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Non pensarci



Capisco di amare davvero un film, quando alla terza visione mi sembra ancora "di più".
Più pulito, più completo, più commovente e sincero.

Ed è in film come Non pensarci, che avviene il miracolo. Una piccola crepa da cui entra il sole, il cinema italiano che vorresti sempre, fatto di e per, uomini semplici, gente di provincia. Storie di bugie destinate a rivelarsi, prima o poi, e quando arriva quel momento fa male, tanto da farti rimpiangere i tempi in cui "ci riempivamo di cazzate".

La storia della famiglia Nardini e delle ciliegie, di uomini sull'orlo di un esaurimento nervoso, donne presunte lesbiche e madri di famiglia schiacciate dal peso delle verità inconfessate. Non pensarci è soprattutto la storia di Stefano, grande prova (l'ennesima) d'attore per Valerio Mastandrea, aspirante rockstar da sempre, disegnato con la punta morbida della malinconia, a metà tra il punk e un'aria di Verdi. 
Ciascuno dei personaggi diretti e scritti dal regista Gianni Zanasi, si muove come in un campo minato. In bilico, attento a non sfasciare l'ultimo pezzo di vita intatto che gli rimane. E sarà un'impresa riuscirci, per ritrovare l'equilibrio nella realtà ovattata e circoscritta in una Rimini ingenua, velata di rassegnazione e stanca di chiedersi perché, stanca di cercare le risposte e di porsi domande. 
Stefano lascia Roma, guardando per l'ultima volta, forse, la propria band fatta di ventenni, la guarda meglio e vede un ragazzino buttarsi tra la folla, a cercare le braccia del pubblico. Un atto di fiducia estremo per un musicista, lezione di vita destinato a chiudersi con un botto assordante.


Ritrovare la famiglia e mettersi in viaggio, destinazione Rimini, con giusto un paio di indumenti infilati nella custodia della chitarra e senza particolari pretese. Forse l'unica, quella che risponde al bisogno di sentire qualcuno vicino, vicino sì, "ma non troppo". Le conseguenze degli affetti familiari, e l'inevitabile presa a cuore dei problemi dei singoli membri della famiglia, catapulteranno Stefano e lo stesso spettatore in un vortice di eventi e battute serrate, pungenti, tragicomiche e inverosimili quanto vere, verissime. 
Vere come la mania che abbiamo di proferire verità assolute, quando poi in realtà le ignoriamo. Per paura o presunzione di sapere, perché diamo per scontato tutto, e siamo stanchi di chiedere agli altri e sempre più pigri. Scherziamo sulla depressione senza immaginarne le conseguenze, combattiamo per la verità ma per sorridere ci basta pure amare una puttana, anzi preferiremmo non sapere chi è e cosa fa per campare. 

Giuseppe Battiston è sempre una grande conferma; è Alberto, marito separato e diretto erede della fabbrica di cui porta il nome, grande e grosso eppure così fragile, stanco, pieno di debiti e anche lui col vizio di mentire pur di salvaguardare l'immagine dell'azienda. In lui vedo sempre quella struggente malinconia dell'uomo solo, a un passo dall'esasperazione ma potenzialmente colui che potrebbe salvare gli altri e persino se stesso. Non so, è una crescita lenta e tormentata quella dei suoi personaggi, mi devasta, mi prende il cuore e ne fa ciò che vuole.
C'è un momento in cui lui dice che la sorella è una donna straordinaria, che l'ammira davvero tanto anche se non glielo ha mai detto. Ed è necessario che lo sappia lui, lei non deve saperlo e va bene così.
Questo passaggio mi ha commossa, e ancora non ho capito: "sarà la scelta di un uomo solo, o di un uomo terribilmente onesto e sincero?".


Mastandrea ha un dono, che pochi altri hanno. Quello di incarnare le verità che maledici, le stronzate e le virtù dell'uomo, senza badare alle conseguenze.
Lui riesce a muovere la bocca, a riempirla di silenzio di fronte a una verità che stravolge. E lo fa come lo faresti tu, perché sai che è così, oppure perché lo hai provato sulla tua stessa pelle.
Lui ha la capacità di osservare le anomalie e le follie del mondo, anche se poi da copione il suo dovere è la battuta, da lui traspira sempre quella triste consapevolezza che appartiene a tutti.

"Io stavo molto meglio quando ci riempivamo di cazzate".

Il film nell'insieme è una perla da scoprire, ma spesso ciò che lascia il segno e rimane sullo schermo e dentro lo stomaco, è uno sguardo nel vuoto, un gesto semplice che ti sembrerà comunque estremo. Un uomo nell'acqua a recuperare un accendino, un uomo che a un certo punto si ferma e di fronte al disfacimento totale si accende una sigaretta, immobile, noncurante della catastrofe. 
Una donna che guarda i delfini e un uomo che dice "grazie di niente". 



"Ma non vi rompete i coglioni? Così in generale".

Commenti

  1. Ricordo che lo vidi molti anni fa... Mi fece molto piacere vederlo. A suo modo è un gioiellino.

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  2. Vero Marco. Un gioiellino di cui andar fieri. ;-)

    RispondiElimina

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