venerdì 26 giugno 2015

Ma mi faccia il piacere!

 
 
Per dirla come quel Totò a colori alla faccia dell'onorevole Trombetta, "ma chi?", e per evitare di sbattere la testa contro un muro...sì insomma, tentiamo!
Oggi parliamo di una copertina.
Una copertina che riprende e ammazza, nel senso più letterale del termine, un'opera emblematica per il Decadentismo italiano, con la quale torniamo alla letteratura di fine Ottocento e, nella fattispecie, al romanzo raccolto poi nella silloge narrativa I romanzi della rosa.
 
Parliamo di quel Piacere dannunziano, sì. Perché questa mattina la prima immagine condivisa sui social è stata la copertina di questo libro, edito da Mondadori e in vendita dal 23 giugno 2015 (nelle migliori librerie eh?!). Il Piacere di Gabriele D'Annunzio ripubblicato e privato della sua stessa natura da una casa editrice per niente insignificante (o fin troppo!).
Ma perché?
 
Non che sia sbagliato riproporre, nella collana narrativa moderna e contemporanea, un'opera del genere. Assolutamente. Ma prima o poi qualcuno dovrà pur spiegarmi il senso e la logica secondo cui è possibile realizzare una copertina come questa.
Io vorrei che mio figlio leggesse anche D'Annunzio, ma non vorrei che confondesse la letteratura con la merda di oggi.
Perdonate il francesismo.
 
Andrea Sperelli, protagonista del romanzo dannunziano, era un esteta. Come il Dorian Gray di Oscar Wilde, per dire. Un uomo tormentato dall'amore, dalle passioni, incazzato con il mondo borghese e "impregnato d'arte". Per quell'uomo la massima ambizione era fare della vita un'opera d'arte, e noi, oggi, figli inconsapevoli di quella tradizione letteraria, finiamo nella gola profonda e tanto in voga del sesso sadomaso e del motto generazionale "cazzofiga mi piace il bordello zì".
Laddove prima c'era l'intelletto, oggi regna l'ignoranza e la violenza sempre più responsabile della morte cerebrale di questo paese.
 
Non era il mio poeta preferito, D'Annunzio, ma fargli così male non mi sembra comunque accettabile. Hanno distrutto il senso più profondo di quella ricerca dell'intelletto, vabbè ma di cosa parliamo?
La superiorità e il bello, inteso come fine ultimo di ogni rispettabile uomo o donna di allora, oggi è ridotto a qualche sfumatura di grigio.
E questo è il risultato.
E io pago!
NOI - tutti - paghiamo.
 
 

giovedì 25 giugno 2015

Il bambino con il pigiama a righe

 
 
Lo scorso anno ho avuto la fortuna di riscoprire un piccolo capolavoro letterario come L'amico ritrovato di Fred Uhlman. In sole 92 pagine l'autore è riuscito a rievocare lo stato d'animo di uno dei periodi più neri della storia dell'umanità. Così come accadeva, con gli occhi persi e commossi, dinanzi all'opera di Uhlman, anche qui, ci si ritrova intrappolati dalla storia, dalla brutalità inconcepibile. Lo schermo riporta alla memoria l'orrore, come la carta e la storia fatta di ricordi narrati da un bambino.
 
Lo sguardo dell'innocenza trafitto dall'orrore. L'amicizia che parte per sua stessa natura, sbagliata e condannata a morire. In tutti i sensi.
 
Il regista inglese Mark Herman non sfrutta affatto i cliché, né tantomeno si abbandona a quella fastidiosa mania di fare il sentimentale o di cambiare rotta fino ad arrivare al mondo delle fiabe. Perché qui non è ammesso sognare, solo ricordare la storia e mantenere vivo lo schifo di cui solamente l'uomo è capace. Nonostante il cinema ci abbia più volte raccontato l'orrore dei campi di concentramento, dell'odio e di una Germania vittima e artefice di una violenza inaudita, guardare Il bambino con il pigiama a righe non vuol dire affatto rivedere il già visto.
Almeno, rivederlo sì, ma con addosso la piena consapevolezza che, le azioni degli uomini adulti, sono inevitabilmente le prime responsabili del futuro. E per futuro intendo quei bambini costretti a subire gli eventi guidati dai grandi. Penso a tutte le volte in cui ho guardato mio padre e silenziosamente mi sono chiesta "chissà se papà è una brava persona, chissà se sta facendo bene".
 
E quelle piccole domande ingenue e bambine, tornano alla memoria attraverso gli occhi di Bruno, il bambino protagonista del film di Herman. Il figlio dell'ufficiale nazista.
La storia della Germania degli anni '40 è ferma al confine, segnato da quel filo spinato che separa la vita dalla morte.
Ad un tratto le domande di Bruno cambiano, giocare in giardino non basta più. La voglia di conoscere la storia accresce fino a distruggere quella curiosità che è tipica dei bambini. L'umanità che resta tra le mani piccole, desiderose di sfamare e condividere una vita normale e degna, vengono travolte dalle scelte sbagliate dell'uomo accecato dalla rabbia e dall'odio.
Perché l'umanità davanti all'orrore è destinata a morire, e le conseguenze da pagare poi, potrebbero essere (sono) devastanti.
 
Non c'è una nota né un colore che resta, di questa terribile storia. Solo una macchina da presa statica. Inchiodata davanti all'orrore di una porta chiusa che sa di morte e dolore.
 
 

martedì 23 giugno 2015

Mia, una storia d'amore

 
 
Di cinema e di libri, di musica e teatro.
Ma soprattutto della mia vita.
Vorrei davvero riempire queste pagine secondo questi impulsi, che poi alla fine sono i più veri e i più "stimolanti" se consideriamo quanto la vita poi, rappresenti la migliore fonte d'ispirazione di ogni qualsivoglia scrittore, o aspirante tale.
 
Nella me più critica ci metto davvero tutto. A volte trovo l'ispirazione seguendo l'odore del caffè appena pronto, l'odore della casa pulita e l'aria che entra dalla finestra grande. Il dolce in forno, la cipolla che rosola in padella e dona alla casa quel senso di vissuto, vero.
Magari è pura follia, ma io ripongo in queste piccole gioie i segreti del migliore esercizio per quanto riguarda l'arte dello scrivere.
 
Così oggi, dopo un periodo di assenza, torno a parlare di me con la storia di Mia.
Mia è una meticcia di un mese e mezzo.
Una lupacchiotta in miniatura.
Come sono arrivata a lei?
Come lei è arrivata a me?
 
La rete, come sappiamo, crea legami senza badare a distanze. Vidi Mia la prima volta su un annuncio riguardante le infinite adozioni disperate, che di questo periodo "BASTARDO" si sa, sono troppe. Era un po' che mi balenava l'idea di allargare la famiglia, un altro figlio - ho pensato - no, troppo complicato. Però una femmina mi piacerebbe davvero tanto...ma è sicuro come la morte, "mi viene un altro maschio!!!". Ok. Meglio non rischiare. Quattro contro una, 'gna posso fa!
E se prendessimo una cucciola?
Lo sgomento sul viso di mio marito (un po' lo capivo, abbiamo già Milo/Jack Russel di nove anni maschio - Persia/micia nera e bellissima di undici anni e Nina/porcellina d'India patatosissima e due figli...) è durato un paio di settimane, dopo svariate discussioni io mi sono rassegnata. E ho provato con tutte le forze a mettere da parte quegli occhietti e quel muso, adorabili, unici.
 
Sì ok. Sarebbe una follia. Ok ok. Lasciamo perdere...dai.
 
Dopo due settimane seppi che una famiglia si era interessata a Mia, e dopo pochi giorni, seppi del ripensamento.
Mia era di nuovo in cerca di una famiglia, e il rischio di finire in canile aumentava sempre di più.
Insomma, inutile dirvi che io non avrei sopportato l'idea e la vita di quel cane, ormai, dipendeva da me. Lo so che per molti queste, sono le classiche "fisse" o pippe mentali che colorano soprattutto l'universo femminile. Ma io ci credo al destino. Ci credo a quella cosa che lega due vite, anche solo attraverso uno sguardo.
 
Mia ormai era entrata nella mia vita, ed eccola qui. Accanto a me che scrivo al pc e racconto di lei a tutti quanti voi, abituati alle mie critiche strampalate.
La storia di oggi parla d'amore. Dell'amore incredibile che lega l'uomo al cane.
E di questo periodo, ricordarlo, non può che fare bene - almeno spero.

 
Il dissenso di mio marito è diventato l'atto d'amore più estremo. Mia era in Puglia, a Taranto. Mi ha detto "partiamo, andiamo a prenderla!".
L'amore vero accorcia le distanze.
L'amore vero non conosce razze.
L'amore vero parte da qui, da una storia semplice semplice, eppure incredibile.

 

lunedì 15 giugno 2015

Welcome to Wayward Pines

 
 
Avrei voluto scriverne già dopo il primo episodio, ma sarebbe stato un giudizio affrettato.
Tuttavia, dopo i primi cinque episodi, la verità mi porta a non scalfire quel primissimo giudizio, costruito su un'imminente perplessità derivata da un inizio certamente intrigante e ricco di mistero, che diventa poi, ahimè, prevedibile e povero di carattere.
 
Wayward Pines è la miniserie televisiva del momento, se così sì può dire. Ispirata alla trilogia di romanzi scritta da Blake Courch, e ispirata a sua volta alla serie degli anni '90 I segreti di Twin Peaks e allo stile di David Lynch.
Ok...ma davvero riusciamo a dire che la serie, ideata da Chad Hodge e prodotta da M. Night Shyamalan, sia all'altezza delle trame e delle realizzazioni sceniche partorite dalla mente di Lynch?
Ora, con tutto il bene che voglio a Matt Dillon e allo stesso Shyamalan, il quale ha diretto il primo episodio, ma state dicendo davvero?
 
Ho letto di mistero e suspense. Di attori al meglio e di ambientazione sensazionale.
Eh???
 
Quando è finito il primo episodio ho detto a mio marito:"ma è uno scherzo?".
Lui già dormiva, abbracciato in stato comatoso al cuscino del divano.
La cittadina fitta di mistero oggi non fa più tanto scalpore, no?
Le telecamere ovunque e la gente del posto stranissima, costretta a rispettare regole assurde, governata da uno sceriffo "fatto" di cornetti algida e piuttosto ridicolo. Cos'è un nuovo Truman Show dai toni macabri e fantasy?
Funzionava di più Alexandria in The Walking Dead, come l'idea di una comunità sull'orlo del baratro e paradossalmente inverosimile, seppure in apparenza vuole essere l'unico posto al mondo in grado di offrire salvezza.
 
Un contesto diverso, ok. Ma in Wayward Pines manca la forza decisiva a partire da un plot fiacco e già visto. Lo spettatore non ha nemmeno il tempo di chiedersi "chissà cosa c'è dietro questa città?". Sì è vero, non ti aspetti quei cosi chiamati "abi", e va bene. Ma dopo?
Cos'ha da offrire questa serie tv?
 
Io salvo solamente i titoli di testa, e la figura di David Pilcher, che ha le fattezze di Toby Jones, il dottor Zola tanto caro alla Marvel. Dopodiché...che?
Appunto, dicevo...
Come spesso accade con le serie tv, finisce che tu ti senta in dovere di continuare fino all'ultimo episodio. E così sarà anche per Wayward Pines.
Certo non smetterò di chiedermi quale senso abbia Theresa Burke e quanto ancora Matt Dillon debba muoversi come lo sceriffo un po' coatto un po' rincoglionito (non dimentichiamoci che ha fatto schiattare Beverly/Juliette Lewis - l'unico personaggio che mi piaceva!).
 
Concludo dicendo che, ognuno è libero di amare Wayward Pines, sì, purché non si confonda una serie tv di puro intrattenimento, con lo stile narrativo e visivo di cui solo Lynch, è capace. Poi magari leggo i romanzi e m'innamoro, e trovo un riscontro. Qui ovviamente si parla della serie tv, e non mi pare giusto accontentarsi delle citazioni e dei rimandi, che sia Lost o ciò che volete.
 
P.S. me ne frego delle citazioni...

 

sabato 13 giugno 2015

The English Teacher

 


Immaginate un'insegnante di letteratura inglese, una donna affascinante, rossa fiammante e...soprattutto zitella!
Ma per un pezzo di donna come Julianne Moore è davvero difficile sembrare goffa e impacciata, la zitella per antonomasia, quella che nel corso dei suoi quarantacinque anni non ha fatto che sviluppare anticorpi contro gli uomini. Be' capita. Chiamiamolo istinto di sopravvivenza...
Eppure la Moore nei panni della professoressa Linda Sinclair è tutto fuorché improbabile. Questo ovviamente perché parliamo di un'attrice straordinaria.
 
La commedia attinge al drama per poi staccarsi e diventare commedia. Di base è quasi un dramma studentesco, perché la storia ruota attorno alla difficoltà di venir fuori per ciò che si è e si ama davvero. Non c'entra il sesso, ma le passioni. Le scelte legate al nostro futuro, del tipo "prendo giurisprudenza per far felice mio padre, ma io volevo fare il drammaturgo".
 
Se nel complesso il film risulta essere divertente e leggero, nel senso che non impegna poi più di tanto, bisogna comunque sottolineare la prova della Moore, non solo per le già citate doti attoriali. Mi piacerebbe parlare di Linda Sinclair come di un'insegnante fondamentalmente sola, sensibile ma come nessuna innamorata della letteratura e della sua professione. Ma Linda è umana, dunque è per sua stessa natura portata al cosiddetto "fare cazzate".
L'ex studente che torna un po' demoralizzato dall'avventura fuori città, trova in Linda un'altra possibilità. Finalmente il suo presunto capolavoro "La crisalide" verrà messo in scena, dai ragazzi del liceo di Kingston.
 
 
Tra ripicche e scenate di gelosia, The English Teacher si lascia guardare senza troppe pretese. La storia non è certo ricca di colpi di scena, anzi. Seppur prevedibile, e per certi versi "già vista", la commedia di Craig Zisk, il quale esordisce nel lungometraggio dopo aver diretto numerosi episodi delle più note serie tv - il primo episodio di Smalville, Streghe, Scrubs, il primo episodio di Providence e tanti altri - affronta con ironia e passione i tormenti dei giovani e degli adulti, con il grande merito di ricordare a chi guarda che, sbagliare è umano.
E qui entra in scena l'insegnante, il maestro. Quello che ti dice: "ho sbagliato, ma non permettere ai miei errori di distruggere le tue passioni".

venerdì 12 giugno 2015

La sedia della felicità

 
 
La sedia della felicità segna il testamento artistico del regista padovano, scomparso nel 2014.
Carlo Mazzacurati lo ricordo soprattutto per la storia di Vesna e Antonio, nel film del 1996 Vesna va veloce e L'amore ritrovato del 2004. La mia idea del cinema italiano si è via via arricchita negli ultimi anni, proprio seguendo quei recuperi necessari, affinché di quel nostro vecchio e compianto cinema, non vada a svanire del tutto il ricordo.
 
La storia di Dino e Bruno si muove in terre venete, attualizzata dai problemi sociali e d'integrazione, non per forza legata agli immigrati, anzi. I protagonisti infatti fanno fatica a stare al passo coi tempi, tatuatore lui estetista lei, alle prese con un fornitore più strozzino che amico. Il tradimento e il divorzio che sono tipicamente italiani, fanno da antefatto alla più surreale e grottesca caccia al tesoro che parte in una villa abbandonata con tanto di cinghiale e arriva fin sopra le alte montagne del Trentino. Tra le imbottiture di una sedia a forma di elefante è nascosto un tesoro, ma durante la sfiancante impresa Dino e Bruna troveranno ben più di un premio in gioielli.
 
 
Valutare con occhio critico e distaccato un film come La sedia della felicità, è assai complicato. Tuttavia, credo sia opinione di tutti quella che vede l'ultima fatica di Mazzacurati, come una commedia leggera e piacevole, dal ritmo serrato e scandito dalla corsa verso la felicità. Che non sia la ricchezza nel senso più stretto, piuttosto il coraggio di mettersi in gioco e affrontare pure la corsa più folle. La delicatezza nelle mani che tengono un termometro e si cimentano nel gioco più semplice eppure straordinario. Aspettando che la febbre scenda, guardando un bambino che non ti somiglia, ma ti è comunque a cuore. E poi la brama di denaro e ricchezza che oggi soprattutto travolge gli uomini, tutti, nessuno escluso. Il prete che corre e si tiene la veste che ha promesso a Dio, pur di agguantare il bottino, e i debiti che non riesci a saldare che ti rincorrono e ti portano via tutto.
 
Alla fine la fiaba si dissolve in un vissero felici e contenti, e il cinema italiano può dire di conservare una buona stella in più, nel cielo della commedia giocosa e delicata.

giovedì 11 giugno 2015

Mad Max: Fury Road - Un Western fuori di testa

 
 
 
Questo Mad Max risulta essere così ben definito, tanto da spingere verso l'oblio della memoria cinematografica quegli spettatori che, come me, non hanno la più pallida idea di cosa sia stata la saga action di ben trent'anni fa.
Mad Max: Fury Road dunque non è da prendere come film a sé - anche se io ho fatto esattamente così. George Miller avvia la trilogia nel 1979 con Interceptor, proseguendo poi nel 1985 con Mad Max - Oltre la sfera del tuono.

Una volta assorbite e metabolizzate queste informazioni di base, arrivano i tormenti più complessi.
Tipo: "machedavero questo Miller di Mad Max è lo stesso che ha scritto Babe maialino coraggioso e diretto Babe va in città? E ha preso l'Oscar per Happy Feet e ha diretto pure L'olio di Lorenzo, quel film che faceva tanto piangere mamma davanti alla tv?".
Ebbene, sì.

Sembrerebbe assurdo e inspiegabile, proprio come l'ultimo Max di Miller. Eppure affascinante, ipnotico, violento e senza ragione alcuna che sappia soddisfare la nostra vasta gamma di interrogativi, sempre più insoddisfatti e assetati di risposte. Considerata la premessa, non posso avere un'idea globale del cinema di Miller, soprattutto della poetica e dello stile che è proprio della trilogia. Certo è che una vaga idea - seppur mia, seppur lontana alla più convenzionale - aleggi dal giorno della visione nella mia testolina confusa...
In questo contesto post-apocalittico, non del tutto chiaro, la terra è governata da un tale che si fa chiamare Immortan Joe. Una sorta di scimmione bianco, piuttosto inquietante, sì.
Il mondo è ridotto a una cittadella, abitata da predoni in alto e poveri disgraziati morti di fame e di sete, in basso.
Lentamente emerge la verità racchiusa in questo pezzo di mondo, dove nulla ha senso e tutto ruota attorno alla violenza e alla mancanza totale e a tratti ridicola di ragione o verosimiglianza. Io ho iniziato a capire qualcosa non appena gli occhi dell'Imperatrice Furiosa hanno trafitto lo schermo. Lì ho capito che a muovere quella storia, sarebbe stato ben più di una missione nel deserto. Ben più di una corsa in sella a una cisterna, ben oltre l'acqua o la mera sopravvivenza.
 
 
Le concubine di Immortan Joe vengono presentate come le beniamine di un autolavaggio per cuori infranti. Si pensa a un ricercatissimo tentativo di stravolgere l'etica e il pensiero più misogino. Le immagini si susseguono dall'inizio alla fine, sul filo sempre concitato di un montaggio tanto dinamico da non includere alcuna possibilità di immortalare l'attimo. L'estetica della messa in scena è isterica quanto ammaliante. Mentre mi agito sulla poltrona, rapita dal buio della sala e dalle luci frenetiche dello schermo, capisco di avere a che fare con un linguaggio cinematografico del tutto nuovo.

Per la prima volta capisco che il cinema può davvero ogni cosa. Nel senso che, solo il cinema può raccontarmi dell'uomo e delle sue manie autolesionistiche, attraverso una corsa folle nel deserto, una musica che taglia in due l'aria e pulsa nello stomaco. Attraverso lo schifo che è tipico dell'uomo, egoista, corrotto, sporco fino dentro le ossa. Però è come se fosse necessario attraversare il mare più rozzo e melmoso, per sfociare poi nella bellezza e nella possibilità vera che abbiamo, tutti, di salvarci.
 

 
Per cercare la parte migliore di noi stessi...
Durante questo interminabile viaggio, credo che l'uomo sia destinato a convivere con l'incanto e l'orrore. Sempre al suo fianco, entrambi. Pronti a scontrarsi, a separarsi o a ricongiungersi fino alla fine più catastrofica e imprevedibile, ma obbligatoria.
Non saprei definire il mio primo e unico Mad Max, certo è che questo Miller sia davvero un tipo in gamba. Mi parla di un uomo tormentato dalle voci del passato, più forte della sabbia del deserto eppure con evidenti difficoltà nelle relazioni umane. Un eroe balbuziente quasi. Timido, spaventato e feroce, come un cucciolo strappato alla madre.
Anche lui, come lo spettatore, vittima di una violenza che arriva a strafare, fino a farsi parodia di sé stessa. In questo deserto mi sembra di vivere in un western folle, mai visto prima.

Niente cowboy nemmeno l'eco di una cavalcata, nemmeno pistole e rumori da saloon. Solamente la follia, quella che non ti fa capire più nulla, ma ti seduce e ti ricorda che appartieni a questa razza che ti definisce "umano".
Che sia l'avventura di un maialino, di una donna in cerca di redenzione, che sia il mondo umano o animale, la vita vuole che per trovare il meglio devi aver assaporato il suo esatto e diabolico contrario.
Corriamo lungo le dune di questo deserto, ma solo alla fine capiamo chi è più folle.



mercoledì 10 giugno 2015

Massimo Testa - Il pessimismo di un poeta non pentito


 
Torna la collaborazione tra CriticissimaMente e Pietro De Bonis. Amico e scrittore, il quale ci propone una nuova, scoppiettante intervista.

Massimo Testa nasce a Roma il 23/03/1956, laureato in giurisprudenza, negli anni ’80 esordisce come poeta. Per diversi anni scrive per il giornale D’Italia e il Paese Sera come critico – recensendo di cinema e teatro. Pubblica due romanzi, uno dei quali narrativa per ragazzi. Nel primo decennio degli anni ’90, parallelamente alle attività letterarie, si cimenta come attore di prosa debuttando allo storico teatro Rossini di Roma con la compagnia stabile di Checco Durante. Ha lavorato con Nino Manfredi, ma la prematura scomparsa dell’attore inibirà la realizzazione di un progetto. Da gennaio 2014 porta in scena una sua commedia in cui ha partecipa l’attrice David di Donatello, Athina Cenci, in  segno di una grande amicizia che li lega. Per diversi anni le sue commedie sono state rappresentate al teatro Petrolini di Roma. Ultimamente, a malincuore, progetta di continuo una nuova “fuga” da un teatro che non convince; scevro di provocazione e che non ha più idee.

venerdì 5 giugno 2015

Cookie

 
 
 
Pensavo fosse buono, croccante.
E invece era un cookie.

Che poi mi domando io, sarà davvero necessario?
La mia storia è probabilmente simile a quella dei vostri blog. Sembra che dire "diario personale" sia sinonimo di roba scadente, di pessimo gusto, banale, pari all'anonimato o al nulla, o poco più.
Be' io non la vedo proprio così.
Sarà che qui ho investito molto, me stessa e le mie ambizioni più vere. Scrivere e migliorarmi, per accompagnare magari le fasi delicate e difficili che portano alla realizzazione di qualcosa di più, di un semplice sogno.

CriticissimaMente è un blog. Non è un sito che rappresenta un'azienda. Non è il biglietto da visita da lasciare ai clienti e non prevede introiti. Su queste pagine il lettore non troverà mai schermate gigantesche animate da annunci o simili. Non mi pagano per scrivere, al massimo mi capita di scrivere "su commissione", ma anche in quel caso specifico, ci metto il mio nome, il mio tempo, i miei interessi più veri. Se domani un tizio mi chiede di recensire un determinato film o un determinato libro, io rispondo "sì", e aggiungo "con piacere".
Perché è questo che faccio, è questo che ho intenzione di portare avanti.
E se mi paghi, be', è pure meglio.

Detto questo, veniamo alla questione più spicciola. Ovvero, cosa diavolo sono i cookie e cosa devo fare io, blogger, per adeguarmi alla cosiddetta "legge dei cookie"?
Per ovviare a questi dubbi intanto io consiglio di fare un salto qui, anche perché faccio veramente fatica a comprendere - io per prima - il significato ultimo di questi teneri - 'cciloro - biscottini.
Dunque, io mi limito a condividere la mia esperienza, con la speranza che questo post possa essere d'aiuto a chi, come me, ha avuto difficoltà nell'inserimento del fatidico banner.

"Se decidi di continuare a leggere vuol dire che stai impicciato/a fino al collo, quindi sì, a 'sto punto accetta e vai avanti".
 
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