come alcune trovate sempliciotte e inverosimili da Horror di serie B, però si poteva riconoscere fin dai tratti dello stesso protagonista, interpretato da Rupert Everett, qualcosa che rispettasse lo spirito di Dylan Dog. Almeno riuscivi a darne un'interpretazione e, se vogliamo, un senso più introspettivo. (Ricordiamo che proprio l'attore inglese, ispirò Sclavi per il volto del suo Dylan Dog).

A distanza di più di 15 anni ci pensa Munroe ad "ammazzare" il mito dell'Investigatore del'incubo, come?
Però la camicia rossa e il clarinetto lo abbiamo visto, dai non è così male...e poi c'è Brandon Routh, hai visto che muscoli? Quale sfrenata (e giustificabile) adolescente non avrà esclamato questo, appena uscita dalla sala? Ecco, il problema di fondo già potrebbe intravedersi. Perché Dylan Dog, il film, appare a tutti gli effetti come il tipico filmetto per teenagers, che magari non hanno nemmeno mai aperto un solo Dylan Dog "di carta" in vita loro. Ma, effettivamente, non è qui il problema, oggi gli adolescenti, non tutti però, entrano in sala ignari del fatto che del film che vanno a vedere, ci sia almeno un romanzo o addirittura una serie storica di fumetti o quant'altro. Eppure è stato presentato come il primo vero film "ufficiale" di Dylan Dog. (Ufficiale?)


Esistono questioni che non capiremo mai, o meglio, comprendiamo fin troppo e allora vengono rimosse dalle nostre difese cinefiloimmunitarie. E' esattamente così, ne sono convinta. Cos'è che vogliono spacciare per "ufficiale", quando al posto di Groucho mi ritrovo il compagno stupidotto Marcus e quando dalla splendida e Gotica Londra della Craven Road finiamo nella Rue Craven di New Orleans? 

Qualcosa che, ancora non comprendo, tuttavia c'è. Mi chiedo come si possa trovare il coraggio di realizzare un film  che a livello di pathos e impatto visivo è di gran lunga inferiore a Buffy o a C.S.I. o a qualsiasi altra serie presente su Fox Crime. Mi chiedo dove un regista o un produttore trovi la forza e la saggezza per scritturare nel proprio film un attore tanto inutile, anzi altamente nocivo come Brandon Routh. Dopo aver distrutto il mito dell'uomo d'acciaio, quell'obbrobrio del 2006 diretto da Bryan Singer, questo attore si ripresenta spietato come non mai e manda all'aria ogni cinefila e umana aspettativa, tanto che, verso gli 80', poco meno poco più, il mio telecomando non ce l'ha fatta e ha messo eroicamente fine ad ogni mia sofferenza...




mercoledì 16 gennaio 2013

C'è un omino sullo schermo che spazza neve...chi è?


Scommetto che oggi, molti di voi, vorrebbero capire cosa c'azzecca questo simpatico omino su una strana macchinina, che toglie la neve sotto la scritta Google...e soprattutto, "come si gioca"? 
Intanto, quella macchinina è la "rolba", inventata per levigare le piste di ghiaccio da un certo Frank Zamboni. Costui, è stato un imprenditore statunitense di origini italiane e questa sua invenzione fu talmente importante che la rolba, è oggi ancor più nota con il nome dello stesso inventore, "la zamboni". Un'idea carina e animata, per ricordare quest'uomo nel giorno del suo 112° anniversario della nascita. CriticissimaMente poi, ha un debole sfrenato per i Doodle, quindi, comprendetela e perdonatela, se potete...

lunedì 14 gennaio 2013

Golden Globe Awards 2013, i vincitori.


La cerimonia, presentata nella serata di domenica 13 gennaio, dalle attrici Tina Fey e Amy Poehler, si è conclusa per noi italiani solo questa mattina alle cinque. A tener alti i ritmi della serata Argo di Ben Affleck, Les Misérables di Tom Hopper e le Best Performance attoriali di Daniel Day-Lewis per LincolnJessica Chastain per Zero Dark Thirty. Felice per la Hathaway e ancora una volta dispiaciuta per il povero Leo. Spostandoci sul campo musicale, nonostante tutto il mio scontento per il film Skyfall, ho trovato fin da subito incantevole e seducente ( più del film stesso) il pezzo di Adele. Per quanto riguarda invece la Miglior Colonna Sonora per Vita di Pi, sono un po' perplessa; il film (e qui il caso è inverso) l'ho trovato di una forza incredibile, e non solo da un punto di vista visivo quanto emotivo. Però, se proprio avessi dovuto scegliere, quest'anno, io personalmente, avrei fatto il nome di Alexandre Desplat. Amareggiata, ma non sorpresa, della vittoria della Pixar contro il mio amatissimo Frankenweenie. Detto questo, cos'altro aggiungere, se non elencarvi la lista dei vincitori e, ringraziare caldamente, gli amici e colleghi di 40secondi per aver seguito la notte in diretta streaming per noi. 



Best Motion Picture – Drama
Argo (2012)
Best Motion Picture – Musical or Comedy
Les Misérables (2012)
Best Performance by an Actor in a Motion Picture – Drama
Daniel Day-Lewis for Lincoln (2012)
Best Performance by an Actress in a Motion Picture – Drama
Jessica Chastain for Operazione Zero Dark Thirty (2012)
Best Performance by an Actor in a Motion Picture – Musical or Comedy
Hugh Jackman for Les Misérables (2012)
Best Performance by an Actress in a Motion Picture – Musical or Comedy
Jennifer Lawrence for L’orlo argenteo delle nuvole (2012)
Best Performance by an Actor in a Supporting Role in a Motion Picture
Christoph Waltz for Django Unchained (2012)
Best Performance by an Actress in a Supporting Role in a Motion Picture
Anne Hathaway for Les Misérables (2012)
Best Director – Motion Picture
Ben Affleck for Argo (2012)
Best Screenplay – Motion Picture
Django Unchained (2012): Quentin Tarantino
Best Original Song – Motion Picture
Skyfall (2012): Adele, Paul Epworth(“Skyfall”)
Best Original Score – Motion Picture
Vita di Pi (2012): Mychael Danna
Best Animated Film
Ribelle – The Brave (2012)
Best Foreign Language Film
Amour (2012)
Best Television Series – Drama
“Homeland – Caccia alla spia” (2011)
Best Television Series – Musical or Comedy
“Girls” (2012)
Best Mini-Series or Motion Picture Made for Television
Game Change (2012) (TV)
Best Performance by an Actor in a Television Series – Drama
Damian Lewis for “Homeland – Caccia alla spia” (2011)
Best Performance by an Actress in a Television Series – Drama
Claire Danes for “Homeland – Caccia alla spia” (2011)
Best Performance by an Actor in a Television Series – Musical or Comedy
Don Cheadle for “House of Lies” (2012)
Best Performance by an Actress in a Television Series – Musical or Comedy
Lena Dunham for “Girls” (2012)
Best Performance by an Actor in a Mini-Series or a Motion Picture Made for Television
Kevin Costner for “Hatfields & McCoys” (2012)
Best Performance by an Actress in a Mini-Series or a Motion Picture Made for Television
Julianne Moore for Game Change (2012) (TV)
Best Performance by an Actor in a Supporting Role in a Series, Mini-Series or Motion Picture Made for Television
Ed Harris for Game Change (2012) (TV)
Best Performance by an Actress in a Supporting Role in a Series, Mini-Series or Motion Picture Made for Television
Maggie Smith for “Downton Abbey” (2010)

sabato 12 gennaio 2013

Tarantino Show: non sono il tuo schiavo!


Uno dei rischi maggiori per un giornalista, è quello di fare la domanda sbagliata, al momento sbagliato e, alla persona sbagliata. Ecco perché il povero Krishnan Guru-Murthy si è ritrovato ad affrontare la furia tarantiniana senza nemmeno avere il modo e il tempo di realizzare il pericolo cui andava incontro. Certo direi che delle volte il giornalista, prova un inspiegabile e immenso piacere nel vedersi scaraventare addosso l'ira dell'interlocutore, qualunque esso sia. Ma tu caro Murthy, sei capitato un pochino male, direi.
Guarda caso intervisti un regista che è li seduto davanti a te per promuovere il suo film, e tu che fai? Inizi a tirar fuori una serie di paralleli accusatori circa tutte le probabili implicazioni della violenza e di come questa, possa in qualche modo, trovare eco nella vita reale. Il tutto poi in un tempo così ravvicinato alla strage di Newton,  un evento agghiacciante che ha scosso l'America e il mondo intero.
L'orribile fatto, che fece saltare la première newyorkese di Django, è stato preso come pretesto, se vogliamo un po' ipocrita, da parte del giornalista, per accusare Tarantino della eccessiva dose di violenza presente nei suoi film.

(Giornalista) "Perché le piace girare film violenti"?
(Tarantino) "Non so, è come chiedere a Judd Apatow come mai adori dirigere commedie".

Il punto d'arrivo per il giornalista sarebbe stato quello di portare Tarantino a riflettere su quanto si rischi, che poi alla fine, la gente che vada in sala a vedere i suoi film, non solo si esalti per la spettacolarizzazione della violenza, ma della violenza stessa. Questa insinuazione ha fatto perdere le staffe al regista che, dopo una chiara manifestazione di ira e fastidio, ha chiuso definitivamente l'intervista.


(Tarantino)"Sono qui per promuovere il mio film, non voglio parlare di qualcosa di cui TU vuoi che io parli. Non è mia intenzione parlare delle implicazioni della violenza. Non ho mai voluto, sai perché? Perché ne ho già parlato in precedenza e ho detto tutto quello che dovevo. Se qualcuno è interessato a sapere come la penso, può cercare in Google; ho già detto come la pensavo e negli ultimi 20 anni non ho cambiato idea".



                  

Fonte della news: filmforlife

giovedì 10 gennaio 2013

Frankenweenie e Il trionfo della poetica burtoniana



C’era una volta un bambino, cresciuto nella contea di Los Angeles, nel Burbank. Un bambino come tanti, o come nessuno, che amava passare le sue giornate in soffitta a disegnare, i pomeriggi al cinema ad ammirare le rinascite di scheletri e giganti di pietra, grazie a quella che diverrà, poi, la sua “peculiarità” (la stop-motion). Allora era il leggendario Ray Harryhausen ad illuminare il ragazzino, il piccolo spettatore innamorato del cinema fantastico,  con l’ irrefrenabile bisogno di far capire al mondo intero che, i mostri viventi negli incubi dei bambini, sono molto diversi da quelli che, la gente è solita immaginare…

Negli ultimi anni, uno dei registi più visionari che il cinema conosca, si ritrova ad affrontare lamentele e risentite delusioni di tutti quelli che, io detesto e amo chiamare, ex burtoniani. Basta un passo o falso (Alice in Wonderland) o due (La fabbrica di cioccolato? Dark Shadows? Non è ancora chiaro in effetti) e si sa, nella giungla delle attese e dei giudizi frettolosi, si fa presto a finire nel pentolone dei “caduti”. “Dove sono le idee?”, “Burton è morto”, “è uno schiavetto della Disney finito”, “andato”. Quante ne ho sentite e tuttora ne sento dire? Beh, davvero molte. Tanto che oggi, la mia doverosa e più che mai sentita premessa, (per voi e per tutti) è questa: che scenda pure un Mereghetti in terra tra noi comuni mortali. Qui, non esiste questione: Frankenweenie è Burton, con tutta l'anima e lo stile che ogni umano o disumano spettatore si aspetti.


C’era una volta un bambino di nome Victor, che amava girare filmini in casa e trascorrere la maggior parte del suo tempo, insieme al suo fedele compagno a quattro zampe, Sparky. Quando un incidente però, porterà via a Victor il suo migliore amico, il dolore e il bisogno di vedere ancora quella piccola coda scodinzolare, spingeranno il ragazzo a sfidare le leggi della scienza. La stessa che, insegnerà sia a Victor che agli altri ragazzini del quartiere, come l’esito di un esperimento possa variare a seconda delle intenzioni dello scienziato.
Le intenzioni di Victor sono fin troppo evidenti, il dolore per la perdita di qualcuno che si ama, visto andare via, così, all’improvviso. L’amore verso il proprio cane, questo  può bastare alla scienza. Così insegna il professor Rzykruski, una figura illuminante e significativa, anche e soprattutto in chiave interpretativa. L’accento dell’uomo delll’Est e un modo così efficace di spiegare le cose ai ragazzi, da mandare in tilt i genitori, spaventati perché i figli ultimamente, non fanno che “porre domande”. Un altro diverso, un incompreso, un uomo giudicato dalla società della piccola New Holland solo perché incentivava i suoi alunni a mettersi in gioco. E nulla vieta (anzi), di rivedere in questa figura, il grande Vincent (Price). Della cura dei personaggi potremmo parlare per ore, la semplicità e l’amore che esplode, come immediata conseguenza della prima, rendono Frankenweenie un trionfo della poetica burtoniana.

Burton a distanza di più di vent’anni, sembra non essersi mai distaccato da questo, che fu nel 1984, solamente un corto di circa trenta minuti. Ristrettezze di budget, di tempo, fatto sta che quello che Burton avrebbe voluto come il suo primo lungometraggio, venne troncato. Ecco perché oggi, anche il critico più pignolo, risulterebbe davvero poco credibile nel sostenere che Burton “torni indietro”, perché a corto di idee. E credetemi sulla parola, quando vi dico che saranno sufficienti i primi dieci minuti del film, per accertarvene. Basteranno le note di un grandioso Danny Elfman e di una macchina da presa che ci porta dentro una piccola abitazione realizzata a mano, con una nostalgica eco di quella che fu (in maniera molto simile)già vista in Beetlejuice - Spiritello porcello.  Una cittadina all’apparenza normale che racchiude in sé personaggi davvero insoliti e grotteschi. Ne prenderò come esempio solamente alcuni, come il serioso e cupo Nassor, una sorta di piccolo Boris Karloff. Oppure Stranella, indimenticabili i sogni premonitori del suo Signor Baffino. Elsa Van Helsing, con la voce di Winona Ryder, la ragazzina introversa, nipote del burbero sindaco e padroncina della dolce Persefone. Il tutto ovviamente, con un ribaltamento che è tipico del regista, quello che (giusto per intenderci) fa esclamare all’insopportabile sindaco: «prendiamo il mostro!» - con il dito puntato contro il piccolo Sparky.


Avrei un milione di cose da dire, dal fascino intenso di un bianco e nero che riporta al passato, forse proprio nel periodo in cui Tim immaginò il suo Frankenweenie. Un 3D godibile, modesto, che bene si sposa alla funzionalità narrativa. La semplicità e la “vitalità” di più di 200 pupazzi fatti a mano, il gioco di ombre e luci che richiamano l’espressionismo tedesco e il cinema di quegli anni. Una macchina che segue passo passo questi piccoli esseri senza vita, immobili. E la mano di un bambino ormai adulto che li accompagna, dando loro la vita e una enorme possibilità: quella di fare del suo cinema (riuscendoci), un “big bang” di immagini ed emozioni.





mercoledì 9 gennaio 2013

Quello che so sull'amore



George Dryer (Gerard Butler) è un ex campione di calcio scozzese ormai allo sbando. Con un divorzio alle spalle, di cui egli stesso fu la causa, prova a ritornare sui suoi passi e tentare almeno di recuperare il rapporto con suo figlio, Lewis. L’idea di George era quella di rimettersi in gioco nel mondo della telecronaca sportiva, questo fino a quando non decide di assistere agli allenamenti del figlio. Qui, Dryer inizia la sua corsa verso la rinascita personale, allenando la squadra del piccolo Lewis e, al contempo, aggravando gli squilibri ormonali delle mamme in tribuna.


Pensare che il regista romano emigrato ad Hollywood, ha voluto precisare fin da subito alla stampa, che il suo film non è una commedia romantica, come è stata al contrario etichettata, bensì drammatica. Ma rimane un profondo dubbio, su come questo apparente equivoco, possa cambiare in qualche modo le sorti del film in questione. 

L’idea di Quello che so sull’amore nasce su un campo di baseball, quando Robbie Fox (sceneggiatore) e Jonathan Mostow (uno dei produttori) si incontrano nelle vesti di primo e secondo allenatore della squadra in cui giocava il figlio di Mostow. Da qui poi prese forma il progetto del film, con la prima scelta per Butler nei panni del protagonista e del regista italiano dietro la macchina da presa.
Il nome di Gabriele Muccino è stato fatto immediatamente, raccontano i produttori, questo perché serviva un regista già avvezzo a storie toccanti e commoventi, capace di dare al tutto però, anche un tocco di comicità e divertimento. Detto questo, diciamo che in linea generale ci siamo, poiché ci si diverte e ci si rammarica del fatto che siano riusciti a trasformare Butler in una sorta di Muccino Jr palestrato e decisamente più affascinante, ma non meno impacciato e immaturo del ragazzino che abbiamo conosciuto nel film Come te nessuno mai (1999). L’idea del voler raccontare la vita di un padre alla ricerca di una seconda possibilità, della maturità e dell’istinto paterno, non è cosa semplice e, soprattutto, non si può pensare che basti una palla, e tre/quattro attori rilevanti per riuscirci. 


Per diventare un padre migliore non basta sacrificarsi e cedere alle voglie di donne svampite e depresse,  passare una settimana con il proprio figlio dopo sei anni di “amnesia” totale. Risultano persino a disagio attrici abituate a ricoprire ruoli importanti come Uma Thurman, Jessica Biel, Catherine Zeta-Jones. La Thurman relegata ai margini della moglie svampita con evidenti problemi matrimoniali, la Jones nei panni della mamma che piange di notte perché il marito dorme in camera con la figlia, ma di giorno poi si trasforma in una “acchiappa uomini” determinata. La Biel, non ne parliamo nemmeno. La mamma che ha cresciuto il figlio da sola, facendo fronte all’immaturità di un marito troppo impegnato a tradirla non appena poteva, quella che poi alla fine però si scioglie con espressioni “inebetite” (concedetemelo), annullando il suo secondo matrimonio per tornare con l’ex marito. Il tutto alla velocità della luce. Va bene che il cinema dilati il tempo, ma né la sceneggiatura, né tantomeno la regia, hanno saputo sfruttare quegli espedienti che,  i grandi registi e sceneggiatori , conoscono.

martedì 8 gennaio 2013

David Bowie, 66 candeline e un nuovo album.


Sono passati ormai 10 anni dal suo ultimo album Reality e, improvvisamente, il grande ritorno. Il Duca Bianco, annuncia infatti su twitter il nuovo album The next day (in arrivo a marzo), regalando ai fan il video del singolo Where are we now. E quale migliore occasione se non quella del suo 66°compleanno? Il disco, che porta David Bowie a quota 30, è stato scritto insieme a Tony Visconti e registrato a New York, e sarà pubblicato dalla Columbia Records. Il video è diretto da Tony Oursler e riporta al periodo di Bowie vissuto  a Berlino, negli anni '70 e '80. Quello che colpisce di questo nuovo album è la copertina, che vede l'immagine sullo sfondo del vecchio "Heroes" cancellata da un riquadro bianco con su scritto, appunto, The next day. Un modo, come al solito tutto suo, per esprimere un concetto,qualcosa che in questo caso rimandi a "domani". Senza dimenticare il passato, basti guardare il video per comprendere quanta nostalgia riaffiori nel cuore di Bowie e in tutti quegli ascoltatori vissuti a Berlino, negli anni che hanno visto il crollo del muro. Il tutto accompagnato da un'unica domanda: dove siamo adesso?

Auguri Bowie e Bentornato!!!



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