venerdì 27 marzo 2015

Italianen

 

Noi italiani si sa, in fatto di titoli siamo davvero in gambissima.
Soprattutto noi italiani, andiamo forte quando scriviamo articoli e riempiamo prime pagine. Sì insomma, com'è che si dice: "fare giornalismo", no?
 
Oggi Il Giornale ne dà l'ennesima conferma.
Visto e considerato che, ai tempi della tragedia della Concordia, un settimanale tedesco ha fatto "il simpatico" con tanto di ironia al limite del razzismo, oggi il buon Sallusti ha pensato bene di prendersi la sua rivincita.
Eccerto, voi tedeschi avete preso per i fondelli Schettino?
E io mi vendico.
M'hai provocato?
E io te distruggo.
 
Sallusti sì, direttore del quotidiano in questione nonché compagno della Santanché, quella che vede autobus volanti...
 
A quanto pare Sallusti ha voluto ribadire ai tedeschi che, alla fine, ognuno paga la lezione.
Cari tedeschi, noi abbiamo Schettino, voi avete "Schettinen".
Cos'è, satira? 
 
Il direttore poi ricorda le parole dell'italiano rivolte a Schettino quel giorno "torni a bordo, cazzo", così come quelle del tedesco al co-pilota Lubitz "apri la porta, cazzo".
Ho i brividi.
Be' ora possiamo dire grazie a Sallusti, per averci ricordato che non importa se tu sia italiano o tedesco, perché "cazzo" in fondo è universale, e se tu sbagli - ricorda - è giusto che muoia.
 
Io, da signora nessuno che osserva e vomita, di fronte a certi fatti, griderei questo (a Sallusti e a molti altri) "fate giornalismo, cazzo".
 
 

giovedì 26 marzo 2015

The Walking Dead - Uomini e no

 
 
Andare a rivangare gli incubi ricorrenti degli esseri umani, credo porti in superficie la natura di tutti. Le paure più attecchite e le più inverosimili. Tipo:"svegliarsi una mattina e vedere il mondo a pezzi - cioè peggio di come è attualmente - e rendersi conto che la gente no, non è sparita".
Tepiacerebbe.
L'impensabile viene tradotto in lamenti disumani e passi sbilenchi, volti frantumati, morti che camminano.
Zombie.
Paure queste che portano addirittura noi uomini a sorridere o, nei casi più disperati (vedi me), a investire tempo e risorse pur di garantirsi quelle quattro ore al giorno davanti alla tv, immobile quasi in stato comatoso, pur di recuperare non una, non due, bensì TUTTE le stagioni di The Walking Dead.
 
Ovvero zombie che camminano e rompono i maroni dalla mattina alla sera a quei poveri cristi sopravvissuti a chissà quale assurda catastrofe. E punto!
Ma dov'è il lecito e l'illecito quando si è davanti alla tv e non si trova ragione altrove se non lì, esattamente lì?
La realtà è che i nostri schermi, proiettando serie tv, attivano uno strano meccanismo per cui micidiali gas allucinogeni iniziano a viaggiare nell'aria. E tu respiri quella bomba stupefacente e, sempre tu, senza neanche accorgertene, arrivi a quel punto critico in cui tutti, prima o poi, dovranno trovarsi. Quello in cui gli episodi da vedere sono finiti. Esauriti. Terminati.
E non ti resta che aspettare un finale di stagione da 90', quello che poi segnerà la tua morte definitiva:
"la nuova stagione - un anno senza".
E la tua reazione è raccapricciante.
I tuoi genitori in sala a gridarti contro: "avevi detto un episodio e poi smetto quando voglio", "che delusione Vale, da te proprio non me l'aspettavo".
 
E tu lì a piangerti addosso, ma non per la delusione e la ramanzina dei tuoi, no. Perché pensi che la sera del finale di stagione tu sei a lavoro, e torni tardi. Ciò significa che dovrai registrare quell'ultimo maledetto episodio e vederlo dopo. E dopo significa "dopo che tutti gli altri lo hanno visto. E tu no".
La depressione è dietro l'angolo, tuttavia, c'è un aspetto positivo in tutta questa assurda storia...
Momento serietà.
Vedendo The Walking Dead ho iniziato ad abbandonare quel vecchio pregiudizio secondo il quale gli zombie, come genere cinematografico o seriale, non meriterebbero alcuna attenzione. Cose troppo splatter e trash per i miei gusti.
Ultime parole famose...
 
Dopo le esperienze più che felici, nel mondo seriale, con The Leftovers e True Detective, si è riaccesa in me la voglia di dannarmi l'anima a suon di "ancora uno, ancora un episodio!!!". La dipendenza vien da sé, si sa. E a forza di seguire la storia di Rick, del suo incubo e poi di tutti, ho capito che il sentimento più comune tra gli uomini, è la nostalgia delle cose passate.
Qui ovviamente è vestita e truccata tanto da non farsi vedere, perché dietro corpi squartati e sangue in ogni dove, viene quasi difficile pensare a un sentimento così delicato e silenzioso, come la nostalgia.
Eppure a ben vedere, è una costante in The Walking Dead.
Il mondo com'era prima sembra solo la vigilia della sua stessa morte, e il ricordo di quel mondo felice seppur imperfetto, tormenta i sopravvissuti.
 
La famiglia, compagni e fratelli pronti a morire l'uno per l'altro. Apprezzare le piccole cose, imparare a combattere con la rabbia di un leone e conservare quel briciolo di umanità. Affinché non ci si scordi mai di com'era prima. Anche nella storia più post apocalittica che si possa raccontare, anche in mezzo a zombie che camminano e fiotti di sangue, viene fuori la verità primitiva, semplice.
Che per quanto uno possa essere scaltro, in gamba e "sveglio", trova sempre uno più furbo pronto a fregarlo come volta le spalle. Che ci sarà sempre qualcuno di cui diffidare, e che distinguere i buoni dai cattivi è impresa impossibile.
 
Finisce quasi che tu dimentichi il motivo per cui tutto è cominciato. Gli zombie.
Perché a contare le vittime quasi fai fatica, a distinguere quelli morti azzannati da quelli morti ammazzati dall'accidia, dall'indifferenza e dalla cattiveria. Tutte virtù degli uomini. Dei vivi.
Ti chiedi costantemente cosa sia davvero l'umanità e, nel caso tu ci riesca, a capirlo, arrivi persino a provare pena e compassione per un putrefatto chiuso nel bagagliaio di un'auto e legato, inerme.
Scatta in te quel sentimento che porta a immaginare tutto ciò che un tempo riguardasse quel morto vivente, la nostalgia di una vita non tua. Ti rendi conto che tutti, zombie compresi, sono vittime delle scelte degli uomini. E che in qualsiasi mondo tu possa svegliarti la mattina, la tua più grande sfida sarà quella di guardarti bene intorno, ovunque ti trovi.
Soprattutto ora, che sei sveglio e la tv è spenta.
Perché questo non è il mondo degli uomini e degli zombie, ma il mondo degli uomini e no.
 
 
 
"Ciao Vale, sono la mamma di Davide, il compagno di classe di Luca. Ti ricordi?".
 
Chi sei?
Quanti zombie hai ucciso?
Quanti uomini?
Perché?

giovedì 19 marzo 2015

Allacciate le cinture

 
 
Premetto di non amare Ferzan Özpetek, e lo dico un po' perché io adoro le premesse tirate lì così, in maniera brutale, schietta. E un po' perché voglio rendere pubblica la mia inaspettata reazione al film, il quale, ve lo devo dire: mi è piaciuto!
 
La prima conclusione tratta, a caldo, è stata questa: "non c'ho più il fisico per fare il critico".
Poi ho provato a ricollegare le visioni precedenti, le stesse che, nell'arco di qualche anno, hanno definito un'idea più o meno generale a proposito della filmografia del regista.
Ritengo da sempre, che un regista abbia tutta la libertà e il diritto di riempire lo schermo e la trama narrativa dei suoi film, servendosi di quegli stati d'animo che più gli appartengono. E per stati d'animo intendo un po' tutto ciò che anima e allo stesso tempo tormenta, un essere umano (non per forza un artista). Ma credo sia necessario calibrare un po' il tiro, e far sì che lo spettatore alcuni dettagli possa coglierli appena, senza che questi, al contrario, lo travolgano.
 
E le fisse, chiamiamole così, di Özpetek sono tanto evidenti da risultare, alla lunga, fastidiose come la sabbia negli occhi. Perché a mio avviso che tu voglia far riflettere il pubblico sull'omosessualità e sull'amicizia, a me sta bene, fino a quando questo non diventi ricorrente e monotono. Nonostante questo, mi è capitato di amare più di una pellicola firmata dal regista, e tra queste spiccano Le fate ignoranti e La finestra di fronte. Con particolare trasporto la prima, perché in quella mansarda colorata e multiforme, posta nel cuore di Roma, io ho colto uno dei momenti più alti del cinema di Özpetek.
 
 
Diciamoci la verità, nel caso di Allacciate le cinture, ha influenzato il giudizio di molti, sapere che nel cast ci fosse un ex tronista. E lo dico, ha influenzato un pochino anche me. Ma la forza più grande di questo film risiede esattamente qui, nel capovolgere le aspettative. Che sono proprie dello spettatore e, al tempo stesso, dell'essere umano. La vita te la immagini e molte delle circostanze in cui prima o poi, ti troverai, sembra quasi che tu possa prevederle. Ma la realtà ti insegna che non è così, anzi.
E non è certo la storia d'amore tra Elena e Antonio, a dare credibilità al film, compreso quel tocco spietato dai colori caldi che scuote gli animi e fa sorridere. E fa commuovere.
La malattia, l'accettazione, l'amicizia, l'ironia, e i progetti.
Finalmente Özpetek azzarda, puntando su orizzonti distesi lungo i cieli di tutti. E metti pure che io abbia un debole per Filippo Scicchitano, e mettici pure che io davvero non trattengo il cuore, quando a vincere è l'entusiasmo di vivere nonostante tutto. Nonostante pure la morte imminente.
Stavolta Özpetek ha detto "fanculo la morte, io ho vinto comunque".
Avevo il mio progetto.
 

venerdì 13 marzo 2015

#tuoexgiornalismo

 
 
Di notizie assurde ne è pieno il giorno, lo dico tutte le mattine.
Poi il nostro paese ha di bello che davvero tutti, ma tutti tutti, possono raggiungere un pezzo di gloria e guadagnarsi una parte da protagonisti, senza merito né provino. 
Tutti tutti, sì, basta che paghi!
Ad esempio, vuoi vedere pubblicato un tuo qualsiasi (iasi iasi) pezzo su una nota testata cartacea?
E che problema c'è?
Puoi.
(bastachepaghi)
 
Anche se non sono un giornalista professionista?
Eccerto.
(bastachepaghi)
Anche se in italiano avevo tre barra quattro?
Suvvia, che domande.
(bastachepaghi)
 
Ok. Una volta tastato il terreno e preso coscienza del fatto che una pagina a pagamento, in Italia, se po' fa, io direi che vale la pena provarci, no?
No. Lo so. Ma a molti la coscienza sfugge e il pudore pure.
 
Enzo è stato tradito, o meglio, ha capito che la moglie se li faceva proprio tutti, ma tutti tutti.
Così, preso dal dolore e dalla brama di vendetta, ha pagato un giornale per avere almeno la possibilità di sputtanare la donna. La storiella apparentemente è questa, e la tenerezza ebete e infantile dell'autore porta tutti ad essere più buoni. E quando sei buono tendi a evitare ogni tipo di domanda, eviti di andare a fondo e non ti importa capire.
Ma capire a volte è necessario e inevitabile.
E ci voleva Selvaggia Lucarelli per ricevere l'illuminazione?
Certo che no. Con tutto il rispetto per la Lucarelli - del resto troppo impegnata ad occuparsi di temi scottanti e delicati, come l'eliminazione di Rocco e Diaco e le peripezie della Marini ecc ecc. - qui il vero problema,
è un altro.
 
A quanto pare il 16 marzo partirà su Real Time un nuovo programma "Alta infedeltà", e questa sembrerebbe a tutti gli effetti una trovata pubblicitaria.
(Ah, complimenti ai trovatori di trovate pubblicitarie eh?).
E il dramma culturale e sociale risiede esattamente qui: I nostri quotidiani anziché fare informazione, si prestano a promuovere stronzate simili, anche note come la morte della tv, del giornalismo, di un paese intero.
 
"Cara Valentina, so che un tempo ambivi a diventare una giornalista professionista. So che ci credevi davvero, so che ci stavi provando, anche andando contro tutto e tutti. So quanta merda hai visto e quante delusioni in quell'ambiente. So anche che, quell'ambizione col tempo è andata a morire chissà dove. So che hai dovuto rivedere i tuoi piani e rimetterti in gioco, e ti dirò di più: hai fatto bene!
Ci vediamo nel prossimo sogno,
tuo ex giornalismo".

mercoledì 11 marzo 2015

L'astuccio pieno

 
 
I grandi scrittori avevano ognuno la propria musa ispiratrice, e di essa scrivevano, su di essa ogni pensiero o sentimento rifletteva. Ognuno di quei grandi scrittori, traeva un'ispirazione tale, che fosse triste o felice poi poco importa, da portare tutto ciò che sulla carta prendeva una forma e un chiaro respiro, a brillare di una luce unica. Era quella la magia delle muse ispiratrici.
Nella letteratura contemporanea, nella poesia e in ogni qualsivoglia forma letteraria che appartenga ai nostri tempi, nessuno sa se ancora si nasconda dietro le più brillanti pubblicazioni, una presenza così forte e riconoscibile, come allora, in una figura quasi celestiale eppure tangibile, vera.
 
Sarebbe interessante ricercare le origini dell'ispirazione che muove gli scrittori e le scrittrici di oggi, con tutti i rischi che ne potrebbero seguire. Sia chiaro...
 
Be' io non mi definirei mai una scrittrice, semplicemente, ogni tanto, faccio qualcosa che in fondo, a quella schiera di mestieranti alla disperata ricerca dell'ispirazione, mi lega. Non so nemmeno come, né tantomeno posso confermare che sia effettivamente così. Eppure mi piace concedermi, di tanto in tanto, questa storia che parli di me, come di una ricercatrice a tempo pieno di idee e storie su cui investire.
Investire tutto, e non c'è un budget da cui partire. Solo una pagina bianca.
 
Non so bene cosa accadesse nelle menti e nelle anime delle grandi scrittrici, ma so per certo cosa accade nella testa e nella pancia di una mamma aspirante scrittrice, e ancor di più so, dove si trova il centro nevralgico della tanto ambita ispirazione. So dove cercare, e non è presunzione, credetemi.
Lo so per certo, tutte le volte che i miei figli offrono a me - inconsapevolmente - un cucchiaio bello pieno di poesia già pronta.
 
Per questo, oggi vi racconto una storia di ordinaria bellezza, semplice e tipicamente di "mamme e figli". Come il poeta e la musa, forse di più...
 
Ultimamente Luca si è fissato con la storia degli astucci nello zaino (prima elementare), tanto da non vedere l'ora di uscire di casa per raggiungere la scuola (e quando mai?). In verità, è in vigore da giorni una stranissima legge indetta dai bambini stessi, secondo la quale, "se tu bambino-amichetto-compagno non hai almeno cento colori nell'astuccio, non sei nessuno".
Diretti verso scuola, lungo il solito tragitto percorso in auto, Luca ricomincia con la storia della appena citata legge - assolutamente inviolabile. Io cerco di fargli capire che sono abbastanza stanca della storia dei cento colori, e provo a spiegare che in realtà queste sono solo le prime sfide e i primi sintomi della mania di competizione che affligge i maschietti. Ma lui niente, è troppo testardo e non curante delle mie parole prosegue lungo la sua linea.
Così, mentre lui mi rammenta l'assenza del marrone e del verde chiaro, cerco di essere più dura.
"Lù. Basta - teprego!".
Non sembra affatto convinto del mio breve seppur intenso, sfogo.
Infatti, con tutta calma mi guarda e fa:" Ma', ma un astuccio vuoto che senso ha?".
Come la vita - ho pensato.
 
Ok, mi arrendo.
Più colori per tutti! 

martedì 10 marzo 2015

Il gesto fotografico - Due chiacchiere con Francesco Fratto

 

Oggi parliamo di fotografia, in realtà lascio che a farlo sia un carissimo amico, Pietro De Bonis. Di seguito, la sua intervista a Francesco Fratto.

Sono convinto che con la fotografia ci siano due modi di raccontare la realtà: scoprendola o reinventandola. Io preferisco scoprire.”
 
Francesco Fratto nasce il 28 dicembre 1970 a Portogruaro (VE). Attratto sin da subito dalla fotografia, riceve la sua prima reflex all'età di dodici anni cominciando a tenere un personale diario visivo di viaggi e ritratti. A diciott’anni anni comincia a frequentare il Circolo Fotografico Fincantieri di Trieste, affinando il gusto per il linguaggio fotografico. Dopo la laurea in farmacia, tuttavia, smette di fotografare intimorito dalle nuove tecnologie digitali. Nel 2006, in concomitanza con la nascita della figlia Giulia, riscopre la passione per la fotografia, nonché la scoperta della fotografia digitale. Dal maggio 2012 è iscritto all'Associazione Nazionale Fotografi Professionisti (Tau Visual).

Il lavoro di Fratto si concentra soprattutto sul rapporto tra l'artista e la comunicazione della propria immagine, mescolando la fotografia di scena alla ritrattistica di giovani talenti e artisti affermati.

Francesco Fratto si è reso molto disponibile a rispondere ad alcune mie domande.

Pietro De Bonis: Ciao Francesco! Una passione per la fotografia che nasce grazie a tuo papà?

Francesco Fratto: Ciao Pietro. In effetti, è proprio così. Il mio “rapporto” con la fotografia inizia fin da piccolo grazie alle serate passate con mio padre in compagnia dei suoi amici a vedere diapositive di viaggio o a visionare stampe in Bianco e Nero discutendo di pellicole o formule per i bagni chimici. La voglia di provare questo “strumento” mi ha subito affascinato, tanto che già a 14 anni ricevetti la mia prima reflex con la quale mi divertivo a ritrarre amici e ricordi di viaggio. Era il mio modo di tenere un diario delle esperienze più belle, ma anche di cose quotidiane di cui volevo conservare una traccia.

Pietro De Bonis: Leggevo dalla tua biografia che in passato la paura per le nuove tecnologie digitali ti ha fermato, perché? In cosa ci perde, o guadagna, una fotografia passando da analogica a digitale?

Francesco Fratto: In effetti, c’è stato un lungo periodo della mia vita in cui la fotografia ha faticato a trovare spazio. Dopo la laurea in farmacia, la mia fotocamera restò chiusa in un cassetto per lungo tempo. Un po’ per necessità lavorative (a quel tempo lavoravo a ritmi serrati in un’azienda farmaceutica) un po’ perché nel frattempo mi spaventava passare dall’analogico al digitale. Ero cresciuto con il mito della “Leica” e delle foto alla Berengo Gardin e l’idea di abbandonare l’analogico mi sembrava sminuire il “gesto fotografico”.
Solo dieci anni dopo, acquistando la prima reflex digitale ho capito che avevo solo perso del tempo prezioso per rincorrere un pregiudizio stucchevole. Il mezzo tecnologico può anche cambiare. E’ il fine che resta sempre lo stesso: raccontare tracce di realtà. Una fotografia senza niente da dire resta tale sia se impressa su una pellicola sia che venga catturata da un sensore da 24 megapixel. Così come una buona fotografia resterà sempre una buona fotografia, sia che venga fatta da una Rolleiflex analogica sia che venga scattata da uno smartphone di ultima generazione.
L’importante è che quello che abbiamo da raccontare sia interessante.
E che lo si sappia raccontare con il giusto “linguaggio”.

Pietro De Bonis: La ritrattistica il tuo cavallo di battaglia? Quale stato d’animo ritieni capace di catturare al meglio?

Francesco Fratto: Non so dirti se effettivamente la ritrattistica sia il mio cavallo di battaglia… So per certo che le persone mi affascinano, in generale. Da sempre. Mi piacciono le infinite sfumature del comportamento umano. Le mille storie che si nascondono dietro ognuno di noi. Provare a raccontare alcune di queste storie è una sfida che mi intriga. Credo che una delle qualità più importanti di un fotografo sia la sua empatia verso gli altri e la capacità di essere “discreto” nel momento dello scatto, lasciando che la realtà non venga eccessivamente distorta dalla sua presenza. Ecco: questa è una delle sfide che più mi piace affrontare quando fotografo. Sia quando posso lavorare in studio, sia quando incontro qualcuno durante un reportage o per strada. Quando in una mia foto mi accorgo di aver “spinto” il soggetto verso una situazione che non appartiene al suo essere rimango profondamente deluso da me stesso. Anche se quella foto è esteticamente valida o tecnicamente corretta. La tecnica fotografica prima o poi si impara, l’empatia e la sensibilità verso gli altri sono invece più difficili da apprendere. Sono sfumature non sempre facili da cogliere. Se poi ci sia uno stato d’animo che io riesca a catturare al meglio, guardandomi indietro mi accorgo che preferisco raccontare la gioia piuttosto che il dolore. Anche se non sempre è facile cercare la felicità nell’esistenza umana, mi piace provare a cogliere il lato “positivo” della vita.

 

Pietro De Bonis: Negli ultimi tempi, ti sei avvicinato alla fotografia di reportage, cosa desideri raccontare al pubblico?

Francesco Fratto: Un paio di anni fa ho visto un filmato in cui James Nachtwey, uno dei più grandi fotoreporter di guerra della nostra epoca, raccontava attraverso le sue immagini l’importanza della fotografia nel rendersi testimone delle esperienze umane, nell’informare l’opinione pubblica su cosa accade nel mondo. In quell’occasione ho capito quanto sia potente la capacità delle immagini nello smuovere le persone verso sentimenti di generosità, giustizia e solidarietà. In questo senso, mi affascina la valenza sociale della fotografia, la possibilità di “fare del bene” attraverso un racconto fatto di immagini.

Pietro De Bonis: C’è uno scatto che rappresenta al meglio la tua arte, il tuo mondo, la tua voglia di far sentire che te e la tua macchinetta ci siete?

Francesco Fratto: Sicuramente l’immagine degli alunni della scuola primaria di Mugunda in posa davanti allo loro classe è una fotografia che sono contento di aver fatto. E’ un po’ la foto “simbolo” del mio progetto sullo stato del percorso educativo nella scuola primaria in Kenya. E’ stata notata e premiata anche a livello internazionale, esposta a Parigi e a New York, ha avuto una buona visibilità. Questo mi fa sperare che qualcuno avvicinandosi a quella immagine abbia voluto saperne di più di quei bambini, si sia incuriosito e magari sia stato spinto ad approfondire il problema. Se un’immagine è “buona” ha più possibilità di essere vista. Più un’immagine è vista più possibilità ha di raccontare la sua storia a molti. In questo caso, è un “racconto” a cui tengo molto.

Pietro De Bonis: Vuoi parlarci dell’incontro con il musicista e compositore jazz Armando Battiston? Ma un’immagine, di per sé, Francesco, non è silenziosa? Può la musica vestire il suo istante, secondo te?

Francesco Fratto: La possibilità di ritrarre Armando Battiston mi ha avvicinato alla fotografia musicale, dando modo di unire le mie due più grandi passioni: fotografia e musica. Non avevo mai considerato prima questa possibilità. Quegli scatti furono apprezzati. Riuscii a farmi conoscere anche da altri musicisti. Poi cominciarono ad arrivare le prime richieste di lavori su commissione. Non molte (in Italia la fotografia “musicale” è un settore meno sviluppato rispetto ad altri paesi europei o mondiali), ma sufficienti a farmi prendere la decisione di cominciare questa attività. Poter fotografare accompagnato dalla musica di eccellenti interpreti è fonte di ispirazione e un gran privilegio per me. Gino Castaldo scrive che la “musica ha sempre preteso un’immagine, come indispensabile complemento della sua fuggevole, immateriale natura fisica”. Nel mio piccolo, mi piace pensare di poter dare il mio personale contributo a questo connubio.

Pietro De Bonis: Ti piace essere chiamato fotografo professionista?

Francesco Fratto: Le strade della vita a volte sono un po’ contorte. Dopo la laurea in farmacia non avrei più immaginato che la fotografia potesse diventare un’attività lavorativa, seppur secondaria. Al momento non è la mia occupazione primaria, ma anno dopo anno diventa sempre più una parte consistente della mia vita. Anche per questo ho voluto regolarizzare la mia situazione iscrivendomi alla Associazione Fotografi Professionisti Italiani (Tau Visual). Un po’ per coronare un sogno che avevo fin da bambino, ma soprattutto per rispettare e “giocare” con le stesse regole di chi vive di questo lavoro.
Non è certo una tessera che può farti diventare un bravo fotografo, ma la serietà, l’etica e la correttezza professionale sono valori che ho sempre perseguito in ogni ambito della mia vita e che ho voluto considerare anche in questo frangente.

Pietro De Bonis: Grazie Francesco di questa intervista. Vuoi darci appuntamenti di mostre od occasioni dove incontrarti?

Francesco Fratto: Il 2015 spero diventi per me un anno importante. Negli ultimi mesi, sta iniziando una collaborazione con un’importante agenzia specializzata nella fotografia di eventi e spettacoli, la Phocus Agency e vorrei poter sviluppare al meglio questa possibilità dedicandomi maggiormente alla fotografia di concerti “live”. E poi c’è l’intenzione di continuare il progetto sulle scuole della comunità di Mugunda in Kenya, con la speranza di riuscire a far conoscere maggiormente quella realtà e possibilmente a raccogliere fondi per dare un futuro migliore a quei bambini. Per chi fosse interessato ai miei progetti, posso lasciare il link al mio sito www.francescofratto.com sul quale trovare aggiornamenti e immagini relative alle mie attività. Infine ringrazio te, Pietro, per avermi dato la possibilità di raccontare un po’ del mio mondo. A presto!


 

lunedì 2 marzo 2015

Noi e la Giulia - dedicato a chi torna

 
 
Sono tempi difficili, i nostri. L'amarezza ormai sembra essere l'unica fidata compagna della disperazione. E i disperati siamo noi, sì. Quelli nati nel momento sbagliato, nel posto sbagliato. Di noi si parla quando ci si ricorda di un paese allo sbando - il nostro - arrivato a un punto di non ritorno. E a un passo dal capolinea, organizzati in fila indiana sulla linea gialla e con l'indifferenza negli occhi, noi, la generazione del piano B.
 
Edoardo Leo segna la sua terza regia partendo proprio da qui. Un dato di fatto, una consapevolezza che ti porti dentro e che, seppur tu non la voglia affatto, ti prende alla sprovvista come un crampo, una gomitata improvvisa allo stomaco.
Ed è come raccontare una storia che si ripete, identica.
In Italia ci sono i giovani laureati che emigrano con i sogni coltivati nella propria terra, e poi ci sono i quarantenni falliti, quelli per cui partire è impossibile e allora ripiegano tutto su quella che sembra essere l'unica carta ancora giocabile: un'attività.
Ma da soli è difficile partire da zero, per cui trovare un socio - ma anche due o tre o...- è il primo passo verso la meta.
 
Questa è la storia di Diego/Luca Argentero, Fausto Maria/Edoardo Leo e Claudio/Stefano Fresi. Storia di chi non ci ha mai provato ed è costretto a costernarsi sul luogo di lavoro, un lavoro di merda, sì, di quelli che mai avresti scelto se solo avessi potuto farlo.
Scegliere.
Storia di chi si sente grande, con tanto di fama e gloria stampate in faccia, e poi in realtà si scopre piccolo, solo. Senza né una né l'altra.
Ma quale fama. Ma quale gloria?
Storia di chi manda in rovina il nome di un'attività familiare secolare e rinomata, con matrimonio annesso.  
E poi c'è chi lotta a oltranza (Claudio Amendola ritrova grazie a Leo, una ragione di essere), guidato dalla fede politica e dagli ideali rivoluzionari. C'è una pancia bella in vista e il coraggio di guardare le cose e vederle ancora belle, anche meglio di ciò che sono (e aggiungerei un grossissimo "brava" per la Foglietta, dolce e danneggiata, perfetta!). C'è il camorrista che "non per niente i miei nonni", e a seguire una vecchia Giulia con un impianto stereo pazzesco e una batteria indistruttibile.
 
 
Partendo dalle pagine di Fabio Bartolomei - Giulia 1300 e altri miracoli - Leo si destreggia nel cosiddetto salto di qualità. Una regia e una sceneggiatura (scritta insieme a Marco Bonini) visibilmente più mature rispetto al già piacevole Buongiorno papà, con il valore aggiunto di uno sguardo più critico e disilluso.
Ma la fortuna poi vuole che un regista possa essere disilluso/incazzato e persino autoironico. E di Edoardo Leo mi viene in mente soprattutto questa grande qualità, umana ancor prima che autoriale. L'ironia.
Perché se c'è una cosa che ci salva ancora da questa triste storia, da questo strano limbo allucinato in cui è impossibile seminare e poi raccogliere, questa è l'ironia. La voglia di guardarsi allo specchio e provare pena, e poi subito dopo sorridere di quel viso disgraziato.
Al di là delle idee politiche che poi tendenzialmente ci dividono, io credo nel valore più profondo e intimo dell'arte, da ricercare ovunque. Il cinema, questo cinema, riesce ancora a dare tanto ed è una delle più piacevoli conferme.
Leo ci riesce, con umiltà e classe, battute semplici ma efficaci. Dando ai personaggi quei tic e quelle paure che in fondo riguardano un po' tutti, noi e voi; ma soprattutto chi ha lottato e ancora lo sta facendo, a costo di perdere tutto persino la vita.
 
Ho lasciato la sala con un'immagine girata esclusivamente nella mia testa. Evocata dal finale del film, credo. Non so quanto senso abbia scriverlo, ma è come se dovessi farlo. 
Una voce calda e il volto di una donna, una madre probabilmente, intenta a scrutare i passi del proprio figlio ormai di spalle e diretto lontano. 
E poi due occhi che attendono silenziosamente una conferma, un cenno.
Gli occhi di chi pensa e non lo dice: "va, e torna".

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