martedì 30 settembre 2014

Si può fare l'amore vestiti?



Di tanto in tanto è anche piacevole incappare in qualche visione tutta italiana...anche se ancora non è chiaro cosa si intenda poi con quel "di tanto in tanto". Per come la vedo io: "di tanto in taaanto, ovvero, lasciamo che passi un bel po' di tempo, tra una pellicola made in Italy, e un'altra ancora".
Perché se il film precedente ci è piaciuto, il timore di smorzare l'entusiasmo ritrovato cresce a dismisura, e se si smorza l'entusiasmo, è dura poi tornare a dare fiducia a "quel cinema lì".

E infatti dopo è dura, e nel mio caso specifico il prima è stato con La variabile umana (film di cui ho scritto con moderata, ma sincera, soddisfazione) e il dopo, cioè l'ora, l'adesso e l'ammazza entusiasmo è stato con Si può fare l'amore vestiti?.


Peccato però, perché a me già la sola idea di immaginare un paesino della Puglia e il calore tipico "paesano", fatto di vecchiette sulle panchine e pettegolezzi di ogni genere, mi avrebbe convinto a parlarne bene, se non altro con entusiasmo. Perché mi piacciono le storie che alternano e confrontano la vita della città con quella della campagna, del paese. Mi piace vedere come cambia lo sguardo delle persone, l'approccio alla vita stessa che non è mai identico. 
Il film aveva un'idea di partenza curiosa, questa ragazza che dalla Puglia si trasferisce a Roma per studiare e diventare sessuologa, che a un certo punto ritorna al proprio paesino e quindi immaginate tutte le gag, inevitabili, e le reazioni dei vecchi compaesani al solo sentir nominare questa strana e, mai sentita prima, professione.
Era carino pensarle tutte, e sarebbe stato più facile secondo me non sbagliare, considerata la comicità innata sulla quale si doveva puntare e la strettissima aderenza allo stereotipo italiano. Cavolo, almeno sfruttiamole queste nostre ristrettezze mentali e culturali...
No, niente. Neanche quello!

Bianca Guaccero, la maestra/confidente/dottoressa del sesso, diventa dietro quegli occhialoni, una sorta di maestrina impacciata e poco credibile. La sua difficoltà a reinserirsi nel paese natale è affrontata con sufficienza, così come tutti i personaggi e le loro "appena accennate" storie.


Peccato perché c'era il migliore amico costretto a vivere in silenzio la propria omosessualità, e c'è un risvolto narrativo legato a questo personaggio che lascia a dir poco allibiti. Non puoi prendere una storia e raccontarla con sufficienza, perché così distruggi il potenziale che quella storia ha/avrebbe potuto avere e allo stesso tempo demolisci la sorte del cinema italiano. L'unico personaggio riuscito è quello interpretato da Maurizio Battista, sì lo so io sono romana e mi è difficile non volergli bene, però il suo calarsi nei panni del più tipico marito pugliese è stato convincente e divertente, il che può bastare.

Ma la cosa che più di ogni altra mi ha fatto incazzare, è che si poteva puntare davvero sulla bellezza di un titolo che già di suo sarebbe bastato, non a farne un capolavoro, ma anche solo un sincero e pulito omaggio alla più bella delle interpretazioni sull'amore, che nessun maestro, nessun poeta, nessuno...

I bambini e l'amore. Quella cosa che i grandi fanno quando si baciano, quando si abbracciano.


venerdì 26 settembre 2014

The Normal Heart



Pensavo che dopo Philadelphia, e dopo l'ultimo Dallas Buyers Club, non mi sarei più trovata nella condizione di spettatrice e critica, costretta a capire se in quella storia così dolorosa che lo schermo racconta, ci sia sincerità e intelligenza, oppure sia solo l'ennesima paraculata che specula sul dolore. Perché affrontare l'Aids non è per niente facile, non lo è mai. Non lo era nel 1993, anno in cui uscì il film di Jonathan Demme (Philadelphia), e non lo è oggi. Insomma il dolore non cambia insieme alle tendenze, non è un fattore che puoi tenere sotto controllo e non lo puoi plasmare. Certo è che negli anni, a cambiare possano essere (e lo sono) gli atteggiamenti, le interpretazioni di ciò che avviene nel mondo e, di conseguenza, l'approccio a quelle che comunemente chiamiamo "piaghe" della società.

Ne è la prova, se vogliamo che lo sia, il film di Ryan Murphy uscito quest'anno come film per la tv e adattamento dell'omonima opera teatrale, The Normal Heart. Di fronte a un titolo che già sappiamo, affronti il tanto dibattuto tema, più di qualcuno potrebbe sentirsi già "stanco" e la speranza di vedere qualcosa di "diverso" può essere veramente misera. Lo era anche per me. 
Volete la verità?

Be' la verità è che mi aspettavo molto dalla performance di Mark Ruffalo, attore per il quale nutro una profonda, profondissima stima (#granpezzodignocco).
Mi aspettavo molto, e ho avuto altrettanto.
Mi spaventava però l'idea di affrontare nuovamente l'Aids, e di tentare ancora una volta di approcciarmi alla questione in maniera critica, che poi mi chiedo: "è davvero possibile riuscirci?".

Siamo nei primissimi anni '80, a New York. Sembra di essere finiti su un'isola per soli gay, e in fondo è proprio lì che siamo. Uomini che sfoggiano i loro corpi, abbronzati, tonici, perfetti. 
Gay...(che sfiga!!!).
Credo che la mia più alta (l'unica) forma di discriminazione sia proprio questa, cioè è mai possibile che un figo come Mark Ruffalo, per dire, non possa amare me, donna, perché non gli interesso minimamente, perché nemmeno mi guarda e nemmeno mi considera?
Sì insomma, siate gay, ma con le dovute accortezze!

Chiusa parentesi/sfogo personale, torniamo al film.
Non è come tutti gli altri. The Normal Heart parla soprattutto dell'ignoranza dell'uomo che, allora come oggi, altro non fa che condannare se stesso. Il rifiuto di capire e affrontare un problema che presto potrebbe riguardare tutti, ma che per il momento no, è "roba per soli gay", addirittura a quei tempi si parlava proprio di "cancro dei gay". Anche se in realtà già verso la fine del 1981, vennero registrati i primi casi di contagi tra eterosessuali. Anche il New York Times si espresse in merito, appoggiando chiaramente l'idea secondo la quale l'Aids, fosse solo un problema per gay: "Raro cancro osservato in 41 omosessuali". 

E c'era il silenzio di chi avrebbe dovuto invece gridare e battersi per una giusta causa, c'era la paura di un'epidemia appena esplosa ma che non si voleva nemmeno affidare alla ricerca medica (nel film vediamo una bravissima Julia Roberts nei panni del medico che forse per primo, ha iniziato a battersi affinché la medicina e l'America intervenissero e finanziassero la ricerca).
Negli anni'80 molti omosessuali vivevano nel silenzio, con la paura di esprimere liberamente i propri sentimenti, quindi per molti era più facile "fare finta di". Fare finta che questo male prima o poi passerà, che fare l'amore con chi amiamo non ci sta uccidendo. 


In quegli anni, dal 1981 al 1985, anno in cui è stato riconosciuto l'Aids, è morta un'intera generazione. E se l'America non avesse taciuto per quasi quattro anni e avesse ascoltato chi in quegli anni si batteva davvero affinché quelle morti non continuassero senza ragione, senza spiegazione? 

Magari si sarebbe evitato di guardare un malato di Aids come si faceva con gli appestati. 
Magari avrebbe avuto senso combattere per chi si ama e per la libertà di farlo, senza sentirsi "diversi".
Magari ad oggi, non conteremmo più di 36 milioni di morti per Aids.

mercoledì 24 settembre 2014

Suspect Zero - Non è un cerchio, è uno zero!



Questo periodo vuole che io veda parecchi film legati indissolubilmente al genere "psico-trip". Ovvero, detto più professionalmente, al thriller psicologico. Il quale spesso diventa complicato più del previsto, poiché introspettivo, poiché scabroso e tanti altri poiché...

Suspect Zero conferma la serie delle suddette visioni, e ne scrivo con moderata, ma sincera, soddisfazione. Non mi aspettavo nulla di che, ma immaginavo sarebbe stato un film come minimo godibile, se si apprezza il genere, è chiaro. Io lo apprezzo, devo dire che a partire dalle letture con le quali sono stata svezzata (Stephen King, Chuck Palahniuk - due a caso) è esplosa in me questa passione per il genere molto scabroso e molto psicologico. E molto "trip".

Ce ne sono tanti di esempi, a partire da David Lynch, passando per l'altro David, ovvero Fincher, oppure M. Night Shyamalan  come pure il buon Chris Nolan, Brad Anderson, anche...uh guarda un altro David, Cronenberg! Papà maestro per antonomasia chiaramente è Kubrick, era pure banale ricordarlo, ma vabbè. Facciamolo.

Tornando al film di oggi, il regista E. Elias Merhige (quello che, per intenderci, ha diretto nel 2000 L'ombra del vampiro, con John Malkovich e Willam Dafoe), sembra essere affezionato al genere e a Nosferatu in primis. Basta guardare Ben Kinglsley in questo Suspect Zero per capirlo.


Aaron Eckhart è l'agente protagonista del film, che dà al personaggio un'aria del tutto assente ma allo stesso tempo affascinante, non so se riesco a rendere l'idea...sembra che stia recitando un ruolo giusto perché deve, ma forse è questo che rende tutto più "psico-trip", e che dunque ci piace. Le sue visioni (perché tutti i detective ne hanno, ormai si sa!!!), sono però legate a quelle di un altro uomo, un ex agente addestrato a individuare gli spietati killer, secondo un metodo infallibile e sensoriale, detto "suspect zero", attraverso il quale è possibile vedere in netto anticipo le mosse dell'assassino, scene del delitto, flash di ogni tipo purché legate al delitto (ricorda molto il Commissario Ricciardi del nostro Maurizio de Giovanni). Il misterioso ex agente-sensitivo è Ben Kingsley. Vi lascio immaginare...

Alcune sequenze ricordano molto uno dei David sopra citati, Fincher, e nello specifico il suo Seven. Non è un lavoro impeccabile, né una pietra miliare del genere, ma non meritava di finire nel baule del "lo guarderò poi", perché rimane tutto sommato un buon thriller. Seducente e angosciante, lento da odiarlo, ma convincente sotto ogni punto di vista. 

Ah, quello che vedete, non è un cerchio, è uno zero!


lunedì 22 settembre 2014

Cinzia Doti - Pezzi di ricambio



Oggi parliamo di un esordio letterario, affidato alla collana Approdi, Vertigo.

L'autrice è Cinzia Doti, classe 1973 di Città di Castello.
Pezzi di ricambio è un dramma sui rapporti familiari, soprattutto questo. Ma è anche il dramma personale di un uomo che vorrebbe staccarsi dai problemi legati alla propria famiglia, senza tuttavia riuscirci.
Pier è un giovane dentista, single. Abituato a fare la spesa al supermercato da solo, prediligendo cibi precotti o pietanze biologiche, di quelle che a lungo andare fanno dimenticare i veri sapori.

Pochi grassi e calorie, ma la vita così rischia di non sapere più di nulla. Poche ore di sonno, e negli ultimi giorni perfino un mal di stomaco insopportabile, accompagnato da mal di testa e conati di vomito continui.
In realtà la vita di Pier e la sua monotona solitudine, viene ad un tratto stravolta dal ritorno improvviso del padre. Del responsabile dei suoi problemi, della depressione della madre, e delle bravate del fratello minore, Paolo.

Saverio è stato un uomo terribile, padre e marito che nessuno mai augurerebbe a una figlia, o meglio a nessuna donna. Noncurante della famiglia, incline al tradimento e alle botte, quest'uomo si ripresenta al figlio disperato, e con un motivo ben preciso: gli serve un rene. Un rene nuovo a tutti i costi!

Malato, Saverio è costretto alla dialisi e la sua unica possibilità di salvezza è legata alla donazione di uno dei suoi figli. Il primo ovviamente è Pier, dopo di lui la seconda scelta, l'ultima chance, Paolo.

Inutile dirvi che la reazione dei figli non sarà delle migliori, e tutto il libro è narrato in prima persona da Pier, colui che vive e viene travolto dagli eventi. Imprevedibili, che non ti danno più molte alternative e, come spesso accade, ti devastano.
Il libro scorre senza perdere di vista l'attenzione del lettore. Capita ciò che ti aspetti e quello che temevi potesse...ma che mai avresti voluto.
Il dramma di Pier, scritto a mo' di diario, riesce a coinvolgere il lettore dalla prima all'ultima pagina. Ci si chiede come possa un genitore avere la faccia tosta di tornare a bussare alla nostra porta dopo tanti anni di silenzio. Ci si chiede come possa, un genitore, trattare con un figlio come fosse un cliente importante giunto al proprio autosalone. 
Volere quel pezzo di ricambio necessario.

E se magari non saranno le azioni disgustose di un padre, a farci sentire "pezzi di ricambio", capita che il lavoro sporco lo porti a termine la vita stessa. E in quel caso non puoi gridare, non puoi mettere nessuno con le spalle al muro. 
Non puoi fare più nulla.


giovedì 18 settembre 2014

La variabile umana



Di Bruno Oliviero avevo sentito parlare soprattutto in merito al genere documentaristico. Così, curiosando un po', ho scoperto MM Milano Mafia, che devo recuperare, e nel frattempo sono riuscita a vedere quello che è stato il suo esordio nel lungometraggio, ovvero La variabile umana.

Al di là del titolo, che mi è piaciuto fin da subito, c'è in questa storia, una serie di "qualcosa" che mi ha profondamente incuriosita. Il primo fattore potrebbe essere legato alla presenza di Silvio Orlando, un attore che io stimo tantissimo e tutte le volte che mi capita di osservarlo, sul piccolo o grande schermo, mi sembra di assistere a un monologo teatrale recitato da una maschera drammatica davvero unica. Orlando ha nel viso e negli occhi un dolore che pare appartenergli, e questa sensazione io la provo sempre.

Poi potrebbe aver influito il genere. Un poliziesco a metà tra il noir e il dramma psicologico/familiare, a me fa sempre gola, e non ci penso su due volte. Lo vedo!


Devo dire che la storia parte in maniera piuttosto stereotipata, e in realtà allo stesso modo si evolve e si conclude. Con questo però non voglio dire che il film risulti banale o scontato. Sono al contrario felice di ammettere che, il film mi ha convinto soprattutto per come sceglie di schiudersi. Ovviamente merito del regista, e degli sceneggiatori. Perché La variabile umana aveva tutte le carte in regola per inciampare nel luogo comune del poliziesco made in Italy, e non lo ha fatto.

Non conosco Bruno Oliviero se non da oggi, con questo film appena scoperto, ma qualcosa mi porta a credere che ci sia del talento in lui. Mi piace come porta l'occhio dello spettatore nel vivo del dramma, attraverso movimenti di macchina lenti, l'alternarsi di una Milano che si scopre all'alba e poi al calar del sole. Mi piace il suo alternare il caos di una discoteca e la frenesia, alla calma piatta e alienante dei silenzi che spesso frantumano le vite familiari. Ci sono pochissimi dialoghi, e c'è la presenza forte di una musica davvero avvolgente, composta da un certo Michael Stevens ( Gran Torino)...

In conclusione, e senza stare a rivelarvi troppo su un finale che a me è piaciuto "davvero molto", vi dico di recuperare questo film, qualora non lo aveste già fatto.  

martedì 16 settembre 2014

Marcela Serrano - L'albergo delle donne tristi



Non lasciatevi ingannare dal titolo, se potete non fatelo mai!
Io cerco sempre di "andare a pescare" un significato diametralmente opposto a quanto potrebbe evocare il titolo di un libro. E se quello che ne viene fuori mi incuriosisce, allora vuol dire che potrebbe piacermi.

Così è stato con il libro di Marcela Serrano, L'albergo delle donne tristi. Comprato prima di partire per la Calabria questa estate, messo in valigia insieme a Il libro dell'inquietudine di Pessoa.

La mia famiglia e alcuni amici mi guardavano sbarrando gli occhi, alcuni facevano l'espressione preoccupata, di quelle che vorrebbero dire: "poveraccia, chissà com'è depressa". Ma la realtà è che chi si trova al di là del libro, e di quella copertina che ricorda molto le donne Tahitiane di Gauguin, non ha idea di cosa raccontino quelle pagine. Non è un libro per donne tristi, è un invito profondo e sincero, a riflettere sulle questioni più note e allo stesso tempo ignote, ahinoi, riguardanti l'uomo/essere umano. 

L'amore e il disamore. - (Il disamore) - La mancanza di fiducia in sé stessi. La paura dell'altro. Le difficoltà nel gestire i rapporti. Il terrore di sbagliare ancora una volta. Rinunciare credendo così di salvaguardare la nostra felicità. Mettere i nostri sentimenti e i nostri sorrisi in castigo, perché seppur doloroso, a volte ci sembra l'unica cosa giusta da fare. La via che porta alla felicità probabilmente non esiste, così come non esistono uomini e donne ineccepibili, esenti dalla capacità di fare del male al prossimo...quella è propria dell'essere umano!

E questo libro scardina il genere rosa, esce dai binari del sentimentalismo e della lacrima facile, quella che spesso accompagna o sigilla letture sofferte. Lui che ama lei, che ama però un altro, che a sua volta è innamorato di un'altra (...che poi muore!), e così via. Non c'è lo stronzo che tradisce e non c'è la migliore amica che mette il carico e un po' si sforza di consolare la povera assistita appena cornificata. No.

L'albergo delle donne tristi è un piccolo trattato sull'amore, con la raffinatezza e il fascino folcloristico delle storie vissute e giunte da una piccola isola del sud del Cile. Passando per l'oceano, e attraversando le case e le piazze di donne che trovavano appena potevano, il tempo per i propri doveri e piaceri senza badare alle differenze. Di mogli che lentamente capiscono di avere gli stessi diritti dei loro mariti. Di mariti che iniziano a temere delle nuove consapevolezze delle donne che fino a ieri sembravano esser felici senza pretese strane, senza cercare di scoprire la vita oltre la soglia della porta di casa. 

In un piccolo albergo donne tristi si riuniscono per condividere gli stessi dolori, le stesse, o le più dissimili, esperienze. Tradimenti, notti di sesso e di passioni indimenticabili, lacrime versate da occhi di donna-madre-amica-sorella-amante. 
Promesse infrante e sentimenti disfatti, come le valigie quando si ritorna da un viaggio*. 
Come la vita quando non ci piace, come l'amore quando fa male, come il caldo quando lo cerchi e continui a sentire freddo.


*Mai uguali a come eravamo. 

ci sono due cose importanti che non devi mai dimenticare. Primo, che non esistono donne onnipotenti, l’amore non fa distinzioni e travolge tutti allo stesso modo perché, grazie a Dio, è un flagello molto democratico; secondo, che gli uomini di oggi hanno una caratteristica abbastanza singolare: amano ciò che non hanno il coraggio di scegliere.


giovedì 11 settembre 2014

Il chicchirillo del Chìcchirigallo



Dedicato a tutti e vietato a nessuno.
  
È il chicchirillo del Chìcchirigallo.
Un suono che piace, che forse non c'è.
È il sorriso di un bambino che guarda il mondo, è il tuo.
Che mi guardi e spalanchi gli occhi, gli occhi da cerbiatto, mai stanchi, sempre attenti.
È la tua voce che mi guida, che mi prende, mi porta ovunque.
Lo vedi, in mezzo a tutto il niente nascosto dalle cose ingombranti, eppure piccole, inutili, stupide, sbiadite.
Tu lo vedi. 
Io no.

Il chicchirillo è il gioco che mi invento ogni sera
che trastulla te, e me, mentre cerco una risposta, che ti sia utile, che ti piaccia, che ti soddisfi.
Così piccolo e già così esigente, così meticoloso nel trovare il tutto in ogni dove.
Il chicchirillo è nel tuo sorriso, quello che hai ora, in questo momento.
Mentre mi chiedi del sole e della luna
"sole - ninna - luna - cielo - mamma - chicchirigallo!"

Il chicchirillo è nella mia testa, mentre ti guardo e provo a capirti, 
e non ci riesco, forse non ci riuscirò mai. 
-Perdonami, puoi?-
Ma se a te fa sorridere, io continuerò a canticchiare questa filastrocca.
Amando di lei ogni piccola strofa, pur non capendola.
Insieme a te, per te.

Il chicchirillo del Chìcchirigallo in fondo è questo.
Il desiderio di continuare, 
a vivere, sognare, canticchiare, scrivere, sorridere.
A guardare il cielo aspettando la luna, cercando nel buio qualunque cosa
purché faccia rima, purché suoni bene
purché ci dia un buon motivo in più.

-Ai miei figli-
Il chicchirillo del Chìcchirigallo
Sono solo una mamma un po' esaurita, un po' stravagante, un po' così...


sabato 6 settembre 2014

John Green - Colpa delle stelle



I casi letterari che poi diventano casi cinematografici, di solito tendo a evitarli. Non a lungo termine però, magari mi prometto di recuperare libro e film, quando ormai la tempesta mediatica, felice o triste che sia, può dirsi conclusa.

Esistono tuttavia delle eccezioni. Tant'è...
Colpa delle stelle mi aveva colpito più di un mese fa circa, quando vidi la copertina in vetta allo scaffale dei libri più venduti. Ma non fu abbastanza, non lo comprai e come spesso capita con i libri "non presi", ci si dedica a nuove letture ma un po' con la testa rimaniamo anche lì. Attaccati a quel momento in cui abbiamo deciso di non prendere quel libro a vantaggio di un altro. Chissà per quale ragione poi, non credo ci sia dato saperlo.

"Mentre la marea saliva, l'Olandese dei Tulipani fronteggiò l'oceano: "Unisce ricongiunge avvelena occulta rivela". Guarda mentre sale, ridiscende, porta con sé ogni cosa".
"Che cos'è?" domandò Anna.
"L'acqua disse l'Olandese dei Tulipani. "Be', e il tempo".

-Peter Van Houten, Un'imperiale afflizione

In questo libro c'è una storia, e in questa storia un altro libro. Dunque un'altra storia. Metaletteratura, sì, capita spesso. Storie che si ripetono senza pretendere lieto fine o chissà quale colpo di scena, se non l'aver guadagnato due o tre anni di vita in più. Protagonisti sono giovani ragazzini affetti chi da questo o, Dio solo sa, quale altro male. Un male che li rende inevitabilmente "diversi", e non parlo dell'aspetto fisico che ci paralizza spesso di fronte a uomini o donne che dimostrano un evidente stato terminale, o quasi, o qualsiasi altro deficit che è sintomo di quella maledetta malattia che li ha colpiti. Parlo della diversità nell'affrontare la vita. Del coraggio e della sincerità, e della forza incredibile che a volte diventa ira, altre commozione, oppure ribellione, senso del rifiuto per il mondo intero, voglia di vivere nonostante tutto, voglia di arrendersi.

I protagonisti di questo romanzo, scritto da John Green, si muovono tra le pagine come i protagonisti del diario di una sedicenne. E l'aspetto straordinario del libro, è che sembra essere scritto proprio da una adolescente. C'è la sincerità non condizionata, che è tipica di chi a quell'età prende un pezzo di carta e comincia a scrivere. E c'è l'enorme carica emotiva e narrativa, che in un diario è difficile riscontrare, tipica del romanzo. 

Ora, non mi va di stare a  sottolineare che Lui e Lei siano malati e che con buone probabilità finisce male. Finisce tutto. Finisce che tu piangi come una ragazzina isterica e finisce. Finisce.

Preferirei parlare di una storia d'amore, e di quello che mi immagino ora nella testa. Ovvero un teen movie più drammatico del solito, che è andato a impigliarsi con storie di cancro e tutta una serie di infiniti possibili. Mi immagino questa ragazzina coi capelli corti e le sue All Star ai piedi, me la immagino trascinarsi dietro il suo carrello dell'ossigeno e poi il suo sorriso. Ancor più dietro, lungo i suoi passi, vedo poi un coraggio che mette a disagio qualsiasi altro essere umano. Vedo un ragazzino con una sigaretta spenta in bocca, fissato con le metafore. Andamento un po' sbilenco, movimento strano del corpo, ma comunque sexy come il più figo della scuola o il bulletto della comitiva che è un po' stronzetto, ma a chi non piace?
Me li vedo su una panchina ad Amsterdam, discutere di uno scrittore ubriacone e di un libro incredibile. Incredibile perché sembra capire la vita vera, compreso il male, compresa la morte, compreso tutto.

Vedo una rampa di scale lunghissima, una ragazzina che fa fatica a salire. Mi manca l'aria mentre leggo e non vedo l'ora che lei arrivi su, e che torni a respirare senza che i polmoni rischino di esplodere. Vedo l'amore che arriva al di là del male, il coraggio e la paura di credere che poi alla fine tutto è solo una conseguenza del cancro, della morte garantita. Ma alla fine quella ragazzina ce la fa, arriva fino in cima, porta a termine la sua impresa e quelle scale rimangono dietro di lei, insieme alle battaglie vinte, insieme a quelle perse, insieme a tutto il resto. 

Ce la fa perché per oggi può dirsi salva. Ha un pezzetto di vita in più. 
E a volte basta, anche se è maledettamente ingiusto.


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