giovedì 15 dicembre 2016

Lovecycle, il riciclo in stop motion



Lovecycle è un cortometraggio che racconta il riciclo dei rifiuti di imballaggio in un modo del tutto nuovo. E lo fa ispirandosi ai grandi classici dell'animazione come Toy Story, Nightmare before Christmas e Coraline e la porta magica.

Promosso da CONAI (consorzio nazionale imballaggi) e realizzato dallo studio Dadomani con la tecnica dello stop motion, Lovecycle narra la storia di sei protagonisti molto originali.
Una pinzetta, una caffettiera, un libro, una cassettiera, un paio di occhiali e una bottiglia tornano a casa dei genitori-imballaggi per le vacanze di Natale.

Lovecycle non solo ribalta l'approccio più classico al discorso riciclo, ma compie un viaggio fantastico che si fa metafora della vita dei rifiuti, portando grandi e piccoli a riflettere sull'importanza del loro riciclo. La storia si svolge in una cittadina magica e incantata chiamata Conai Town ed è fatta di imballaggi e prodotti realizzati con materia riciclata.
L'idea di Lovecycle è di J. Walter Thompson, la regia di Francesco De Meo e art director è Dario Agnello.
CONAI è un consorzio privato costituito per garantire il rifiuto di imballaggi su territorio nazionale. Nel 2015, grazie anche a CONAI,  sono stati avviati a riciclo il 66,9% degli imballaggi immessi sul mercato.

Della serie: "A Natale si può fare di più!"




mercoledì 14 dicembre 2016

Dexter - Come una scatola di ciambelle vuota



E adesso sarai impacchettato con cura, nei sacchi della spazzatura, e il mio piccolo personale angolo di mondo, sarà un posto più pulito e felice... Un posto migliore...

Non male come biglietto da visita. Certo in un mondo reale farebbe un attimo rabbrividire, anche se... A pensarci bene... Be', ci siamo capiti. No?
"Dexter dove sei?". "Eeeeh, se ci fosse stato Dexter..." - Quante volte lo abbiamo detto e pensato?
Io ho perso il conto.

Perché alla fine si sa, davanti allo schermo o davanti a un bel libro, il cattivo diventa buono. Il sociopatico che fa a pezzetti la gente finisce col piacerci di brutto. La morte diventa normale, e la corrente dell'Oceano - nel nostro caso specifico - la signora giustizia per antonomasia.
Sacchetti di plastica neri e pellicola trasparente hanno riempito le mie giornate e, da che non guardavo nemmeno una serie tv - a meno che questa non fosse ambientata all'interno del Seattle Grace - mi ritrovo oggi a cercare disperatamente di colmare un vuoto. Sensazione frustrante che segue quell'ultimo straziante episodio. L'ultimo!
Dopo aver visto Lost, ho creduto davvero che non avrebbe avuto più senso nulla in fatto di serie tv. Sapevo che quella era la serie Regina, la mamma di tutte le serie tv, e che niente avrebbe saputo sostituire quell'esperienza tanto unica.
Finché non ho scoperto lui.
Dexter Morgan.



Attenzione pericolo SPOILER!

Otto stagioni sono tante, e questa consapevolezza un po' mi frenava. Iniziare a vedere Dexter è stato fin dal principio un grande atto di fede (i postumi di Lost!). E poi è bastato un episodio per andare il più lontano possibile rispetto a Dio, per oltrepassare il confine che ci vuole o buoni o cattivi. Uno psicopatico che uccide, sì, "ma lui è diverso. Non è come gli altri".
Ed è questo che continui a ripeterti, puntata dopo puntata, per assolvere lui, e pure un po' te stesso.
La giustizia è un concetto labile eppure tanto semplice.
Chi uccide va in galera. Chi uccide è un assassino. Le persone normali non uccidono. E agli assassini, ai cattivi di ogni genere, ci pensa la polizia e, per finire, il voto di una giuria.
L'aspetto più drammatico e brutale di questa serie tv è proprio questo. Come dinanzi a Dio, la giustizia rende impotente l'uomo e, talvolta, assolve e uccide con la stessa mano.

La grande forza di Dexter, intesa come serie, sta nel riconoscere se stessi e le proprie azioni. Seppur nel difetto, nel sangue e nel bisogno di uccidere, Dexter Morgan mette subito le cose in chiaro.

Mi chiamo Dexter, Dexter Morgan. Non so cosa mi ha fatto diventare ciò che sono ma, qualunque cosa sia stata, mi ha lasciato un vuoto dentro. Le persone fingono molto, io fingo quasi tutto e fingo molto bene. È questo che mi pesa tanto [...]

Il peso più grande che un essere umano sia costretto a portarsi addosso, è quello della maschera che indossa. Dexter è un ematologo della polizia di Miami, il topo da laboratorio che dal sangue ripercorre la storia delle vittime. Certo a lui riesce particolarmente bene, certo, il suo curriculum da serial killer ha gli attributi con tanto di fiocchi e stellette.
Questo personaggio insolito nasce dalla mente dello scrittore Jeff Lindsay, il cui romanzo La mano sinistra di Dio, sembra aver ispirato solamente la prima stagione della serie tv dedicata al suo protagonista, per l'appunto, Dexter Morgan.
Quello che più ci ha tenuti incollati allo schermo, provo ad azzardare, credo sia la presenza narrativa - che poi diventa tangibile - di un codice da seguire che porti all'atto più estremo, tuttavia evitabile, che è la morte.
La morte per mano altrui, un omicidio brutale e ordinato al tempo stesso. Curato nel minimo dettaglio, con tanto di pareti di plastica che gridano alla morale e cercano una confessione, l'ultima. Un attimo prima della fine.

Dexter Morgan assiste all'omicidio della madre quando aveva solo tre anni. Uccisa in modo disumano. Nato nel sangue, come afferma anche lui nel corso della serie, e destinato a viverci tutta la vita. A prendersi cura di lui sarà Harry, padre adottivo e poliziotto che insegnerà a Dexter un codice ben preciso, l'unica possibilità di convivere con quel passeggero oscuro che, altrimenti, lo avrebbe reso uno psicopatico senza alcuno spessore.
E invece Dexter lo spessore ce l'ha.
Uccide, è vero. E questo lo rende un assassino come tutti. Ma il suo codice riesce ad incanalare quel bisogno di uccidere, e fa sì che le vittime siano solo ed esclusivamente assassini che la giustizia non è riuscita a fermare.
Alti e bassi accompagnano tutte le stagioni di Dexter, ma credo sia abbastanza accettabile come compromesso. Significative le evoluzioni di alcuni personaggi, primo su tutti Dexter, il quale si dichiara all'inizio completamente estraneo al mondo normale, fatto di pianto e dolore, di gioia e piccoli o grandi sentimenti. Ma i bambini lo hanno cambiato, la vita insieme a Rita lo ha cambiato. Così come lo ha cambiato suo figlio Harrison, e l'amore per Hannah e - solo nel finale - quello per Deb.  
Alcune scelte narrative mi hanno lasciato addosso qualche perplessità (un finale da nì), cose che non avrei mai e poi mai voluto vedere, ad esempio.
Quella vasca piena di sangue e il corpo di Rita senza vita, e il pianto di un bambino che pare interminabile. L'abbraccio di Debra disperata a Maria LaGuerta. Quella barca che vira verso la tempesta e il mare che ingoia Debra.
Questi sono traumi, non sono scelte narrative.
Ca**o!


Quando finisci di vedere Dexter ti chiedi come farai a vivere senza più le cazzate da pervertito di Vince Masuka. Per dirne una.
Ti chiedi come sarà la vita dopo, quando sul divano provi a capire dove arriva la parte più umana e giusta di te. Ti chiedi cosa voglia dire convivere con un mostro che ti abita dentro. Ti chiedi cosa porti davvero la gente ad uccidere, quanto sia importante una vita e un evento in grado di segnarla per sempre.
Ti chiedi come sarà tutte le volte che guarderai una scatola di ciambelle vuota, e ti sentirai così, vuoto dentro.


Concludo dicendo che di questa serie ho amato molti personaggi. Non dimenticherò facilmente il volto di Trinity, i pancake a colazione e la bellezza di Rita. Ma soprattutto non dimenticherò lei. La sua camminata storta e quel modo di fare da camionista, con tutti i cazzo e vaffanculo che ne conseguono. La sua lealtà di essere umano.
La sua completezza...
Ciao Debra. E grazie.


lunedì 12 dicembre 2016

Gli ultimi saranno gli ultimi



Un modo di dire, una verità comune.
Il finale che non puoi proprio cambiare, perché è stato scritto apposta per te, pensato insieme alle tue fattezze di carne e di spirito.
Il giorno in cui veniamo al mondo non ci facciamo caso, neanche un po'. Eppure quel pianto porta con se una marea di sorrisi e lacrime, e qualche crepa sul muro.

E se c'è una cosa che al cinema italiano riesce davvero bene, è proprio questa. Raccontare le crepe.
Massimiliano Bruno è ormai una garanzia. Autore che inizia a muovere i primi passi con Fausto Brizzi alla regia, nel 2006, con quella notte prima degli esami che più di tanto non mi aveva convinto.
Nel 2011 però arriva l'esordio dietro la macchina da presa, e qualcosa cambia della mia idea di un autore italiano che sta tentando di farcela. E alla fine ci riesce!
Mi piacciono quegli autori che hanno da dire qualcosa, che tengono storie sotto il letto, e le tirano fuori al momento giusto.
Dalle vicende di Alice (Nessuno mi può giudicare) - e quel paese delle (non)meraviglie che è Roma Nord - ad oggi, si definisce un percorso tanto caro al cinema italiano.
Viva l'Italia prima e Confusi e felici poi, confermano una grande dote dell'autore romano. La leggerezza come facoltà di toccare le cose senza disintegrarle, l'esigenza di raccontare una storia che sia vera e fare della commedia a partire dalle disgrazie dell'uomo.
E noi italiani in questo siamo forti!

Gli ultimi saranno gli ultimi porta lo spettatore/italiano medio a guardare se stesso. Consapevolezza e autoironia sono gli anticorpi necessari a superare l'esperienza davanti allo schermo.
Perché diciamoci la verità, la storia di Luciana e Stefano è pure la nostra.
Noi gente di paese un po' provincialotta. Generazione di sfasciati a tempo sempre più determinato.
Ci rivediamo in ogni piccolezza, che non è soltanto cinema poi, ma è ciò che siamo realmente.
Stefano che non vuole stare sotto padrone, che la sola cosa a cui tiene è un accendino che porta lo stemma della sua squadra. Stefano che ancora non sa cosa voglia dire un figlio, ma che all'atto pratico poi capirà.


E Luciana che combatte come un leone, davanti a un frigo vuoto, anche se le parole giuste le vengono in mente sempre un attimo dopo.
Luciana che forse più di ogni altro personaggio incarna l'Italia, donna e madre disperata che non riesce a gestire tutta quella umiliazione.
L'ultimo film di Massimiliano Bruno nasce come pièce teatrale, e si vede.
I personaggi si muovono come pedine sul tavolo da gioco, corpi nudi privati di tutto. In fondo è questo che fanno gli attori, quelli autentici, che quando li guardi rivedi te stesso e poi ti racconti in terza persona. E noi, tra i tanti che ci provano sul serio, abbiamo Paola Cortellesi e Alessandro Gassmann.

E abbiamo un autore che parla di noi, che si ferma laddove le crepe sono destinate a restare. Che vede la nostra vita, una vita di merda che però ci piace, e la vuole raccontare.

sabato 1 ottobre 2016

Tre per me



Facciamo finta che tu sia il mio lettore ideale. O la mia lettrice più affezionata.
Facciamo finta che tu in questi mesi ti sia chiesto dove diavolo sia finita l'autrice di questo blog. Disperandoti, davanti al pc, senza risposte, senza più uno straccio di post, articolo, pagina. 
Facciamo finta, anzi no, facciamo poi che a un certo punto io torni, e riprenda la storia esattamente da qui. E facciamo pure che questo fantomatico qui non voglia dire proprio niente di preciso, ma che voglia dire e basta.
Si può fare?

Apro il mio blog dopo due mesi di assenza. Due mesi di pagine vuote, eppure tanto pieni che potrei stare qui a parlarvi per ore. Ho talmente tanto da raccontare, che poi suona banalissima come premessa, ma è tutto così dannatamente vero!
Da dove comincio?
Ah, sì...
Il 29 agosto è nata Martina, e mi ha reso mamma per la terza volta. Quando nel 2012 decisi di aprire un blog, giurai a me stessa che non lo avrei trasformato nel più sputtanato dei cari diari dell'era del 2.0. Una sfida, portata avanti a suon di recensioni, critica strampalata e poi poco più seria, riflessioni sul tempo che corre e tutto ciò che basta a far discutere, a smuovere qualcosa.
In me, in voi.
Ma alla fine la mia vita doveva finirci per forza su queste pagine, e la sfida, seppur persa, senza nemmeno provare a barare, mi ha reso quella che sono oggi.
Autrice e blogger, ma soprattutto mamma. Di me dico questo, già.
La mia nota biografica, la parte di me che preferisco.

CriticissimaMente ne è parte integrante, come tutti voi.
In questo momento mi sento come qualcuno che torna dopo tanto tempo e non sa che dire. Come l'estate appena iniziata e gli amici sul muretto che vedi solo quei tre mesi e poi dolcemente svaniscono. Provo quella sensazione che un po' gela il cuore, perché ho riaperto una stanza che è rimasta chiusa per molto tempo e ci si sente così.
Allora riparto da qui, dalla mia nuova vita.

Dalle mie nottate a testare ninne nanne in ogni lingua e dialetto.
Dalle tarantelle lungo il corridoio, dal braccio intorpidito.
Dal seno che fa male, dalla pancia ormai sgonfia e dai jeans che non entrano più.
Dalle coperte da rimboccare ogni sera.
Dalla casa incasinata e dal tempo che mi rincorre senza darmi tregua.
Dalle mattine in cui si corre per non fare tardi a scuola, ché la piccola vuole ancora latte, ché ha fatto cacca e devo cambiarla, ché il grande aveva un avviso importante e non l'ho firmato, ché l'altro poi aveva dimenticato lo zainetto in casa e sono dovuta tornare indietro.
Dall'orologio che segna le otto, e un attimo dopo già mezzogiorno.
Dalla stanchezza che a volte mi prende allo stomaco, e dalla gioia che cancella ogni malessere.
Dai primi sorrisi di mia figlia, quegli occhioni grandi e neri che mi hanno fatto rincoglionire bene bene.
Da me che sola ormai non sono niente e faccio tutto per tre.

Dalla, dalle, da me, da te, da noi... abbiamo capito ma si è fatta una certa.
Non credi?
"Mammaaaaaaaaa!"
- Be', in effetti...


giovedì 21 luglio 2016

Oriana Fallaci, Il sesso inutile


Com'è difficile fare i conti con Oriana Fallaci...
Difficile rapportarsi a lei, come donna e scrittrice, ex aspirante giornalista - nel mio caso specifico.
Perché di lei l'immagine resta, al di là del sentimento che poi ne scaturiva, ferma in quel volto di donna ostinato, pronto a tutto e sfrontato.
Questa difficoltà non fatica a palesarsi, ed è quel che accade persino nella prefazione di Giovanna Botteri, la quale introduce con sincerità e parole piene di ammirazione e sogno, questo incredibile viaggio attorno alla donna, Il sesso inutile.
 
1960 - Il direttore dell'Europeo chiede alla Fallaci un'inchiesta sulla condizione della donna, ma a lei, d'impatto, sembra una cosa ridicola.
 
"Per quanto mi è possibile, evito sempre di scrivere sulle donne o sui problemi che riguardano le donne. Non so perché, la cosa mi mette a disagio, mi appare ridicola. Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico".
 
 
Quelle stesse incertezze a proposito dell'inchiesta, diventano poi uno splendido reportage realizzato insieme al fotografo Duilio Pallottelli. Dal Pakistan all'India, passando per l'Indonesia e la giungla della Malesia. Fino ad Hong Kong e in Giappone, per concludersi come un avvincente romanzo d'avventura in stile francese, nella più moderna New York.
Lei con la sua Olivetti che bastava a riempire qualunque bagaglio, e lui, il fotografo romano, con la sua Laika e la sua euforia tutta italiana dinanzi all'idea di incontrare tutte quelle donne.
Da Karachi a Manhattan, le pagine scritte dalla Fallaci, fanno del giornalismo un'opera letteraria di rara bellezza. Tutti gli interrogativi e le curiosità circa la donna e la sua condizione, sociale e umana, vengono arricchiti ed appagati, e fanno del lettore un bambino che non la smette più di dire basta davanti a un pacchetto di caramelle gommose.
Quello che ci lascia la Fallaci infatti, deve essere letto a partire dall'inestimabile valore antropologico e culturale, non solo legato al "sesso inutile", che esso racchiude in sé.
 
Nonostante alla Fallaci venga accostata di frequente anche la più bizzarra delle accuse e delle etichette - che tanto vanno di moda oggigiorno e di cui tutti abusiamo, perché siamo social, siamo moderni al punto giusto - vi è una sottile umiltà nelle parole che introducono il libro, dote sempre più rara, guardatuilcasoavolte, nei testi contemporanei.
 
"Ciò che segue è il racconto di quello che accadde dal momento in cui scendemmo a Karachi al momento in cui lasciammo New York: di quello che vidi, di quello che udii, e di quello che credo di aver capito".
 
Con quella stessa umiltà, Oriana Fallaci realizza un reportage ricco di testimonianze e colori. Dove la determinazione non viene meno, dove non manca la malinconia e il terrore, talvolta. Perché le storie delle donne che incontra la Fallaci sono incredibilmente vere e, molte, incredibilmente drammatiche. Assurde.
Mi torna in mente il pianto della sposa bambina in Pakistan, le spose infelici, si usa dire da quelle parti. Come se fosse la più banale delle normalità.
"Perché non piangono, le spose, in Occidente?"
Piangono, eccome. Di gioia, di dolore, di sentimenti feriti e storie orribili. Ma non stanno al mondo come "pacchi".
 
"Cos'è?"
"Niente" rispose. "Una donna".
"Cosa Fa?"
"Niente" rispose. "Si sposa".
"Dove va?"
"A casa" rispose.
"Mi faccia venire, la prego".
"Perché? Il matrimonio mussulmano è una faccenda privata".
Gli dissi perché. Sorrise e promise di fare qualcosa ma ad un patto: che non dicessimo agli altri la verità su quella intrusione e che non chiedessi il nome dello sposo, né tantomeno lo pubblicassi.
"Nemmeno quello della sposa" promisi.
"Oh, quello non conta. La sposa non conta".
 
Dietro la storia di ognuna di queste donne, si celano anni di rivoluzioni e sangue, di lotte all'insegna di un riscatto, culturale, sociale. E che sia dietro un volto coperto da un Burqa, o di un corpo avvolto in un Sari, o nascosto dietro sette chimoni, che sia dietro il dolore di un paio di piedi piccolissimi e deformati da un'assurda imposizione, la verità più credibile risulta essere la cosa più sconcertante del mondo.
Che le donne sono uguali dappertutto, che in fondo vogliono tutte le stesse cose. Lo dice la donna più importante dell'India, lo dice la storia di questo paese, profondamente nuovo, dopo la rivoluzione di Gandhi.
Lo dicono le storie che seguono, delle Gheisce e delle matriarche, e lo dicono pure le storie delle donne più libere ed emancipate del mondo. Quelle inghiottite tutti i giorni dalla subway, spolpate dallo smog e dal caos di New York. Quelle che convivono tutti i santi giorni con la propria libertà, che ha il sapore e lo sguardo di un uomo debole, spaventato dal suo stesso ruolo nel mondo, tanto incerto, messo in pericolo da cotanta "parità di diritti".
 
Forse alle donne spetta lo stesso destino. Tutte girano attorno alla medesima luna, tutte si soffiano stupidamente il naso e piangono gli uomini per ciò che sono o non saranno mai. E perché nonostante tutto, farfalle di ferro o farfalle morte che non sanno di stare al mondo, noi donne, d'Oriente e d'Occidente, vestiamo con abiti diversi, la stessa identica infelicità.
 
Grazie, Oriana.

sabato 16 luglio 2016

Saxophone Street Blues, di Hector Luis Belial

 
 
A me quelli che si nascondono dietro a innumerevoli biografie fittizie, stanno un po' sulle balle. Ma queste premesse, come dire, contano poco in letteratura. Contano poco pure nella vita, a dire il vero. Ma ora parliamo di libri, di un mezzo noir inzuppato nel pulp.
 
Se così si può.
Saxophone Street Blues viene pubblicato da una allora giovanissima Las Vegas Edizioni, nel 2008, e scritto da un altrettanto giovanissimo autore, tal dei tali Hector Luis Belial. Almeno, così dice.
Lui. L'autore.
Di norma prima leggo e poi pretendo di sapere qualcosa sull'autore. Ho come l'esigenza di sapere con chi ho avuto a che fare, tutto qui. Altrimenti non mi do pace.
Sono fatta così.
Quindi con il signor chenonsisachicavolosia ho avuto subito un impatto violento. Ma le sorti della prima impressione girano come la premessa di cui sopra.
Alla fine parliamo di letteratura, di storie. E chissenefrega se questo non vuole dirmi chi diavolo sia.
Ti è piaciuto il libro?
Sì.
Scrive bene 'sto tizio?
Sì.
Fine dei giochi.
 
L'autore rompe il ghiaccio subito. Partendo dalla fine, in qualche modo. Sappiamo infatti che morirà una donna, di una morte orribile. E che ad essa ne seguiranno delle altre.
Tutte ovviamente legate dallo stesso palcoscenico lurido e insanguinato, che è Saxophone Street.
Una metropoli immaginata dall'autore, che porta però la memoria cinematografica e letteraria ai bassifondi di una New York fin troppo stereotipata. Il che non è nemmeno un male, dal punto di vista narrativo. Perché tutto funziona, a partire dagli odori e dai colori che l'autore riesce a seminare nella testa del lettore.
La pioggia, lo smog e il nulla suburbano, conferiscono al romanzo quel carattere tipicamente noir e portano inevitabilmente alla definizione di pulp, termine abusato - è vero - sia nel cinema che nella letteratura.
Oltre al rosso della copertina, però, che è davvero accattivante (e che più pulp non si può), Saxophone Street Blues ha il pregio di correre lungo le pagine senza mai perdere colpi. Un romanzo breve che si lascia scoprire, una moltitudine di storie e personaggi che ricorda molto il cinema di Michael Mann, e ha i volti di De niro e Al Pacino. Come pure il volto stanco e disilluso del detective William Somerset (Morgan Freeman in Seven, di David Fincher).
 
Citazioni a parte, Tarantino pure, c'è da dire che il giovane scrittore abbia esordito senza passare inosservato. Non è un libro ricco di colpi di scena, anzi. Funziona come quei film in cui l'attore rompe la quarta parete e parla allo spettatore. Alla fine questo fantomatico Hector è pure tanto presuntuoso e arrogante da dirti che lui è Dio Onnipotente che decide come far andare le cose...
Be' - ragiona - mica ha tutti i torti!
Nei suoi monologhi interiori e mai confessi, magari, e nel suo nome fittizio, c'è più verità che altrove.
Caro Hector, ti perdono per non avermi ancora detto chi sei, ma giusto perché il tuo libro mi piace, a partire dal titolo.
 
Quel "Blues", detto tra noi, credo faccia la differenza.
Perché è vero, il blues è come la vita.
È facile da suonare ma è difficile da sentire.
 
Consigliato?
Assolutamente sì.

giovedì 14 luglio 2016

L'uomo che non esiste, di Gianluca Mercadante



Conscio di un certo ascendente pirandelliano, Gianluca Mercadante si fa narratore delle giornate di Valerio Reale, protagonista inconsapevole di una storia che potrebbe dirsi circolare e fin troppo verosimile.
A dispetto del titolo, L'uomo che non esiste (Intermezzi Editore), quella di Valerio è un po' la giornata tipo di ognuno di noi. Noi che anticipiamo la sveglia di qualche minuto, e ci detestiamo per questo. Noi che ci guardiamo allo specchio e facciamo le smorfie.
E poi la gente che all'improvviso ci ignora.
Tipo che non contano più le cose che hai fatto, la tua vita sociale, quella sentimentale... le idee buone, l'ispirazione - quella stronza! No. Nada de nada!
Se poi per puro caso fai pure il giornalista e sei talmente cretino e pigro (tipo me) da non aver mai pensato di iscriverti all'Albo o come minimo di prenderti quel dannato tesserino da pubblicista, be'. Fatti il segno della croce! L'oblìo è lì dietro l'angolo che ti aspetta.

Il nome del protagonista gioca sull'equivoco, a partire da un cognome che per primo scardina i canoni dell'apparente normalità. Perché Valerio a un certo punto non esiste, e lo conferma l'ultima bolletta, lo conferma la nuova vita della sua ex, Ileana, con tanto di figlia e pure nipote acquisita del povero protagonista, ormai troppo deluso e confuso per tentare un qualche logico ragionamento.

Il racconto è breve e scorrevole, il linguaggio dell'autore tende a confondere il lettore, senza tuttavia metterlo a disagio. Giocare sui tempi e sfruttare gli specchi come trampolino di lancio verso l'ignoto e il dubbio, funziona sia dal punto di vista narrativo che interpretativo.
Anche perché, per dirla alla Mercadante, "alzi la mano chi" non si è mai fermato davanti allo specchio e c'ha visto dentro la solita faccia, la solita giornata...

Consigliato?
Più che sì.


martedì 28 giugno 2016

La poesia si fa per strada, con la rassegna letteraria "Per certi versi"

 
Alessandra Racca
 
L'estate pullula di eventi all'aria aperta e di buone iniziative. Che siano dedicate all'arte, al cinema, o alla letteratura poco importa. Purché la gente possa sfruttare queste occasioni al fine di migliorarsi, di arricchirsi.
 
Anche perché, le cose belle accadono di fuori. Questo è un po' il grido di battaglia della rassegna letteraria Per certi versi, giunta ormai al suo quinto incontro, e che si terrà in quel di Cagliari presso il Bar Le streghe, venerdì 1 luglio alle 20:30.
 
La rassegna è curata dalla scrittrice Valentina Neri, a moderare l'incontro sarà invece il giornalista e poeta Giuseppe Mereu. Gli ospiti della serata, Alessandra Racca e Arsenio Bravuomo, sono molto attivi nel portare i versi tra la gente e con l'occasione presenteranno le loro ultime fatiche.
Rispettivamente Consigli di volo per bipedi pensanti (Neo Edizioni) e Son sempre solo (Miraggi).
 
Vi lascio con le parole di Alessandra Racca, molto convincenti e convinte, a mio avviso. E auguro a molti di voi di poter partecipare a questa splendida iniziativa.
 
Arsenio Bravuomo
 
«La poesia performativa, quella più pop, non è inferiore a quella silenziosa; tutt’altro, è più immediata e appassiona subito gli ascoltatori. Purtroppo a scuola dagli anni ’60 in avanti è stata ignorata ed è un peccato enorme. Si è fatto e si fa tuttora un danno economico e culturale perché c’erano e ci sono i potenziali lettori che non vengono adeguatamente formati, e che sono di fatto potenziali acquirenti di libri. Si tratta di uno scollamento dalla creazione dell’opera alla sua fruizione, e colpisce anche l’arte figurativa. Una volta la poesia era condivisa: mio nonno aveva acquisito una conoscenza molto superiore rispetto alla mia. Aveva addirittura rudimenti di metrica e di alcune figure retoriche; mentre il mio universo di riferimento è mutato, sebbene io abbia studiato più a lungo. Per me e per i ragazzi di oggi, ciò che è venuto allora è particolarmente ostico, e ciò che ci circonda si conosce di sfuggita. Riceviamo strumenti superficiali per afferrare il presente, poiché la scrittura si nutre di linguaggio attuale».
 

lunedì 6 giugno 2016

Prima della polvere

 
 
Finisce così quando metti via qualcosa e i giorni passano.
Che viene la polvere.
Passano così in fretta poi, che non ti viene più nemmeno il dubbio, che non ti chiedi che ora è. Ti preoccupi del calendario che suggerisce i rimedi naturali e le verdure di stagione, e ti chiedi se qualcuno ha pensato di strappare dal muro aprile. Ché tu non l'hai fatto.
Lo hai dimenticato.
 
Ma dimentichi per modo di dire, in realtà ricordi tutto. Solo che il tempo ti sfugge e ogni giorno ha delle priorità nuove che non avevi previsto.
Su quel muro i miei occhi hanno lasciato i primi giorni di aprile. Sono passati due mesi.
Eppure di cose da dire ne avrei tante, un mondo.
Ci credo io che il troppo non riesci a contenerlo e ti frega sempre. Mi basta guardarmi, mi basta quel mese appiccicato al muro e vecchio.
 
Stamattina ho preso il pc che stava nascosto sotto la tv, in sala. Non avevo mai visto tanta polvere sulla tastiera, c'erano i resti dell'ultima volta. Word ancora aperto e deciso a ricordarmi tutto. Quello che avevo scritto, e quanto tempo è passato...
Lascio correre quel sottile brivido di vergogna che passa la schiena e finisce nello stomaco, ora sono qui. E sto scrivendo, ci sto provando.
 
Mi sembra di avere di nuovo un milione di cose da scrivere, mi sembra il momento giusto.
Mi guardo intorno e ripercorro i passi e i pensieri di questi mesi. Ho fatto tanto per ingannare il tempo e alla fine è lui che ha ingannato me. Ancora una volta.
Agosto si avvicina.
Butto giù una lista delle cose che vorrei, scrivo e pianifico menù settimanali e provo a vincere contro il giudizio insindacabile della bilancia.
Conto i mesi passati, faccio un calcolo veloce e addiziono tutto. Mesi più chili.
Poi faccio la media.
Odio la matematica!
 
L'antologia che sto scrivendo conta dieci racconti, credo di trovarmi più o meno a metà strada. Voglio scrivere, devo scrivere.
Voglio arrivare in tempo, non farmi fregare.
Né tardi né presto.
Prima della polvere.
 
P.S. Martina scalcia, magari in due l'ispirazione si cerca meglio.


mercoledì 13 aprile 2016

Le scarpe del Signor Foley



Nel blog di una scrittrice, o presunta tale, non possono certo mancare racconti o stralci di narrativa. Non è la premessa di una che vuole fare la secchiona delle blogger o ripetere a puntino la lezione del buon SEO. La verità è che nel blog ci metto tutti i racconti che mi hanno "scartato". Ciò che accadde per Aghi di pino e carta straccia, si ripete con Le scarpe del Signor Foley. Un racconto nostalgico che fa da omaggio a quei mestieri scomparsi. Io la chiamerei una storia d'amore autentica e chiassosa, ma per capirla meglio, ho bisogno del vostro sincero parere!

Le scarpe del Signor Foley
Quel lunedì di Pasqua, era il 1944, stavano tutti riuniti da Giggetto all’Osteria. Famiglie vecchie e nuove, soldati tedeschi e fagotti pieni, di chi si portava il pranzo da casa. Era una tradizione popolare, quella, e a Roma certe cose non le ammazzava nemmeno la guerra.
C’era Peppino detto “il Gobbo”, insieme a due amici del Quarticciolo. E c’erano tre soldati tedeschi, ubriachi di vino e follia, e l’aria era tesa e dura come il marmo. Renato di quell’ultima Pasquetta dal sapore campestre, ricordava solo gli spari e la fuga di tutti i presenti. I fagotti erano volati in aria, a terra giacevano i corpi dei tre soldati. Del Gobbo e dei suoi amici poi, nessuno seppe più nulla. Una settimana dopo, a seguito del terribile fatto avvenuto all’Osteria, scattò la cosiddetta “Operazione Balena”. Quelli andarono nelle case di tutti, strappando alle mogli i loro uomini, e nel giro di una mezza giornata erano già “pronti”. Renato aveva quindici anni, quando udì per l’ultima volta i passi del padre. “Papà è andato via per lavoro”, diceva la mamma. E quel via non conobbe ritorno.
“Papà ha fatto la storia Renatì, non lo scorda’! Abbiamo fatto La canzone dell’amore. La storia, Renatì!”
Insieme a quelle parole, restava intatto il ricordo di un uomo che amava senza riserve il proprio lavoro. Suo padre era macchinista alla vecchia Cines. Un giorno normalissimo tornò a casa con una valigia vecchia e piena di oggetti strani. Renato aveva sì e no undici anni. Racchette, scarpe da uomo e da donna. Un cocomero, una scatola con dentro la sabbia. Bottoni grandi e piccoli e per finire una noce di cocco.
“Renatì, questa è tua. Me l’ha regalata n’amico caro. Tienila co’ te. Sempre”.

E in quel momento il ragazzino non sapeva se essere felice o stordito da così tante bizzarrìe. Osservava quelle scarpe da donna, e non capiva. “Dovrò indossarle?” – pensava in segreto. 
Una volta passato lo stupore, Renato inizò a familiarizzare con tutti quegli oggetti. Passava le sue giornate a imitare tutto ciò che avesse un suono. Con particolare ossessione per i cavali al galoppo. Scoprì il cinema, e capì che tutti i suoni e i rumori dei film, lui poteva ricrearli con la voce. Per non parlare di come fossero d’aiuto gli oggetti misteriosi della vecchia valigia. Insomma, col tempo arrivarono tutte le risposte, e quel ragazzino divenne “il Signor Foley”. Uno dei più grandi rumoristi del cinema italiano.
Era un tardo pomeriggio d’aprile, il sole stava lì lì per cadere dal cielo e l’aria era briosa, leggera. In compagnia del vecchio Armando e della signorina Norma, il Signor Foley camminava nel parco. L’uno e l’altra necessari, compagni di vita e sventura, da ormai sei anni. Da quando il male lo aveva privato per sempre di quell’istinto naturale che permette di vedere dove nascono e muoiono le cose. Ma il Signor Foley, ottantasei anni e una vita piena, sapeva quasi tutto delle cose. Le teneva a mente con cura, e salda memoria. Sapeva bene, ad esempio, che all’ingresso del parco in Via degli Argonauti, ad attenderlo, c’era sempre lo stesso scalino. E nel buio più nero, pensate, aveva imparato a evitarlo.
Poco prima di varcare l’ingresso, tutte le volte, si chinava con grazia fino a toccare la punta delle scarpe. Quel gesto, che a molti potrebbe apparire ridicolo o trascurabile, per il Signor Foley era necessario. Anticipava lo scalino, fermandosi nell’attimo che precede il passo, con tanta naturalezza che sembrava ancora potesse sfruttare la vista. Il pensiero, in silenzio, scivolava giù fino a quel paio di scarpe. Vecchie o nuove, non importava. Doveva solo accertarsi che nulla le avesse scalfite. Solo così avrebbe potuto continuare, a camminare, a vivere. Non poteva vederle con gli occhi, le sue tanto amate scarpe. Ma le mani avevano sviluppato una capacità incredibile di carpire lo stato d’animo di ogni cosa. Al Signor Foley bastava sfiorarle appena, seguire le curve tonde o squadrate, accarezzare i difetti e le virtù. Non gli riusciva solo con le scarpe, sia chiaro. Certo le scarpe, erano la sua specialità.
Il Signor Foley scovava l’aspetto e persino l’anima delle persone. Il droghiere ad esempio, aveva un trombone al posto delle corde vocali, e quando parlava si prendeva spesso una pausa. Nessuno aveva mai descritto l’aspetto di Vincenzo al Signor Foley, ma quella pausa poteva significare solo una cosa: un grosso e folto paio di baffi! Così era.
Il Signor Foley annusava l’aria come quando si attende qualcosa. Con una mano si prendeva cura di Armando, sedutogli accanto, con l’altra picchiettava il ginocchio e poi la panchina. Faceva cerchi nell’aria con le dita, poi un tocco leggero alle scarpe e, per finire,  il meritato riposo. Dal rumore delle foglie arricciate a terra, poco distanti dalla panchina su cui stava, insieme ad Armando, arrivò un sibilo sottile. A seguire, pochi ma decisi, passi impalpabili.
Un ragazzino imitava il fischio di un trenino a vapore, si muoveva disinteressato, calpestando e accartocciando ancora di più, quel tappeto rinsecchito e malinconico. Quelle foglie a terra non avrebbero mai incontrato primavera, e il Signor Foley lo sapeva. La maglia a righe nascondeva i contorni di un ragazzino smilzo, agile e in piena armonia con i suoi dieci anni. I capelli spettinati e un paio di occhiali con le lenti grandi, un calzino rosso, l’altro blu. Quel ragazzino era un disastro amabile. Scombinato e inconsueto, distratto. Il Signor Foley non poteva vederlo, ma lo capiva già  meglio di chiunque altro.

“Mi scusi signore. Chiedo scusa!”
Armando capriolò su se stesso, lasciando sulla panchina il trenino a vapore che non suonava più. Il Signor Foley poco irritato e molto incuriosito, afferrò il giocattolo del ragazzino piombatogli addosso.
“Ma questo trenino lo facevi suonare tu con la bocca?”
Cercava la risposta del ragazzino distratto, attendeva nell’aria qualcosa, un ritorno di voce.
“Beh, sì. Mi diverto a rifare i suoni. Questo è il mio preferito, il trenino a vapore. Ma so fare anche tanti altri rumori…"
Il ragazzino ne andava così fiero.
“Accidenti! Sei bravo allora”.
Norma prese Armando per una passeggiata, posò la rivista proprio dove stava seduta, e informò il Signor Foley.
"Sì Norma, vai tranquilla. Io me ne starò ancora qui. Ho trovato un amico, non vedi?”
L’umorismo non gli era mai mancato.
“Vuole sentirli? Tutti i miei rumori?”
Il ragazzino ormai smaniava per mettersi alla prova, il Signor Foley non poteva che assecondare quel desiderio, tanto familiare.
“Avanti. Fammi sentire che sai fare!”
Il piccolo rumorista si esibì in contorsioni delle labbra e smorfie di ogni tipo.
Il cavallo al galoppo.
"Ptcò – ptcò – ptcò".
E la Ferrari.
“Uuuuuuaaaaaah – Meeeeeeeeeeeh – Frrrrrrrrum”.
E per finire il vento.
“Fffffuiuuuuuschhhhhh”.
Il Signor Foley se ne stava lì seduto, immobile, rapito dall’imperfezione dei suoni, mai stata così piacevole.
"Il cavallo è stato decisamente il migliore. Bravo!”
E lui batteva le mani saltellando, con un sorriso che a fatica rientrava in quel viso mingherlino.
“Perché non mi guarda mai in faccia, signore?”
“Perché non cambierebbe le cose. Sono cieco. Ma ci sento benissimo, e so per certo che tu hai del talento!”
Il ragazzino dimenticò in fretta gli occhi del Signor Foley.
“Davvero? Lei crede?”
“Assolutamente! Certo, devi lavorarci su…”
“La mamma dice sempre di smetterla, con questi rumori. Li trova fastidiosi, soprattutto quando guarda i suoi programmi preferiti alla tv”.
“E quando lei ti sgrida, tu che fai?”
“Mi chiudo in camera e continuo a fare i miei rumori”.
Il Signor Foley sorrise, e in quello squarcio la luce scostò la notte, ormai prossima.
Era un ricordo.
"Renatì, Renatì… mo' basta co 'sti cavalli!”

martedì 5 aprile 2016

Quando il cappotto non serve più



L'indecisione delle mezze stagioni rende incerta l'esistenza. Porta a dubitare di ogni cosa. A partire da ciò che indossiamo fino ad arrivare, inevitabilmente, a tutto ciò che mandiamo giù, anche per vie traverse. Giù che vuol dire stomaco e cuore, anima e pelle.

Aprile ricorda che la distanza è solo un vago attendere.
Maggio sta nel mezzo e non fa che accrescere il desiderio di mare.
Eppure, persino nei colori accesi e caldi dell'estate, rimane un soffio di malinconia e incompletezza.

Lo capisci quando tiri fuori le scatole con i capi leggeri, quando tiri via dalle stampelle appese e silenziose, tutti quei mesi di cotone pesante e lana merino.
Cambia stagione e ogni stato d'animo.
Persino il tuo.
Quello che metti via ti somiglia tanto, ti dice che in fondo anche questo inverno, hai fatto tante belle cose. Ti suggerisce di non rimpiangerti niente e nel mentre ti prende alle costole.

Quando il cappotto non serve più, capisci che per ogni nuova stagione c'è un prezzo da pagare.
Non importa più se il cielo buio del mattino sembra un quadro triste e assonnato.
Se il freddo gela ogni cosa e l'aria è solo un grande spiffero che ti è sfuggito di mano.
Ti metti nei panni di quel cappotto che nemmeno ricorderai di avere, perché nella fretta lo hai messo chissà dove. In un sacco nero o in una scatola a fiori che sa di vecchio e preferirai non aprire più.
Capirai che vuol dire il tempo che passa.
Di come cambia il tuo stare al mondo.
Avrai domande nuove.
Che farai quando tornerà l'inverno, quando farà di nuovo freddo.
Penserai ai giorni che diventeranno ancora una volta lunghi, ai pomeriggi appena cominciati.
Ti ricorderai di quella vecchia scatola, dei fiori che non ti sono mai piaciuti.
Oppure no, e sai che questo non cambierà le cose.
Tornerà l'attesa, ti ritroverai nel mezzo.
E avrai una scatola, magari nuova, più grande.
Senza fiori.


martedì 22 marzo 2016

Economia domestica



La Coldiretti ha stilato una vera e propria guida "salva tasche", grazie alla quale ogni famiglia può arrivare a risparmiare addirittura il 50% sulla spesa.
Spesa intesa come spesa al supermercato, i soldi che spendiamo per mangiare, dunque per vivere.
La spesa ricopre un'altissima percentuale della nostra vita. Un po' come l'acqua fa con il nostro corpo, credo che la spesa faccia con il nostro tempo preso nel senso più letterale e ampio possibile.
Da mamma e lavoratrice occasionale, mi rendo conto che il tempo che passo tra frutta e verdura è pari (se non maggiore) a quello che dedico alla cura del mio corpo.
A dirla tutta, prendermi cura di me diventa sempre più complicato e non è che un ritaglio di tempo nell'arco della settimana.
Al massimo due, ritagli.

Al supermercato ci vado anche tre volte a settimana, e per settimana intendo quella "corta", scolastica.
Perché non capita di rado che io mi ritrovi al supermercato anche di sabato o di domenica.
Ed è un'esperienza terribile, lo si sa.
La verità è che io mi sento molto Julia Child, tolta l'anatra eh?

Di questi tempi, non abbiamo mica timore ad ammetterlo, pensare di fare economia non è del tutto sbagliato. Anzi, si può dire che nel tempo siamo piuttosto migliorati e parlo per me, per quel che vedo nel mio carrello e nel mio portafogli.
Mio grande difetto?
Che butto nel carrello senza ragionare sul prezzo. Non sto lì a confrontare le varie marche, se mi piace un prodotto finisco col prenderlo di nuovo anche se è triplicato il prezzo nel cartellino elettronico.
E non si fa. No!

A me non compete parlare di economia, quasi direi "grazie al cielo", ma non lo dico se no poi un qualche Feltri mi si potrebbe offendere. Io ho studiato Lettere, figuriamoci...
Intendo l'economia come una possibilità concreta di felicità.
Sì, felicità.
Godersi di più e meglio, le cose semplici che non sono proprie dei "ricchi" ma di tutti. Anche di un disgraziato precario che non ha futuro. Di un pensionato che tiene la carta acquisti vuota nel portafogli, e ogni tanto dice alla cassiera di dare un'occhiata. Ma quella non trova nemmeno il coraggio di dirgli "Caro mio vecchietto, la sua carta è andata. Vuota, finita, terminata".

Tornando a me, io ci provo a fare economia domestica. Ecco, chiamiamola così.
Nonna insegna che in cucina "nun se butta via niente!", e io l'ho imparato. Ancora compro il pan grattato però, e se lo scopre per me sono guai. Non lo conservo e non lo butto nel mixer come fa lei. Ancora, nonostante gli anni e la stanchezza.
Ecco, un'altra cosa che a me manca è la pazienza per certe cose.
Tipo il pan grattato.
Però il pane spesso non lo butto perché in forno poi avviene la magia e diventa di un gusto insuperabile e antico. Il pane "abbruscato" con un filo d'olio, quello buono, e un pizzico (tanto tanto) di sale. Mica solo Dio fa i miracoli, anche noi.
E le polpette che piacciono tanto pure ai bimbi.
E le frittate con dentro il mondo.
Avere sempre le patate in casa perché se poi il giovedì è di gnocchi tu non li compri al supermercato, con tutto il rispetto per Giovanni Rana, ma te li fai da sola.
No?

A seguire poi tutta una serie di accortezze che io ho acquisito col tempo, da quando sono diventata madre devo dire. Preferire la frutta e le verdure di stagione. Possibilmente accorciare le distanze e scegliere il contadino che ha il banco al mercato del martedì o del sabato. Quello che ti fa assaggiare il prodotto che compri al momento.
Mi viene in mente il tizio che ogni anno viene col suo carretto ricco di fave appena colte e si mette in strada. Quello che ti dice "Signo', ma nun sente come scrocchieno?"
E c'ha ragione, scrocchiano!
Insomma una storia bellissima, una cosa semplice e che fa pure economia.

Anche se io continuo a dire che l'economia domestica è un po' la nostra formula segreta per la felicità. Per salvare le tasche consiglio la guida citata all'inizio, per salvare noi stessi consiglio poche e piccole accortezze.
Io ad esempio mi prendo cura di me pensando alcune cose a bassa voce, le faccio mie per poi trascriverle. Perché mi sembra che solo così io riesca a capirle davvero.
Economia domestica e felicità.

Una poesia breve, brevissima.
Che non è nemmeno una poesia, ma vorrebbe esserlo.

Se avessi un orticello pianterei le fragole
per far felici i miei bimbi.
Pianterei i pomodori
e darei forma a tutte le meravigliose insalate che mi vengono in mente.
E la caprese con la fogliolina di basilico,
e le friselle croccanti come piacciono a me.
Pianterei infine tante altre cose,
mi gusterei il sole del primo mattino d'inverno
e i colori del crepuscolo d'estate.
Se avessi un orticello sarei ancora più felice.
Tutto qui.


lunedì 21 marzo 2016

Consapevolezza



Cosa pensa una donna durante i nove mesi di gravidanza?
Cosa pensano le altre donne quando vedono una donna incinta?
Cosa penso io mentre aspetto mia figlia?

Prendetela come una storia di primavera, come una pagina di vita personale o come una riflessione ad alta voce.
Però prendetela...

Si chiama consapevolezza.

Il quinto mese di gravidanza lo considero il migliore.
Perché si trova a metà, non manca troppo al termine e non manca nemmeno poco. E questo stare nel mezzo un po' ti aiuta, ti suggerisce di fare le cose con calma e aumenta in te la consapevolezza. Amica intima e crudele, la consapevolezza, ti ricorda che tanto da lì deve uscire e potrebbe far male, tantissimo o forse molto meno dell'ultima volta. O forse molto di più. Ma tanto a te non importa... (stoca**o!)
Il quinto mese è bello perché la pancia si vede e la gente non pensa più che ti sei scofanata abbestia senza alcuna ripresa dall'abbuffata natalizia. E poi la pancia del quinto mese una donna la conosce bene, e tu capisci che ha capito. Perché il suo sguardo è diverso, non ti guarda come si guarda, ad esempio, una donna all'ottavo mese.
Tu una donna all'ottavo mese la riconosci subito e provi una gran pena per lei. Non pensi più "che bella pancia, che bei momenti... un po' mi mancano".
No no.
Te fa' solo 'na gran pena.
Perché sai che manca poco e non riesci nemmeno a sorriderle.
Ti sforzi, tuttavia. E la guardi mostrandoti solidale. Ma il tuo pensiero lo tieni per te.
"Poraccia!!!"
Ebbene, menti.
Menti spudoratamente.
Ecco perché mi piace il quinto mese.
Perchè le donne mi guardano e non sono costrette a mentire. Ma tra poco lo faranno, come sempre, anche con me.
Tra poco mi guarderanno così.
E io lo so già.
So tutto.
‪#‎consapevolezza‬


giovedì 17 marzo 2016

Lo chiamavano Jeeg Robot



"Cuore e acciaio", sembra la premessa di un bel thriller metropolitano.
Ambientato nelle viscere della capitale, fitta di anime nere che vomitano veleno e corrono affannosamente, per la terra, tra le stelle. Certo mica supereroi qualunque, solo uomini che non hanno più paura perché non hanno niente.
E allora devi essere per forza così, un cuore pieno d'acciao pronto a vincere contro ogni violento urto e pronto ad ammorbidirti, all'occorrenza.

Amico di nessuno, Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) diventa all'improvviso il paladino dei reietti. Invisibile e disgraziato, che tiene in frigo solo la tristezza e la solitudine di una vita vissuta di riflesso. Viscida e sporca. Uno che se cade nemmeno s'ammazza, però si sente il botto.
Il botto di Gabriele Mainetti, qui al suo esordio registico (e che esordio!), riporta alla paura che poi fa l'uomo, nel film di Claudio Fragrasso, Palermo Milano - solo andata. Quando prima di ammazzare qualcuno ci si chiedeva pure "chissà che effetto fa". E le ricordo bene, le parole di Tarcisio (Valerio Mastandrea) a Remo (Ricky Memphis), poco prima di morire.
"Remo, c'avevi ragione. Se sente er botto".


Commovente e spietato, come lo è a tratti Lo chiamavano Jeeg Robot. Un film con gli attributi, coi controcazzi - diciamolo pure!
E oggi poterlo dire ha un sapore del tutto diverso, rispetto agli anni '90. Perché oggi ci sentiamo perennemente obbligati al confronto con l'onnipotente bandiera a stelle e strisce. Perché i supereroi è roba che appartiene a loro, dove andiamo noi italiani provincialotti e morti di fame?
E invece andiamo, pronti a sfidare la sorte, la concorrenza oltreoceano. I miliardi di dollari al botteghino e tutte le grandi mele invase dai Chitauri.
Non abbiamo sbatacchiamenti e nemmeno un miliardario, genio e filantropo (e pure grande gnocco!), ma abbiamo un cinema italiano pronto a rinascere.

Gabriele Mainetti è l'ennesima conferma, sia benedetto!
Dopo il tentativo poco riuscito di Salvatores, con il suo Il ragazzo invisibile, Mainetti se ne esce con un film sorprendente con tanto di botto.
Tutto è credibile, parliamo di un film nostro, di un supereroe de noantri.
Che faresti se un giorno ti accorgessi di avere i superpoteri?
Non diciamo cazzate, abbiamo pensato tutti la stessa cosa...


Ed è già cult la scena di Ceccotti che sradica il bancomat e se lo porta a casa. Stendendo banconote sporche di inchiostro.
Lo chiamavano Jeeg Robot ha il pregio unico di mettere in risalto le qualità del nostro cinema. Attori talentuosi, mostri che vendono l'anima pur di entrare nel personaggio. Claudio Santamaria lo definirei un Tom Hardy italiano, che sembra avere solo il fisico per certi ruoli, per certe situazioni. E invece ha tutto, perché mentre finge di essere al mondo tanto per starci, poi si rivela per quello che realmente è. Eroe per caso, ma necessario. Certo Santamaria è pure la voce del Batman di Christopher Nolan. Voglio dire...
E Luca Marinelli è un matto scocciato che ti rimane addosso. Un figlio di una super mignotta, detto Lo Zingaro, pieno di amor proprio, fanatico estremista delle icone pop degli anni '80. Ogni sua performance vocale è un omaggio distorto e allucinato, pregno di violenza e follia.
Un villain che non vuole restare crocifisso al muro, che snobba Tarantino e poi sporca di sangue un telefono bianco. Bianco per sbaglio, eppure così significativo.


Questo Jeeg Robot è un supereroe atipico, forse esclusivamente nostrano. Che ti violenta e ti protegge, mentre la ruota gira e tu sei costretto a vedere tutto. Il mondo com'è, come non vorresti che fosse. E non poteva mancare la sensibilità di un personaggio femminile che smuove la coscienza del supereroe, che lo rimette in vita. La ragazza che vive nel mondo parallelo, sorvegliato dal grande e potente Jeeg - e interpretato da una bravissima Ilenia Pastorelli - smussa l'oscurità degli angoli più neri della notte. Lei è l'innocenza e la verità che fa male, che indossa l'abito di una principessa e vive combattendo come una guerriera.
Quella che ti fa notare che con le scarpe di camoscio non sei per niente credibile, ma al tempo stesso ti sprona e ti convince che puoi davvero salvare il mondo.

Forza Hiro', che se poi viene il giorno delle tenebre... succede un macello!

giovedì 10 marzo 2016

Diciotto anni dopo


Qualche passo indietro, e sulla strada una vecchia Morgan. Come a voler dire che il cinema, come la vita, altro non è che un bel viaggio. A volte incredibile che supera l'oceano, altre invece tanto modesto da restare tra le mura domestiche, sempre lo stesso. Cinque anni dopo, una Giulia, e il terzo passo da regista. Tanto basta a dargli un benvenuto cordiale e soddisfatto, nell'olimpo degli autori nostrani. 

Tra vecchi dolori e mostri del passato, e a partire dal sapore amaro per eccellenza, la morte, Edoardo Leo costruisce un esordio registico che già preannuncia quella sottile accuratezza per un cinema garbato e poetico. Gentile e semplice, dunque necessario. Perché la nostra cultura cinematografica e la nostra stessa esistenza, hanno bisogno ancora di gesti semplici ed emozionali, come le storie.


Da Roma alla Calabria per assecondare le ultime volontà del padre, insieme in una Morgan tenuta da sempre sotto custodia in attesa di chissà quale evento straordinario. La morte forse lo è, tanto straordinaria quanto maledetta, talvolta il miglior inizio. Da un punto di non ritorno cominciano a risorgere i due protagonisti di questo viaggio a ritroso nel tempo e nella coscienza. Due fratelli che a guardarli ingannano, tanto sembrano simili. Poi però li guardi bene e capisci che ognuno procede a senso opposto, come due bulloni che continui a girare, tutta la notte, tutta la vita.
A volte il tempo necessario coincide esattamente con la vita, la vita presa per intero. La macchina da presa si sposta con garbo e occhio paziente, mettendo a fuoco il dettaglio e poi l'immensità del mare.


Edoardo Leo riesce a brillare di luce propria nel cielo dell'autorialità, non solo italiana. Perché il cinema "tutto" ha bisogno di ritrovare la bellezza di una storia a metà tra la commedia e il dramma. Un road movie dal sapore intimo, che per guardare meglio fuori deve capire prima com'è fatto dentro. Evoluzione dell'essere, umano e artistico. Diciotto anni dopo è la prova vivente che questo cinema italiano, non è solo destinato a rimpiangere il Neoralismo e la Commedia d'altri tempi. Questo cinema è ancora capace, ha ancora qualcosa da dire e ha persino i mezzi per farlo.
Abbiamo bisogno di questo, di un abbraccio fraterno, di una voce che grida e non balbetta, di qualcuno che raccolga i pezzi infranti e tappi i buchi.
Di un "va tutto bene", anche quando non va.


sabato 5 marzo 2016

Scrittori e presentazioni - Quello che gli altri non dicono




Che presentare il proprio libro nelle librerie di catena sia un'impresa (intesa proprio come dizionario vuole, ovvero "azione di ampia portata"), è cosa risaputa.
Scommetto che ne hanno parlato già tutti.
Non è così?

Impresa che, lo sappiamo, sale e scende in maniera del tutto proporzionale allo status dello scrittore. Più egli è disgraziato, più l'impresa cresce, cresce, cresce e così via.
Avranno già detto, senz'altro, delle rocambolesche quanto umilianti entrate in scena dello scrittore emergente, quando, glorioso e ingenuo, scavalca quella soglia e, con fare da vero condottiero pronto a morire, guarda negli occhi il primo tizio che trova nella grande libreria e...
"Salve, sono Topolino Woolf, e questo è il mio primo romanzo!"
Il resto della storia lo conoscete tutti.
Se così non fosse...

"Sì, guardi, signor Woolf. Il suo romanzo sarà senz'altro meritevole. Ma vede, io sono lo stagista in prova e non so davvero come aiutarla. Se vuole le dico quando può trovare il titolare?"
Nel momento in cui lo stagista sorride, il povero Topolino Woolf, esce dalla cosiddetta infanzia dello scrittore.
Cresce.
Capisce.
- E poi muore?
No.
Diciamo che poi diventa grande e, da quel momento in poi, quando entra in libreria sa già a chi deve rivolgersi. E se ne vale davvero la pena.

Insomma, la libreria, per uno scrittore emergente, assume via via delle sembianze piuttosto mistiche e suggestive. Talvolta inquietanti, altre salvifiche.
Ognuno di noi vanta una carrellata di esperienze che possono somigliarsi, più o meno, e ripetersi nel tempo.

Esiste tuttavia qualcosa che nemmeno il successo può scalfire. Qualcosa che non cambia né con la fama né con il tempo.
Le presentazioni.
Mica tutti ti danno la possibilità di presentare il tuo bello, coraggioso e sconosciuto romanzo. Se!
Alcuni ti dicono chiaramente che no, non lo fanno. Né ora né mai.
"Guarda ci dispiace. Ma vedi, se eri famoso o esordivi con un grande editore ti avremmo presentato senza problemi!"
E grazie a Nina!
Oppure ci sono quelli che si prestano volentieri e, altrettanto volentieri, ti propongono accordi quasi imbarazzanti, quelli che, come dire... vabbè meglio non dire.
Tanto lo avranno detto già tutti. No?


E di quel momento lì ne hanno parlato?
Qualcuno lo ha detto, cosa si prova, cosa vuol dire... cercare una sedia per non dare nell'occhio e non sentirsi fuori luogo. La sedia più distante da dove bazzicano microfoni e curiosi, perché vedere fin lì fa quasi paura, lascia sgomenti, increduli.
Sulla locandina c'è il tuo nome e poco più in basso il tuo libro, che pare sentirsi a suo agio mentre tu ti muovi a fatica e prosegui in affanno. Verso gli altri, verso i primi colleghi che vedi arrivare, verso i primi clienti della libreria.
E dopo aver vinto contro la paura e l'imbarazzo, non trema nemmeno più la mano e riesci a trovare persino piacevole il suono della tua voce. Forse perché parla del tuo libro, parla di te.
I presenti ci sono davvero e ti ascoltano, e tu li guardi come se non avessi mai visto un essere umano.
Guardano te, vogliono sapere del tuo libro.
Tu non credi che questo sia possibile, reale. Ma vai avanti per la tua strada e sfrutti quell'attimo, che è tuo soltanto.
Ripensi a come ti sentivi qualche minuto prima, quando per ingannare l'attesa hai curiosato tra gli scaffali della libreria, come se lì ci fossi finito per caso.
Sorridi, ti senti orgoglioso per la prima volta e la tua vita da scrittore emergente non sembra più così scombinata.

Quando tutto è finito, in realtà il bello deve ancora arrivare, ti alzi e ringrazi i presenti. Nella confusione e nella gioia generale, ti fermi sui passi e sui gesti di una signora bassina, seduta in seconda fila. Sapevi che era lì, perché mentre parlavi riservavi lo sguardo a tutti, un po' alla volta. E lei era lì, lo sapevi. Quel che non sapevi, è che lei a un certo punto si sarebbe alzata da quella sediolina di legno chiaro, e si sarebbe fiondata sul tuo libro.
No, questo non potevi saperlo.
La signora bassina è stata lì tutto il tempo, ha ascoltato tutti gli autori, te compreso.
Poi ha deciso che quello era il libro.
Il tuo, libro.

Ecco. La signora bassina e quel momento, quello che gli altri non dicono, ma esiste davvero.


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