giovedì 30 maggio 2013

La grande bellezza



Sarà che prima di addormentarmi guardo il soffitto, e cerco il mare...

E' stato il primo pensiero esploso in me, ancor prima di abbandonare la sala. L'immagine di quel mare visto con gli occhi, l'immaginazione, di Jep Gambardella e quel rumore inconfondibile, netto. La sola certezza nei momenti più vaghi del protagonista così come dello spettatore. Quasi a voler dire che nel caos più devastante e disorientante, quel rumore lì, sia l'unico appiglio. L'unico modo possibile per tornare in superficie. Ed è così anche per Jep, uno scrittore, giornalista, critico e acuto osservatore disilluso, uno dei padroni della mondanità romana, delle feste in terrazza e dei salotti esclusivi della Roma più grottesca. Jep/Toni Servillo, autore di un unico romanzo, L'apparato umano, si dichiara uomo deludente e ambizioso. Ormai sessantacinquenne capisce che non può più perdere tempo con cose che non vuole fare. La sequenza che lo vede abbandonare la camera da letto di Orietta/Isabella Ferrari è significativa in questo senso. Fuma la sua sigaretta scrutando chi gli passa accanto, osservando tutto ciò che lo circonda. Dalla lingua affilata e un certo debole per smascherare le menzogne degli esseri umani, quelli che, per intenderci, si proclamano portatori dei valori civili e morali di una società "sfasciata", esattamente come loro. Quando Jep rimane in silenzio a guardare, si crea un'insolita atmosfera, come la quiete che anticipa silenziosamente la tempesta, l'esplosione ultima che manda all'aria tutto e tutti. Ed è in questi momenti dilatati dalle inquadrature magistrali del regista che La Grande Bellezza pervade lo schermo. 


Perché guardare questo film è un po' come ammirare qualcosa di immacolato, di eterno e dalla bellezza indecifrabile mentre scivola nel degrado, nel disfacimento totale. C'è chi sostiene che il film di Paolo Sorrentino sia un ritratto tragico non riuscito fino in fondo, che rimane miseramente grottesco, non di più. Beh, io non sono d'accordo con queste affermazioni. E mi basta accennare ai personaggi scelti da Sorrentino, uomini/marionette mossi dal "nulla". Personaggi senza riferimenti se non simili all'inutile, all'apparenza e alla volgare realtà che più si vuole nascondere più affiora, senza filtro. Ecco perché Sorrentino parte proprio da una strana alternanza, una dicotomia continua che non lascia scampo. Il tutto e il nulla, il sacro e il profano, la normalità che si scontra con il grottesco, il bene servito in minuziose dosi e il male più disgraziato. 


Stefania la donna/madre che si autocompiace pur di non ammettere che la sua vita è un totale fallimento; c'è Viola, madre di un figlio problematico che si toglierà  la vita; c'è Romano, un Carlo verdone disegnato con la giusta drammaticità, quella che gli calza a pennello. Così,  finalmente, il suo contributo, torna ad essere indispensabile ai fini della comprensione di un film visto nella sua totalità. Un uomo deluso dalla sua Roma, con il sogno di recitare su un palcoscenico ma senza più la forza per restare. Ma vorrei sottolineare, almeno per come ho letto io questo personaggio, quanto Roma sia soltanto un pretesto per rappresentare poi il dolore più grande di Romano, ovvero l'amore per una donna vuota, che non gli darà mai nulla e che non smetterà mai di farsi di cocaina. C'è Dadina, la disadattata per sua stessa natura. Una donna piccola che guarda in alto, seppur continuando a osservare il mondo come fanno i bambini e forse proprio per questo, una delle poche ad aver agguantato le proprie ambizioni. Dadina è infatti affetta da nanismo ed è il direttore del giornale per cui lavora Jep. C'è poi Ramona, e voi non immaginate quanto io mi sorprenda a dire quanto sto per dire, perché vedere Sabrina Ferilli per la prima volta, avvolta da un' aura tragica e commovente, bella e condannata, credetemi lascia una leggera brezza negli occhi. La sola che all'apparenza è donna meschina mentre nell'animo è pura. Vederla in quella piscina con quella ciambellona colorata è stato come  afferrare fin dentro le viscere la bellezza incontaminata. Cosa che abbiamo intravisto appena ,con la ragazzina in preda a uno sfogo artistico, soffocata dal suo stesso talento imposto dai genitori. 


Potremmo continuare ad elencare le figure di Sorrentino e non sarebbe male, io ne parlerei per ore. Per questioni di tempo e anche perché questo film va visto almeno due volte per essere davvero compreso, torniamo a parlare di ciò che Sorrentino è riuscito a fare. Il suo stile non lascia dubbi e non può nemmeno lasciare insoddisfatti i più fedeli estimatori del suo cinema. (Mi meraviglio di come possa lasciare insoddisfatto chiunque in realtà, ma questa è un'altra storia...). La grande bellezza dilata il tempo e lo spazio, procedendo secondo un filo narrativo sconnesso, ma solo all'apparenza. La macchina da presa immortala lo sfondo di una Roma marmorea, immobile nella sua grande bellezza ma caotica se guardata con gli occhi dei suoi stessi abitanti. Dai canti sacri del Dies Irae si passa all'inutile orecchiabilità di una nota canzone della Carrà. E Roma si presta ad essere specchio schietto e satirico dell'esistenza umana, del malessere dell'individuo che non trova più la vera bellezza e si abbandona allo sfacelo. Su quei terrazzi grotteschi e miseri, dove passano solamente treni che non portano da nessuna parte, potrebbe compiersi, tuttavia, un piccolo miracolo. 


Sorrentino non lascia mai allo spettatore la possibilità di intravedere un futuro roseo per i suoi personaggi, però sa bene quali siano le possibilità che il cinema mette a sua e, a nostra disposizione. Allora è possibile che gli occhi dimentichino il corpo in rovina di una ex soubrette (Serena Grandi metafora più terrificante di una Roma "sgangherata"), di una donna che tira la sua roba e di un padre eroinomane. E' possibile che una giraffa appaia e scompaia davanti ai nostri occhi, che uno stormo di fenicotteri si fermi sul nostro terrazzo prima di ripartire verso una nuova terra. E' possibile che una "santa" basti a "sputtanare" quel marasma umano fatto di fedeli corrotti e mezzi cuochi, mentre ricorda ai commensali che la povertà non si racconta, si vive. E' possibile che su quel soffitto si veda il mare, giusto il tempo necessario per tornare alle nostre radici, alle sensazioni più pure che abbiamo lasciato indietro, insieme al nostro primo amore e alle prime scoperte. Perché ciò che conta per Jep, per Sorrentino e per ognuno di noi, è trovare l'incipit per una nuova storia, un punto da cui poter ripartire. Dove un faro e il rumore del mare rinnovano la nostra speranza, azzerando il marcio. Laddove l'eco di un film felliniano rimbomba nella nostra memoria e ci appaga, immensamente...



mercoledì 29 maggio 2013

Non ho l'età...



No, non è Gigliola Cinquetti...sono io. Lo so che non dovrei approfittare del mio blog per raccontare le mie faccende personali, potrebbe sembrare egoistico e in ogni caso rischierei di annoiarvi perché in fondo voi potreste dire: macchissenefrega!

Però è più forte di me...ma vi rendete conto di cosa significhi vivere qualcosa, anche una serata normalissima e sentirne il bisogno di scrivere, di condividere tutto ciò che si è provato in una volta sola? Io sinceramente ancora non lo capisco, chissà quale assurdo meccanismo si metta in moto dentro di noi in questi casi, bah...
Sapete, erano quasi dieci anni che non andavo a ballare, in una discoteca intendo. Cioè quel luogo misteriosamente puzzolente e psichedelico che riesce a richiamare, come il miele fa con le api, milioni di ragazzi e ragazze di ogni età e di ogni "genere". Per quanti non lo sapessero, non è che io sia un rudere di donna eh, ho ventotto anni solo la mia vita ha iniziato ad assumere un aspetto differente rispetto a quella delle mie coetanee perché a ventitré ero già mamma. Passare dalle scritte sui muri e sulle pagine dei diari a pappe e pannolini il passo mica dovrebbe essere così "breve". E invece nel mio caso lo è stato...ma l'ho voluto, dunque evviva i passi brevi!!!


Però anch'io ogni tanto ho bisogno di dimenticare la vita di madre e donna di casa, per evadere dalle responsabilità e dai problemi, così appena posso me ne vado al cinema, vado in radio oppure scrivo. Ma la scorsa settimana una vecchia amica, prossima alle nozze (non lo fare, non lo fare...) ha deciso di deliziarsi/ci con un addio al nubilato come si deve, con tanto di limousine e autista personale che si improvvisa cicerone alla scoperta della "Roma sparita". Tutto sommato è stata una piacevole serata, tranne il tacco 10 di una scarpa estiva e una temperatura di fine gennaio. Si insomma non è che sia una combinazione perfetta. Della combriccola femminile quella sera, l'unica "maritata" ero io, il che già mi scuoteva un po', ma non gli davo troppa importanza. E nonostante la simpatia delle ragazze, le espressioni chiaramente imbarazzate della futura sposa e lo stress tanto evidente da non lasciarle mai il segno in viso, c'era in me quella strana sensazione di "inadeguatezza". Perché alla fine io guardavo le altre e non riuscivo ad osservare me stessa, quasi afferravo le loro sensazioni, ma non le mie. Non è prendersi chissà quale posizione privilegiata rispetto agli altri, spero si capisca. Ma non è la prima volta che mi capita. 

Io sono sempre più convinta che al di là dell'età (il titolo è molto ironico in questo senso), sono le scelte che facciamo (..che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità. Ogni riferimento a Harry Potter è puramente casuale...) che ci fanno col tempo sentire più o meno "adeguati". Chissà perché io in quella limousine anziché godermi lo champagne e le sparate smargiasse dell'autista, dovevo proiettare davanti ai miei occhi, l'immagine disturbante di Pattinson che mi guarda e mi lancia sottili minacce di morte con in mano il libro della E.L. James? Perché? Così, mentre le altre ridevano e si confidavano sulle storie più inconfessabili che sarebbero rimaste segretamente dentro quella limousine, io facevo a botte con i miei pensieri, pensavo a Cronenberg e a quante avrei volute dirgliene. Pensavo a Soderbergh, mentre le altre gridavano alla sposa che presto ci sarebbe stata la sorpresa più grande nel locale dove saremmo andate, e pensavo all'inutilità totale di Channing Tatum. E mi allontanavo ancora di più da loro, fino ad arrivare chissà dove...


Non so cosa mi porti in certe occasioni ad allontanarmi in questo modo, però mi piace vivere ogni singola e anche piccola esperienza, per capire meglio me stessa e gli altri. Tornando a casa, la mattina seguente, pensavo a come potrebbe essere l'addio al nubilato che io, ad esempio, ho scelto di non fare all'epoca. E penso che non sceglierei altro posto che non somigli almeno un po' ad una sala buia, con uno schermo grande. L'unico luogo in cui io mi senta davvero "adeguata"...
(Dopo la casa piena dei miei bimbi, ovviamente)


Non ho l'età...(?)

lunedì 27 maggio 2013

La poesia di Vasco Rossi secondo Antonio Malerba



Quando Antonio Malerba mi parlò del suo libro, ricordo rimasi subito sorpresa e incuriosita, soprattutto per due ragioni. La prima è Vasco Rossi, un nome, un'infinità di ricordi, i più belli della mia adolescenza e ancora oggi il mio amore musicale in assoluto. La seconda ragione è stata l'idea dello scrittore, che ha voluto dare alla musica, ma ancor prima alla "poesia" di Vasco una originale e significativa interpretazione. 

"Ascoltando le canzoni di Vasco Rossi, ma anche leggendone le interviste e gli scritti, si ha la sensazione di una grande coerenza e profondità di significati. Tra i temi più sentiti: il sentimento del finito, la crisi delle verità, la vita come caos, il male di vivere, il valore consolatorio della musica. Il testo si sofferma su questi e altri temi, in un dialogo serrato e stringato con le parole di Vasco. Il testo suggerisce anche un parallelo con le riflessioni di Nietzsche, uno degli scrittori più letti e apprezzati da Vasco". E' questa la prefazione del libro di Malerba, un giovane nato a Terlizzi (Bari) nel 1982, intitolato La poesia di Vasco Rossi. Una interpretazione

Quanto è vero che ascoltando le canzoni di Vasco Rossi, si ha la sensazione di proseguire lungo un preciso filo conduttore che lega e assembla poeticamente e stilisticamente tutta la sua discografia. Per quanto mi riguarda, secondo una personalissima interpretazione, ho sempre creduto che Vasco Rossi riuscisse a dare  forma e musica a tutto ciò che di sfuggevole appartiene all'esistenza in generale. Capivo questo quando ritrovavo in una canzone o in un preciso passaggio tutto quello che non comprendevo fino in fondo, che intuivo appena. Quel tanto che basta però ad illuminarti la mente, ad aprirti infinite strade. La capacità di Antonio Malerba è tutta qui, nell'aver trovato il parallelo più incisivo e stimolante che permetta al lettore e all'ascoltatore di scorgere delle verità molteplici riguardanti la poesia di Vasco. E' bene infatti ricordare che Vasco è un instancabile divoratore di libri, non solo la chitarra e la musica hanno dato al cantante di Zocca, una possibilità di fuga dalla realtà, no. Anche nei libri di Bukowski, di Ginsberg e Kerouac. Pirandello, Proust, Dostoevskij, Tolstoj e il sudafricano Coetzee. E' soprattutto qui che va ricercata l'essenza della sua musica.

"La lettura è sempre stata una delle mie fughe dalla realtà preferite...dopo la musica naturalmente. All'orizzonte c'è sempre quella".
(Vasco Rossi, intervista al settimanale Emme, 2007)

Antonio Malerba, seguendo lo stesso stile stringato e incisivo del cantautore, struttura questa chiave interpretativa che procede su binari comparativi, gli stessi che giungono poi nella visione più illuminata e illuminante che vede l'uno accanto all'altro, il musicista-filosofo e il filosofo-poeta tedesco (innamorato della musica) Nietzsche. Non stupisce che a stimolare la creatività più intima di Vasco, sia stato fra molti, proprio l'informale e provocatorio per eccellenza, il riformatore del pensiero che annunciò "La morte di Dio". Ecco dunque all'orizzonte una più vasta gamma di sfumature e interpretazioni che ogni lettore, nella poesia di Vasco, può apprezzare grazie all'opera di Malerba. Ci si interroga sul concetto dell'imprevedibilità dell'accadere, in un mondo in cui tutto è governato al contrario. Lo dice Vasco e lo disse Nietzsche:

"Tutto va, tutto torna indietro; eternamente ruota la ruota dell'essere.Tutto muore, tutto torna a fiorire, eternamente corre l'anno dell'essere".
(Così parlò Zarathustra, parte terza, Il convalescente)

Ci si interroga sull'illusione di conoscere noi stessi, sull'importanza del corpo secondo la quale, come ribadisce l'autore del libro, Siamo nel mondo come corpo. Si parla della crisi della ragione ed è bellissima l'espressione di Malerba: " la logicizzazione che anteponiamo al mondo è un parto poetico della nostra immaginazione, un'attività metaforica, un atto interpretativo". La stessa che rimanda inevitabilmente alle parole di Nietsche nei Frammenti postumi:

"Il mondo ci appare logico perché noi per primi lo abbiamo logicizzato".

Dopo aver letto il libro di Malerba, si ascolteranno le canzoni e le "parole", soprattutto, di Vasco immaginando al tempo stesso di sovrapporre la sua figura a quella del filosofo tedesco. Sarà così per quanti abbiano colto fino in fondo lo spirito provocatorio e stimolante del libro, per quanti probabilmente si sentiranno da quel momento in poi "scaraventati" in un mondo in balìa di se stesso. Un mondo che va "Al di là del bene e del male", che inventa morali per poi distruggerle. Che si crea da sé il mito per poi rinnegarlo. Che inventa l'aldilà pur di evitare tutto ciò che si trova aldiquà, per fare delle proprie debolezze e delle proprie paure poi, la verità assoluta. Il dolce veleno dell'indottrinamento...

"che tra demonio e santità è lo stesso
basta che ci sia posto".
(Siamo solo noi)

Perché come ricorda giustamente Malerba: 
"6.000 piedi al di là dell'uomo e del tempo...
e su un altro livello rispetto agli altri cantautori"




www.lapoesiadivascorossi.it



venerdì 24 maggio 2013

Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento



E' sempre una piacevole sorpresa a riempirci il cuore, quando sullo schermo è da poco terminato un altro film giunto da Casa Ghibli. Ne ho molti in lista da recuperare, è vero, ma sono ormai certa di una cosa: più scopro questo cinema più lo amo!!!

Come si potrebbe dire altrimenti? Il Maestro dell'Anime stavolta si è fatto da parte, adempiendo il "solo" (si fa per dire) compito di sceneggiatore. Hayao Miyazaki scrive e il novellino regista Hiromasa Yonebayashi, ma già animatore di fiducia di Hayao, dirige questo Arrietty - Il mondo segreto sotto il pavimento. Il risultato è un esordio che rientra con estrema cura nella preziosa gamma di film visti fino ad ora. Prodotto nel 2010 e presentato in Italia durante il Festival Internazionale del film di Roma il 4 novembre 2010, Arrietty è tratto da una serie di racconti fantasy per ragazzi Gli Sgraffignoli, della scrittrice inglese Mary Norton. Questi racconti avevano già in passato ispirato un altro regista, Peter Hewitt, per il suo I rubacchiotti (con John Goodman, quindi da recuperare). Hayao, una volta letti questi racconti, decise di farne un lungometraggio e l'idea iniziale vedeva proprio Hayao alla regia. Ma il maestro avrà avuto le sue buone ragioni, tante da affidare nella massima fiducia, le redini a uno dei suoi "discepoli". Dando uno sguardo veloce al curriculum di Yonebayashi, vediamo La città incantata e Ponyo sulla scogliera, effettivamente posson bastare...


La storia ci porta a Koganei, Tokyo, e siamo esattamente ai giorni nostri, 2010. Nella casa abitata in passato dalla madre, Shō dovrà passare la sua settimana prima dell'intervento al cuore. Questo ragazzino viene disegnato fin da subito con lo sguardo triste che riflette un particolare stato d'animo. Sembra infatti che negli occhi di Shō si intraveda ancor prima della malattia, una grande mancanza, un senso di solitudine profondo. Ecco perché Yonebayashi non aspetta troppo a farci conoscere la piccola Arrietty, un esserino speciale piccolo, tanto da stare nella mano di un bambino. E' chiaro che questa nuova "Memole" sarà la sola speranza per il piccolo Shō di ritrovare quell'entusiasmo di vivere ormai perduto. Il solo problema però è che non tutti gli umani sono identici, per alcuni ad esempio l'idea di catturare uno gnomo potrebbe essere allettante, ed è così anche per la signora Haru, quella che in qualche modo si occupa della casa e del ragazzo, quando la zia è fuori. Arrietty vive sotto il pavimento della casa in cui si trova Shō, insieme alla mamma e al papà. Vi dico fin da subito che, se non resistete alla bellezza dell'oggettistica e delle suppellettli in miniatura, beh, qui c'è da sentirsi male davvero. Giusto per rendere l'idea a quanti ancora non lo avessero visto, immaginate dei francobolli al posto dei quadri e delle spillette per appendi abiti, oppure immaginate questa piccola creatura che raccoglie i suoi capelli con una mollettina per i panni da stendere. Una casa delle bambole bella, esattamente come da sempre appare nei sogni delle bambine. 


Arrietty altro non è che l'ennesima conferma di una concezione di fare cinema assolutamente unica. Al di là dei colori illuminati, della forza dominante della natura incontaminata e di un mondo in cui è possibile davvero vivere di poco o nulla. I messaggi allo spettatore si moltiplicano dal momento in cui la "piccola" famiglia  riesce a vivere secondo un principio insolito del "prendere a prestito", ovvero tirare a campare con quel poco che basta a vedere una tavola modesta apparecchiata per tutti. Con un occhio ben aperto, sempre, sulla diversità, affinché si possa vincere una volta per tutte la paura del "diverso", dell'altro all'infuori di "noi". Con un velo di tristezza per un piccolo cuore malato, ma con una nuova speranza proprio lì, in fondo al quel cuore...
è questa la magia.

Bello come un Monet...

giovedì 23 maggio 2013

Pulp Fiction. Quando il genio indossa la vestaglia...



Nel 1994 Quentin Tarantino dirige Pulp Fiction, il film che avrebbe concluso la cosiddetta "trilogia pulp" iniziata con Le Iene e proseguita con Una vita al massimo (questo diretto però da Tony Scott e scritto da Quentin). Palma d'oro a Cannes e Oscar per la Migliore sceneggiatura originale scritta, ricordiamolo, con Roger Avary. Era complicato replicare un successo enorme come quello dell'esordio, eppure a Tarantino sembra esser venuto così "naturale"...

L'idea di Pulp Fiction non a caso nasce quando il regista si trova in Olanda, ad Amsterdam. E dico non a caso perché sarà proprio l'Olanda, con le sue tradizioni, ad animare uno dei primi interessantissimi dialoghi tra Vincent Vega/John Travolta e Jules Winnfield/Samuel L. Jackson. Si capisce che Tarantino abbia già un marchio di fabbrica ben riconoscibile, infatti la storia si dispiega secondo un ordine cronologico scombinato, con quella trama a intreccio che dà avvio alla storia nella caffetteria Hawthorne Grill. In questo locale di Los Angeles Zucchino/Tim Roth e Coniglietta/Amanda Plummer introducono senza un'apparente ragione il resto della fabula tarantiniana, sarà poi nello stesso Hawthorne che la storia si ricongiunge. Pensare che Tarantino dopo Le Iene aveva intenzione di fermarsi un po', di prendersi una pausa. Ma in questo periodo frullava con insistenza un'idea, quella di fare un corto o meglio un'antologia di corti sul mondo del crimine. L'incipit prevedeva questo pugile e un incontro combinato, parallelamente poi, senza una collocazione ben precisa, un boss che doveva accompagnare per una serata soltanto la moglie del capo (senza sfiorarla ovviamente). Da qui nasce tutto il resto.


Dopo il prologo, si susseguono i vari episodi, che sono tre in tutto: Vincent Vega e la moglie di Marsellus Wallace, L'orologio d'oro e La situazione Bonnie. Del primo come non ricordare la sequenza che ha praticamente immortalato il film nella memoria collettiva mondiale, ovvero il twist di Mia Wallace/Uma Thurman e Vincent al Jack Rabbit Slim's. Sulle note di Chuck Berry e della sua You never can tell (la canzone dei pavesini, si...). Dalle note morbide e fluide di Berry, Tarantino ci porta poi alla situazione più estrema, con Vincent e la sua iniezione complicata per salvare Mia andata in overdose. Senza dimenticare la barzelletta della famiglia pomodoro raccontata da Mia...
Ne L'orologio d'oro fa la sua piccola grande figura Christopher Walken, ma protagonista è il pugile Butch/Bruce Willis. Passiamo dal ring alle coccole della fidanzatina Fabienne nel motel per poi tornare di nuovo alla violenza più cruda, in un negozio di pegni gestito da uno stupratore omosessuale; nel quale finiranno Butch e Marcellus. Nell'ultimo episodio ecco un tizio in vestaglia uscire da una casa a modo, costretto ad accorrere in aiuto dell'amico Jules, piombatogli in garage con un giovane "sfracellato" (accidentalmente da Vincent) sul sedile posteriore dell'automobile. (Miii che ho fatto, gli ho spappolato il cervello - versione Aldo).


Cosa potrei dire di più su questo film che non sia stato poi già detto e ridetto da ogni parte del pianeta? Niente, solo che con questo film il buon Quentin ha detto in largo anticipo al mondo intero che il suo modo di fare cinema poteva e doveva urtare i nervi a qualcuno, ma divertire e far riflettere al tempo stesso. Oppure convincere i più scettici del fatto che attraverso i suoi film, il linguaggio cinematografico avrebbe ricevuto una ventata di ossigeno rinfrescante. Ok, indisponente se volete, ma comunque rinfrescante.
Io non smetto mai di ripetere a Tarantino quanto sia un "fottutissimo genio", capace come nessun altro di mettere in scena una storia assurda e originale, ricca di dialoghi ad un primo approccio di una violenza senza senso eppure così complessi e pungenti. Un sceneggiatura curata fin nei minimi dettagli, che non scivola nella prevedibilità, ma sorprende sempre. Ma Tarantino sa sorprendere nonostante il suo modo di fare cinema sia stato fin da subito assimilato come "unico" e inconfondibile. Perché poi alla fine uno pensa a Tarantino e se lo immagina esattamente così. Come un tizio con la faccia da schiaffi che ti viene incontro in vestaglia e, nel frattempo, in quella testolina pensante, chissà quali altre assurde storie staranno nascendo..
e noi attendiamo, come sempre. 


P.S. Per problemi di ogni tipo, potete chiamare il sig. Wolf...

*E se volete, questa è la puntata dedicata a Pulp Fiction su CriticissimaMente parlando
Pulp Fiction - Undicesima puntata 
(Una puntata più matta che Pulp...)

martedì 21 maggio 2013

No - I giorni dell'arcobaleno



No - I giorni dell'arcobaleno non è un giallo politico, no. Faremmo un enorme torto a Pablo Larraìn se così lo definissimo. Con questo terzo e ultimo capitolo dedicato al Cile nell'era Pinochet, il regista conclude una sorta di osservatorio storico e filmico iniziato nel 2008 con Tony Manero e proseguito poi nel 2010 con Post Mortem. Si potrebbe dire che lo spirito di questo trittico documentaristico segue in maniera regolare l'ordine dei fatti accaduti in Cile, per cui nel primo film si parla dell'inizio della dittatura, nel secondo del momento più atroce e difficile per l'intero paese e in questo No, della fine del regime Pinochet.


Mi piace parlare di No - I giorni dell'arcobaleno come di un coinvolgente racconto per immagini di quella che fu l'impresa di un giovane pubblicitario. René Saavedra/Gael Garcia Bernal è il meno avvezzo alle dinamiche politiche, e si capisce che il regista voglia sottolineare questo aspetto. Sarà che è stato il primo messaggio ad essermi arrivato, forse anche perché rappresenta la parte più simile a me. In fin dei conti ci troviamo di fronte a uno di quei film che richiamano l'attenzione sia di chi ama il genere o anche solo per quanti amavano e amano tuttora i libri di storia. Io rientro nella seconda categoria, e ci tengo a sottoscrivere quanto sia lontana da fede o ideali politici eppure, mentre guardavo il film, quanto avrei voluto partecipare a  quella campagna elettorale...


Siamo nel 1988 e il Cile sta decidendo in maniera democratica le proprie sorti. Un Si o un No, che avrebbe dato a Pinochet un'ulteriore conferma, oppure la fine definitiva della sua dittatura. I leader dell'opposizione convincono questo giovane pubblicitario a darsi da fare nella campagna, per abbattere Pinochet e vincere il Referendum con un NO. René non è il tipico leader, anzi. Non è convinto soprattutto all'inizio e non sa quanto saggia possa essere l'idea di affrontare una campagna così ostica e, ad un primo sguardo, già persa in partenza. Ma Saavedra aveva quel poco che bastava a persuadere l'intero Paese: l'entusiasmo e il senso dell'umorismo. Mentre agli occhi dei membri più "seriosi" le idee di Saavedra apparivano come pagliacciate inaccettabili, la gente cominciava a porsi delle nuove domande. In quei quindici minuti di "spot" che ogni giorno la tv mandava in onda, la gente cominciava a scorgere nuove possibilità, non più le bombe e i cadaveri a terra. Un po' tutti i cittadini erano stanchi di vedere il male, di esprimere i propri voti all'insegna della tristezza e dell'angoscia causata dal terrore. Ecco perché quella campagna impossibile risultò strategicamente vincente, perché aveva dato al popolo alternative e poco importava se queste, apparissero grottesche e poco credibili. Perché i cileni non sono alti un metro e ottanta e nemmeno sono biondi col sorriso smagliante, no. Questo chi guardava lo sapeva bene, ma non gli importava più. Dietro tutto l'entusiasmo contagioso del film, girato con macchine analogiche in formato 4:3, si nasconde però un sottile velo di inquietudine, di amarezza dal sapore di una vittoria "psicologicamente mutilata". Poiché il Cile vincendo questa battaglia ha gettato alle spalle la consapevolezza di una storia scritta sotto "dittatura", ma ha ceduto il posto, senza rendersene (consapevolmente) conto, alla dittatura dei media. Coronando in definitiva il trono della regina manipolatrice per eccellenza. Quella che, per intenderci, ti fa tornare a casa canticchiando "Ciiile l'alegria ya viene", sorridendo senza capirne, in fondo, nemmeno il senso.

Consigliato? Assolutamente SI!!! 



lunedì 20 maggio 2013

Encomium Moriae, quando a parlare è la Follia...



La normalità vuole che la notte sia fatta per dormire, la normalità. Ma mettiamo il caso che né il sonno né altro ci aiutino a legittimare la verità più vera professata dalla normalità...
Ecco, filosofeggiare di primo mattino non è certo da me, e nemmeno è sintomo positivo. Parliamo di cinema solitamente, oggi no. Oggi ho pensato che con la scusa della Letteratura si potesse fare di più, e di questo ne sono certa.  In realtà dovrete solamente subire le conseguenze di una delle mie notti passate a non saper né dormire, né scrivere. E cosa si fa in questi casi? Io non ho molte alternative, due al massimo. Guardo un film, oppure leggo. Sul film sono molto abitudinaria, nel senso che è questo uno di quei casi d'emergenza, allora la scelta del film è terapeutica e ricorro sempre agli stessi titoli. Tre o quattro non di più. Se decido di affidarmi alla lettura invece la situazione si complica, perché mi abbandono completamente all'imprevedibilità del mio stato d'animo. Ecco come si finisce una domenica sera a rileggere passo passo uno dei lavori letterari più influenti della civiltà occidentale (lo so bene), scritto pensate bene, nel 1500. 


22. "Di grazia, chi odia se stesso come potrà amare qualcuno? chi è interiormente combattuto, potrà 
forse andare d'accordo con altri? potrà, chi è sgradito e molesto a se stesso, riuscire gradevole a un altro? Nessuno, credo, lo affermerebbe, se non fosse un pazzo più pazzo della Follia stessa. Pertanto, se non ci fossi più io, lungi dal sopportare il prossimo, ognuno, inviso a se stesso, proverebbe disgusto di sé e delle sue cose. La Natura, infatti, in molte cose matrigna piuttosto che madre, ha posto nell'animo dei mortali, soprattutto se appena più intelligenti, il seme di questo male: scontento di  sé e ammirazione per gli altri. Di qui il venire meno e l'estinguersi di tutte quelle squisite doti che  sono il profumo della vita. A che giova infatti la bellezza, il massimo dono degli Dèi immortali, se  deve esser lasciata sfiorire? A che la giovinezza, se deve intristire per il veleno di senili malinconie?  Infine, in tutti i casi della vita, come potrai agire in modo conveniente nei tuoi o negli altrui confronti (agire come conviene non è solo la prima regola dell'arte, ma di tutta la nostra condotta), se  non ti sarà propizia Filautìa, che a buon diritto tengo in conto di sorella, tanto validamente mi presta  il suo aiuto in ogni occasione? Se piaci a te stesso, se ti ammiri, questo è proprio il colmo della follia; ma d'altra parte, dispiacendo a te stesso, che cosa potresti fare di bello, di gradevole, di nobile?  Togli alla vita l'amor proprio e subito la parola suonerà fredda sulle labbra dell'oratore, il musicista  non piacerà a nessuno con le sue melodie, l'attore si farà fischiare con la sua mimica, il poeta e le  sue muse saranno irrisi, sarà tenuto a vile il pittore con la sua arte, si ridurrà alla fame il medico con  le sue medicine. Alla fine invece di Nireo sembrerai Tersite, invece di Faone, Nestore, invece di  Minerva una scrofa, invece di un forbito oratore, uno che non balbetta neanche una parola; invece di 
un distinto cittadino, un rozzo contadino. Se vuoi poter essere raccomandato agli altri, devi proprio  cominciare col raccomandarti a te stesso; devi essere il primo a lodarti, e non senza una punta di  adulazione". 


Chissà cosa penserebbe oggi Erasmo Da Rotterdam se potesse vedere una folle di ventotto anni affidarsi alla dea più inverosimile che la letteratura abbia mai proposto, anzi che ha proposto egli stesso. Encomium Moriae/Elogio della pazzia (Elogio della follia o anche Elogio di Moro) fu scritto da Erasmo nel 1509 durante il soggiorno a Bucklersbury insieme a Tommaso Moro. Pubblicato nel 1511, questo testo è fra i catalizzatori della Riforma Protestante, dedica esplicita all'amico Moro, e sferzante esercizio di satira provocatoria travestito da saggio. Impensabile, prima di allora, dar parola alla follia. Anche perché nessuno avrebbe potuto prevedere che in un saggio simile, ancora oggi a distanza di secoli, ogni singolo essere umano    vi può scorgere verità assolute e indiscutibili. Sarà che la notte è fatta per dormire e non per cercare risposte in un Elogio folle, ma è pur sempre vero che ognuno di noi trova le sue risposte in base a come le cerca. Io non ho metodo in questi casi, seguo una sorta d'istinto che non cerca la via del legittimo, anzi. La via più ambita è quella di una, seppur spicciola, risposta. Anche se questo significasse fare le due di notte in compagnia di "mamma follia"...


"Vedo che aspettate una conclusione: ma siete proprio scemi, se credete che dopo essermi abbandonata ad un simile profluvio di chiacchiere, io mi ricordi ancora di ciò che ho detto. Un vecchio proverbio dice: "Odio il convitato che ha buona memoria". Oggi ce n'è un altro: "Odio l'ascoltatore che ricorda". 
Perciò addio! Applaudite, bevete, vivete, famosissimi iniziati alla Follia".



sabato 18 maggio 2013

"Sotto un manto di stelle Roma bella m'appare". (E pure gratis!!!)



Torna a Roma “La Notte dei Musei”, la straordinaria iniziativa ad accesso libero e gratuito che dal 2005 si svolge in contemporanea in tutta Europa e giunge nella Capitale per il quinto anno consecutivo, con musei e spazi culturali aperti al pubblico in orario serale e con tanti eventi tra arte, musica, danza, teatro, cinema, letture, visite guidate. Una imperdibile “no stop” di 6 ore, tra cultura e divertimento, che solo nel 2012 ha visto a Roma una partecipazione di 250.000 persone. Questa notte saranno aperti straordinariamente e gratuitamente, dalle ore 20 fino alle 2 di notte, 100 spazi espositivi e culturali, tra musei civici, spazi privati,
biblioteche comunali, accademie e istituzioni culturali straniere, istituti e le case di cultura, siti archeologici della città. Sarà possibile visitare gratuitamente oltre 30 mostre ospitate dai musei interessati, ed assistere a concerti e iniziative in programma, per un totale di circa 200 eventi. I musei statali saranno invece aperti fino alle 24 oppure fino alle ore 01.00.

Tra i numerosi musei e spazi espositivi coinvolti: 
MUSEI CAPITOLINI
CENTRALE MONTEMARTINI
CHIOSTRO DEL BRAMANTE 
COMPLESSO DEL VITTORIANO
MACRO 
MAXXI 
MERCATI DI TRAIANO 
MUSEO DELL’ARA PACIS
MUSEO DI ROMA IN TRASTEVERE 
MUSEO DI ROMA
PALAZZO BRASCHI 
MUSEI DI VILLA TORLONIA 
PALAZZO DELLE ESPOSIZIONI
LA PELANDA
SCUDERIE DEL QUIRINALE 
MUSEO CIVICO DI ZOOLOGIA
PLANETARIO E MUSEO ASTRONOMICO.


In occasione della Notte dei Musei, saranno aperti eccezionalmente al pubblico il Museo Ebraico di Roma, dalle 22.00 alle 02.00, il Complesso Lateranense (La Basilica di San Giovanni in Laterano, il Chiostro, il Sancta Sanctorum, la Scala Santa), fino alle 21.30, e il Carcere Mamertino presso il Foro Romano (fino alle 24.00). In via straordinaria e gratuita per la Notte dei Musei sarà possibile visitare dalle 20.00 alle 02.00
(ultimo ingresso ore 01.00) le mostre Cubisti Cubismo e Niccolò Machiavelli. Il Principe e il suo tempo, 1513-2013 presso il Complesso del Vittoriano, e la mostra Tiziano alle Scuderie del Quirinale. 

Ne segnalo solamente alcune, magari quelle che io metterei assolutamente nel programmino della serata, poi ovviamente vi consiglio di andare sul sito e organizzarvi per bene secondo i vostri gusti ed esigenze.

La Roma Felliniana

-Al Fimstudio a Trastevere sarà possibile vedere gratuitamente: alle ore 20.00 POETI, film di Toni D’Angelo sui poeti a Roma, alle ore 21.20 VICINO AL COLOSSEO… C’E’ MONTI, il documentario di Mario Monicelli dedicato al rione Monti, alle ore 21.50 ROMA di Federico Fellini, alle ore 24.00 VACANZE ROMANE (Roman Holyday) di William Wyler.


-Al Centro Culturale Aldo Fabrizi si esibirà in set acustico TIROMANCINO alle ore 21.00. Federico Zampaglione, voce e chitarra classica, si presenta con una formazione speciale, ideata ad hoc per l'evento, con cui rivisiterà in chiave acustica il suo repertorio, proponendo a sorpresa anche alcune cover di successo. Sarà accompagnato da Stefano Cenci alle tastiere.

-Al Museo dell'Ara Pacis la serata sarà dedicata all'universo dei Pink Floyd con l'esibizione del supergruppo FLOYDIANA (Davide Pistoni - tastiere, voce; Luca Velletri - voce; Phill Salera - chitarre; Fabio Servilio - chitarre, voce; Eric Daniel - sax & flauto; Nicola Casali - basso; Francesco Isola - batteria; Katia Caposotto - voce) che eseguirà brani tratti da i più importanti album dei Pink Floyd (Auditorium 21.40, 23.20, 00.30), e con lo spettacolo di teatro-danza DARK SIDE BALLETT, della Compagnia Echoes, in occasione del 40° anniversario dall'uscita dell'album The dark side of the moon (retro Ara - 21.45, 23.45). 
-Alla PELANDA si svolge il concerto del Coro Mavra, diretto dal M° Piero Gallo, e del Quintetto Ottonidautore: TRA STRAWINSKY E RAVEL, LE ORIGINI DEL '900 MUSICALE (21.00,
23.00, 00.30).
-In piazza del Campidoglio sarà proiettato il film IL MARCHESE DEL GRILLO (ore 21.00). 
-La Casa del Cinema partecipa all’evento con la proiezione del film THE DREAMERS di Bernardo
Bertolucci (ore 21.30) e di DOPO MEZZANOTTE di Davide Ferrario (ore 24.00).

Si insomma, non avete che da "scegliere", dunque sbizzarritevi e godetevi Roma all'insegna del suo immenso patrimonio culturale perché è di una bellezza più unica che rara...
Qui tutte le info e il programma nel dettaglio. 





venerdì 17 maggio 2013

Il grande Gatsby



Talvolta non basta il sorriso radioso e lo sguardo celestiale di un uomo bello come il sole, credo a quel che dico. Così come più passano gli anni più mi convinco che, maggiori sono le attese (nel cinema e nella vita in generale) maggiore il rischio di rimanere delusi. Fatta questa premessa probabilmente già si capisce in netto  anticipo quali siano le mie impressioni generali su questo grande Gatsby rivisitato da Baz Luhrmann

Può un romanzo essere classico e al tempo stesso moderno? Difficile certo, eppure non impossibile, ditelo a Fitzgerald, chissà cosa direbbe lui oggi, del suo Gatsby rivisto in chiave postmoderna dal regista australiano. Dalla trasposizione ad opera di Francis Ford Coppola ne sono passati di anni, era il 1974 e nessuno fino ad oggi, aveva mai pensato di replicare l'impresa. Quando nel 1923-24  Fitzgerald decise di raccontare questa storia, pensò a qualcosa di straordinario, questo è certo. Perché con quella storia semplice e dal fascino irresistibile, legato allo stupore di un "nuovo" modo di intendere la letteratura, egli segnò un'epoca ben precisa e un genere narrativo mai concepito prima. Non appena il nome di Luhrmann venne accostato al grande Gatsby, la mia fantasia già preannunciava uno "spettacolo spettacolare", musicalmente eccessivo e travolgente, dai colori più vivaci tanti quanti gli stati d'animo racchiusi in un grande romanzo. Nick Carraway/Tobey Maguire è colui che si fa narratore e coprotagonista al fianco dell'uomo che dà il titolo al romanzo, così come al film. Jay Gatsby/Leonardo DiCaprio ha esattamente ciò che richiede una rispettosa incarnazione di un personaggio così complesso e romantico. Non sarà stato complicato per Luhrmann pensare a Leo, perché lo conosceva bene, avendolo diretto nel suo Romeo + Giulietta di William Shakespeare, e poi perché dove avrebbe trovato lo stesso sorriso rassicurante e quel paio d'occhi di disumana bellezza? 


La storia parla di una New York degli anni '20, di questo giovane arrivato dal Midwest Americano e di tutto ciò che egli ricordi a proposito di un certo Gatsby. Un vicino insolito, proprietario di un casa lussuosa (che sembra disegnata dalla Disney con tanto di fuochi d'artificio), il quale è solito dare ogni fine settimana delle feste sfarzose, ancor più che regali. C'è qualcosa però che ai più sfugge, dietro la misteriosa figura di un uomo ricco e dal passato oscuro, si nasconde in realtà un uomo soprattutto romantico, di quelli che non abbandonano mai la speranza e che, anche nella nebbia più fitta, intravedono quella soffusa luce verde. In quella luce Gatsby riponeva tutte le sue ragioni, una soltanto in realtà, e portava il nome di Daisy Buchanan/Carey Mulligan. Lei e Gatsby si erano conosciuti cinque anni prima, prima del giorno in cui le loro vite si separarono irrimediabilmente. Il giorno del matrimonio con il ricco giocatore di polo Tom Buchanan/Joel Edgerton. Fu così che il giovane scrittore e azionista in borsa Nick ricevette l'invito direttamente dal signor Gatsby (cosa assolutamente insolita), a partecipare a una delle sue grandi feste. Non un caso certo, Nick e Daisy erano cugini e Jay lo sapeva bene...


Coniugare l'immaginario di Fitzgerald a quello di Luhrmann, ad un primo approccio l'idea è allettante. Perché se pensiamo a tutto ciò che può prender vita dalle pagine del romanzo, è probabile che non si pensi ad altro regista che sia così d'impatto visivo. E' per questo infatti che parlare de Il grande Gatsby rivisto oggi in un contesto postmoderno, ha senza ombra di dubbio il suo fascino. Tentando una sorta di mappa critica, summa dei cosiddetti pro e contro del film, direi prima di ogni altra cosa che il film si fa straordinario e rispettoso mezzo di trasposizione dell'anima stessa del romanzo. E' vero, in quell'America lì regnava il jazz, erano gli anni delle scoperte, delle azioni in borsa, dell'alcol, delle belle donne e delle belle automobili. E in quella New York, che lo stesso Fitzgerald definiva "splendido miraggio", si intravedeva tra lo sfarzo e l'apparente ricchezza un indecifrabile senso di infelicità, o malessere esistenziale (forse anche perché di lì a breve avrebbe fatto la sua entrata in scena la "Grande depressione"). Luhrmann osa sempre, questo si sa, ecco perché al jazz egli sovrappone senza preavviso una track list che compie di colpo un arco temporale abbastanza lungo, che catapulta tutto e tutti ai tempi di JAY Z, di Lana Del Rey, Florence + The machine e così via. Però questo appartiene al regista, è parte di sé lo sapevamo più o meno tutti e ce lo aspettavamo. Per questo, affermare che il film non convinca del tutto, a causa di una mescolanza consona al regista, sarebbe sbagliato, quantomeno non sufficiente. Il problema risiede tutto, o in gran parte, proprio in questa esuberante cifra stilistica del regista, la stessa che poi condanna l'intero film a risultare perfino parodia di sé stesso. Capita infatti di non comprendere fino in fondo il reale profilo di Nick, perché le espressioni di Maguire appaiono inaccettabili, comiche. Si insomma con quel capello e quel fiocchetto che fa troppo il bamboccio di turno, non mi convince affatto. Lo stesso DiCaprio impeccabile come sempre, nulla da dire, però non mi ha rapita fino in fondo. Ripeto, non basta la sua bellezza che qui veramente raggiunge delle vette impressionanti (quando si dice bello come il sole...) ma ci si aspetta quel non so che in più che lascia senza fiato. La Mulligan è fastidiosamente brava così come Edgerton sa rendere onore al personaggio di Tom Buchanan. Ultimo dramma certamente evitabile, il 3D, ma questo si sapeva.


Il film, per concludere, lascia addosso un grande senso di mancanza, di insoddisfazione. Per le ragioni che ho provato a spiegare sopra. Io credo valga la pena in ogni caso la visione, perché si può dire di aver preso parte comunque a un grande spettacolo, seducente e romantico come non se ne vedevano da anni. Forse ciò che ha messo in difficoltà Luhrmann è stata la sua stessa personalità, che per il grande Gatsby magari avrebbe dovuto mettersi un pochino più da parte, non del tutto per carità. Però risulta uno spettacolo eccessivo, non è sempre il Mouiln Rouge, ci sono storie che richiedono a un certo punto quella pausa fondamentale che faccia riprender fiato, che lascia assaporare ogni singola sensazione. E in questo film, di occasioni per far riprender fiato allo spettatore, ce ne sono state parecchie... 

mercoledì 15 maggio 2013

Sleepy Hollow diventa una serie tv (No, e invece si!)




Di fronte a certe "news", che si potrebbero definire simpaticamente "maledette", un buon critico o giornalista cinematografico dovrebbe saper controllare gli istinti più primordiali e, nel suo modesto ruolo affidatogli, limitarsi a fare della notizia il suo unico scopo. Ma, vista la circostanza e vista pure la sede oserei dire abbastanza confidenziale, quale è appunto questo mio blog, posso mandare all'aria l'etica più professionale e sfogarmi liberamente come solo io so fare? Va bene, già sto tirando troppo la corda, perdonatemi. Provo a riorganizzare le idee, ancor prima le emozioni che mi tartassano ogni parte del corpo. Ecco le news maledette, quelle capaci di guastarti l'umore e gettare la tua povera testolina perplessa in un mare di interrogativi fino a farla annegare, schiacciata da un enorme e possente punto interrogativo. E non basta pensare al film di Tim Burton che nel 1999 rese onore al racconto di Washington Irving, no. Non basta questo perché ormai in rete si può prendere sul serio atto di questa folle "impresa sciacalla". - Va bene Vale adesso calmati, sii chiara, che succede? - Succede che la Fox ha messo già in programma per la prossima stagione, una serie tv che rivisiterà in chiave moderna il racconto di Irving "prima" e il film di Burton "poi". A tenere in mano le redini sono Alex Kurtzman e Roberto Orci mentre al posto di quel Depp/Ichabod (binomio per sua stessa natura perfetto) ci sarà Tom Mison (chi?), si ha partecipato a diversi/pochissimi film come One Day, Il pescatore di sogni e...

Ditemi che non è vero...
Vedete, lungi dall'essere una protesta questa, incontrollata e incontrollabile (ma è ovvio che lo sia) mi limito a dire che sono bastati i primi dieci secondi di questo trailer per aiutare me stessa a credere che, tutto sommato, potrebbe essere solo uno di quei bruttissimi sogni che presto o tardi, giungeranno a termine. Ma non sarà così, ecco perché:

*Attenzione, vedere con cautela. Può avere effetti collaterali anche gravi, in tal caso, consultare il medico...


    

Fonte della news bestmovie.it

martedì 14 maggio 2013

The Lincoln Lawyer



Di questo regista, Brad Furman, so veramente poco, anzi nulla. La sola cosa che oggi posso dire è quella di aver visto una buona trasposizione del romanzo omonimo firmato Micheal Connelly. The Lincoln Lawyer (Avvocato di difesa) è infatti un apprezzabile thriller a sfondo giudiziario, proprio perché si muove con occhio vigile e sferzante, sulle pratiche circolanti in aula. 

Protagonista è questo affascinante avvocato difensore, Matthew McConaughey, che attraversa Los Angeles su di una Lincoln targata "NTGUILTY" (non colpevole), con tanto di autista personale al volante. Mickey Haller/McConaughey si presenta fin da subito come quel tipo di avvocato un po' sopra le righe, uno che pur di vincere una causa è capace di sporcarsi le mani, o meglio, delegare vecchi amici di strada per farlo, e poi ricambiare il favore con qualche piccola o grande causa da vincere a tutti i costi. Haller, ex marito della bella Marisa Tomei con la quale ha una figlia (questa procuratore distrettuale, esatto contrario dell'uomo che ha deciso di mollare probabilmente proprio per questo abisso nella maniera di intendere la professione), si troverà di fronte un altro presunto innocente/colpevole da difendere. Il giovane "figlio di mamma", Louis Roulet/Ryan Philippe dichiara fin da subito la propria innocenza, affermando con convinzione di essere stato incastrato dalla stessa escort che lo accusa di violenza sessuale e tentato omicidio. 


A rendere interessante una storia fondamentalmente già vista, è la metamorfosi non solo professionale quanto personale, dell'avvocato spietato e ignaro dell'etica di ogni natura. Più di una volta questi ricorda le parole del  padre, avvocato prima di lui, secondo il quale era evidente come fosse più complicato riconoscere un innocente, un innocente vero. E secondo il vecchio Haller erano proprio quelli i clienti più difficili, gli innocenti. E' così che la tenacia di un grande avvocato, ambizioso e incapace di accettare una sconfitta in aula, inizia a vacillare. Dal momento che, alcuni compromessi con la giustizia non si presentano più come la strada che porta alla vittoria più grande, ovvero la giustizia pulita, senza macchie sulla coscienza, il bell'avvocato entra in crisi. La storia di questo giovane cliente, viziato con la mamma sempre pronta a firmare assegni, riporterà Haller  a un vecchio caso, ed è qui che Furman dà il meglio di sé. La macchina da presa entra e esce dalla coscienza dell'avvocato, emblema dell'uomo messo a nudo dalle proprie scelte, quelle che poi alla fine ti hanno reso l'uomo che sei "oggi". Le sequenze richiamano molto lo stile da serie tipicamente americana, i personaggi svolgono alla perfezione quei ruoli richiesti dal thriller legale e psicologico al contempo. Si ripensa a Richard Gere e a quel giovane presunto innocente che fu Edward Norton in Schegge di paura. "Presto o tardi un uomo che indossa due facce dimentica qual è quella vera".


Questa la tagline del film di Gregory Hoblit, dopo aver visto The Lincoln Lawyer si ragiona sulla propria coscienza, sulla nostra capacità di ascoltare una persona che dichiara la propria innocenza e sforzarci almeno, di comprenderla, in ogni caso. Perché il primo dovere della giustizia, ancor prima di proclamare, dovrebbe essere quello di "ascoltare", passo fondamentale che permette poi, "e solo poi", di giudicare.


lunedì 13 maggio 2013

Effetti collaterali



Quando seppi dell'ultimo film di Soderbergh, e quando capii che la storia trattava un tema piuttosto delicato come quello degli psicofarmaci, pensai subito tra me e me, che avremmo assistito finalmente a un altro grande titolo coraggioso. Un altro, dopo un più recente periodo abbastanza sottotono. La mia mente ingenua  è tornata inevitabilmente a uno dei più coraggiosi film del regista statunitense, quello "forte come la verità" e la sua protagonista, Erin Brockovich. Bene, onde evitare ulteriori delusioni vi dico fin da subito, non aspettatevi qualcosa di lontanamente simile a ciò che Soderbergh fece nel 2000 con quel film. 

Effetti Collaterali sembra avere i presupposti necessari a far parlare di film d'inchiesta, "sembra"... A ben vedere poi rimane soltanto un'idea interessante, forte, ma poco elaborata, se non per niente. L'idea ci piace, la protagonista è una giovane moglie depressa, Emily (Rooney Mara) alle prese con il complicato "ritorno" a una vita normale, segnato dalla scarcerazione del marito Martin (Channing Tatum). La situazione si complica dopo un primo tentativo di suicidio della donna, la quale si convince a (ri)mettersi in cura, seguita dal dottor Banks (Jude Law). I problemi di Emily necessitano di cure e, dopo una serie di farmaci testati e interrotti perché non efficaci, arriva una nuova pillola, l'Ablixia. Sfoltendo i più tipici retroscena da rapporto complesso tra il medico e il/la paziente, Soderbergh sceglie la via più semplice (?) oppure quella meno prevedibile, almeno registicamente parlando. Diciamo che la storia si conclude in un risvolto abbastanza scontato e arriva un punto in cui la visione stanca e appesantisce, proprio perché lo spettatore ha già capito come andrà a finire. Il film si fa thriller interessante e dall'impegno psicologico, quando una notte Emily, "probabilmente" colta da un attacco di sonnambulismo, uccide il marito con un coltello da cucina.


Da qui in poi partono quegli interrogativi necessari a comprendere un problema che oggi si fa sempre più invadente, e che coinvolge sempre più persone, soprattutto donne. La depressione, i farmaci e l'abuso di questi in situazioni ancor più complesse. La fiducia che non può darsi per scontata a quel medico che pur di alzare lo stipendio è disposto a prescrivere una pillola che potrebbe essere letale, in alcuni casi clinici. Le case farmaceutiche che lucrano sul male della gente, questo sarebbe stato il cuore pulsante di un grande film d'inchiesta, perché aveva tutto il necessario per esserlo. Ma Soderbergh non vuole questo, sceglie di intricare la trama con un colpo di scena smascherante non le colpe dei farmaci, bensì quelle che sporcano la coscienza dell'uomo. Qui devo ammettere, il film non si sfilaccia del tutto, anzi. E' apprezzabile da un lato questa scelta del regista, poiché lo spettatore si aspetta il film denuncia sulle case farmaceutiche, e finisce per assistere a un film denuncia sulla coscienza, sulle scelte di ogni singolo essere umano, forse proprio per dire che spesso dietro una pillola c'è ben altro che la ricetta del medico. Dietro quella pillola c'è tutta la nostra vita, il nostro passato, le nostre decisioni e prima di ogni altra cosa la nostra consapevolezza. Seppur messa in grossa difficoltà da una condizione psicologica compromessa, artefice della nostra vita è pur sempre la nostra coscienza. 


Tutto sommato, diciamo che il film non è un disastro totale, e alla fine per chi ama il genere può valere la pena una visione anche in sala (c'è la Festa del cinema, tre euro si può fare dai...). Vorrei concludere riconoscendo almeno un grosso merito al regista, quello di aver fatto uscire di scena abbastanza presto Tatum, che mi è davvero indigesto. Merito che al tempo stesso però mi vacilla, perché vedere Catherine Zeta - Jones come l'abbiamo vista in questo film (non dico altro ovviamente) fa veramente troppo ridere. E ricordo che il film, non è una commedia...


sabato 11 maggio 2013

Quando eravamo giovani, poesia semplice e vagabonda.


Questa mattina, mentre mi dedicavo alla pulizia della libreria in sala, mi soffermo poco più del necessario davanti a un libro. Quel pizzico di tempo in più che basta a rapirti e a interrompere tutto ciò che ti stava impegnando un attimo prima. E' andata così infatti, la sezione Charles Bukowski, collocata tutta a sinistra della libreria, mi ha conquistata ancora. Riprendo dopo tanti anni il primo libro letto di questo autore, quello che chiamo "zio Buk" (lo zio che avrei voluto davvero). Quando eravamo giovani è il primo volume dei tre, contenenti le poesie di Bukowski, un affresco schietto e ruvido sull'adolescenza, l'età delle scoperte. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui decisi di prendere questo, piccolo ma attraente, libro. Ero al terzo anno delle scuole superiori e, mentre il resto della classe si entusiasmava per l'avventura appena iniziata, tra i  codici alfanumerici e le telecomunicazioni, io mi divertivo ad estraniarmi. Si perché dovete sapere che il mio è un diploma da perito informatico, qualcosa che ho odiato e amato al tempo stesso, perché mentre maledicevo l'informatica e la trigonometria, mi innamoravo della letteratura e, del cinema. Era per me fondamentale, vitale, dissociarmi dal resto del gruppo anche perché era l'unico modo per guardarli meglio e capirli davvero. Non avevo a quei tempi il mio eroe letterario, leggevo quasi esclusivamente Stephen King però, e mi piaceva. 

Quel giorno, quando la mattina successiva all'acquisto del libro tornai a scuola, altro non aspettavo che il momento in cui avrei visto il mio professore di lettere, il mio mentore. Gli dissi tutta gasata, "guardi prof. ho trovato uno scrittore che mi piace troppo, lei lo conosce?" Dissi proprio così, e ricordo perfettamente quel sorriso a tremila denti, come per dire a quella piccola ragazzina "Grazie, stai dando un senso alla mia esistenza". Ricordi meravigliosi. Allora non capii il motivo di questo insolito amore esploso per un libro, anche perché era successo pochissime volte anzi, in quel modo mai. Quello che mi colpì in assoluto però lo seppi fin dal primo momento in cui chiusi il libro, quelle erano le storie di un uomo nato per osservare ciò che lo circondava, afferrarne l'aspetto più grezzo, più marcio e farne poesia. Per me era straordinario...

Avevo capito che nelle poesie di quel Bukowski c'era qualcosa di diverso, la sua era una poesia vagabonda, ubriaca e piena di semplicità. Quando eravamo giovani nello specifico, riporta il lettore nell'età della giovinezza, delle scoperte, degli anni in cui quel giovane si mescolava con i fascisti e razzisti, solo per procurarsi da bere gratis (Che cosa diranno i vicini?). Ironico, spietato, romantico ma prima di ogni altra cosa "poeta". Così parlava della sua poesia, ad una giornalista che lo intervistava: "La poesia è sempre la cosa più  facile da scrivere, perché la si può scrivere quando si è completamente ubriachi o completamente infelici o felici. E' un'espressione emotiva che salta su. Non ho pensieri grandiosi , non ho pensieri vasti di natura filosofica. Sono molto semplice, e quando scrivo poesie trattano cose semplici. E credo che per questo tanta gente che per lo più non riesce a leggere poeti, quando legge la mia roba capisce di che cosa sto parlando". Con questo libro io mi sono innamorata di un tipo di poesia assolutamente diversa da quella che proponeva la scuola allora. Ho scoperto un grande scrittore, un uomo che per sopravvivere chiedeva una bottiglia, una donna e una macchina da scrivere...



venerdì 10 maggio 2013

"Genere: femminile". Quando le donne criticano il cinema.



Carissimi, anzi "carissime", oggi vorrei segnalarvi questo concorso di critica cinematografica tutto per noi...

L’associazione Artemedia di Udine bandisce la terza edizione della competizione, rivolta a tutte le donne che abbiano compiuto il 18° anno d’età entro la data di fine concorso. Questo, nato con l’intento di costituirsi come un osservatorio privilegiato delle peculiarità della critica cinematografica al femminile, si rinnova grazie alla collaborazione con il progetto Mediacritica, di Gorizia, il sito web Cinemalia e il sito web Permesola. Le concorrenti saranno chiamate a recensire i film usciti nelle sale cinematografiche italiane dal 30 novembre 2012 al 30 novembre 2013. Si potrà partecipare con un massimo di 3 recensioni che dovranno risultare inedite, scritte in lingua italiana e comprese tra i 2000 e i 4000 caratteri spazi inclusi. La quota di iscrizione è di 15€ per una recensione, 25€ per due e 35€ per tre. La giuria, tutta al femminile, sarà composta da critici e professionisti del settore. In palio 200 € di biglietti cinematografici e la pubblicazione delle recensioni vincitrici sui siti sopra menzionati. Il termine ultimo per l’invio delle recensioni è fissato per le ore 24.00 del 30 novembre 2013.

Bando e form di iscrizione sul sito di Artemedia www.artemedia.ud.it

Per qualsiasi informazione scrivere a generefemminile@artemedia.ud.it

O visitare la pagina facebook di Artemedia

Genere:Femminile
La critica è donna!



giovedì 9 maggio 2013

Big Fish - Le storie di una vita incredibile



Esistono casi in cui una storia arriva all'improvviso, trova dimora nelle mani di un uomo che, quasi l'aspettava. Un'esigenza nascosta, ancora sconosciuta ma estremamente forte, tanto da esplodere in un processo catartico, impensato o forse solamente temuto. E' così che immagino siano andate le cose, quando Tim Burton lesse per la prima volta quella sceneggiatura mandatagli dai produttori Dan Jinks e Bruce Cohen e scritta da John August. Era una storia complessa, originale ma distante dagli schemi classici narrativi. Ispirata al romanzo di Daniel WallaceBig Fish - A Novel of Mythic Proportions, la storia rivisitata da August, racconta le avventure di un padre immaginoso e romantico, chiamato Edward Bloom

La più grande difficoltà in fase di adattamento, è quella di riuscire a mantenere l'originalità della storia senza stravolgerne l'essenza, cercando di mantenere persino le scelte stilistiche che fanno di un romanzo un "grande" romanzo. Big Fish libro era infatti, più di ogni altra cosa, una raccolta di racconti e si correva il rischio di perdere quella coerenza narrativa fondamentale ai fini della comprensione. Così August, abile sceneggiatore reduce del grande successo ottenuto con Go - Una notte da dimenticare di Doug Liman, scelse di sfruttare più punti di vista per raccontare questa storia. I narratori infatti nel film, sono due, Edward Bloom (Albert Finney/Edward adulto e Ewan McGregor/Edward giovane) e Will Bloom (Billy Crudup) facendo così del film il racconto di quella serie di racconti, appartenenti al romanzo di Wallace. Abbiamo usato all'inizio il termine "catartico", e questo viene immediatamente compreso se pensiamo a ciò che parallelamente alla pre produzione di Big Fish, avvenne nella vita reale di Burton. Nell'ottobre del 2000 Burton perde il padre, nel marzo del 2002 la madre e nel 2003, anno di uscita del film, nasce il suo primo figlio. Ecco allora che tutto ha un senso, Burton doveva avere quella sceneggiatura a tutti i costi. All'inizio pensate, questa andò nelle mani di Spielberg perché fu il primo ad interessarsi realmente alla storia. Nel progetto del regista statunitense però era previsto Jack Nicholson nei panni di Edward e questo avrebbe comportato l'uso dello stesso, per il protagonista sia giovane che adulto. Affidarsi alla computer grafica per gli effetti che avrebbero reso l'invecchiamento, non è certo plausibile nel concetto di cinema consono a Burton, infatti l'ipotesi è stata scartata non appena il progetto inizia ad essere diretto dal regista di Burbank.

Quella notte Carl incontrò il suo destino ed io il mio. Dicono che quando uno incontra l'amore della sua vita il tempo si ferma. Ed è vero. Quello che non dicono è che quando il tempo si rimette in moto va a doppia velocità per recuperare. (Edward Bloom)

Dal grande fiume in cui si muove la "bestia", si passa alla storia più reale, quella da cui l'intero film poi si dipana. La storia di un complicato, o forse tra i più comuni, rapporti tra padre e figlio. Si capisce che Will soffra silenziosamente la figura fiabesca di un padre racconta storie, egocentrico se vogliamo ma i più lungimiranti vedranno in Edward Bloom un uomo che ha scelto di sopravvivere scrivendo e raccontando la propria vita, come fosse uno dei più grandi romanzi d'avventura. Will dopo un lungo silenzio, vissuto in Francia lontano dai suoi e accanto alla moglie Josephine/Marion Cotillard in dolce attesa, torna in Alabama dalla madre e dal padre, quest'ultimo ormai anziano e morente. Attraverso tutta una serie di quelli che sono gli espedienti più cinematografici possibili, flashback, punti di vista che si alternano, voce fuori campo e le più personali doti del regista, tra i più visionari che il mondo conosca, viene fuori una sorta di fiaba personale che vive nel punto esatto in cui i sogni dei bambini e la voce degli adulti si incontrano. Già, perché Big Fish in fondo è proprio lì che si può collocare, un padre con un libro in mano, accanto al figlio sotto le coperte e una storia, anzi più di una. Tante, quante ne bastano a illuminare la vita a entrambi, dando le risposte che da sempre cercavano. Will riuscirà a comprendere il padre solamente nel momento più tragico del loro difficile rapporto, quando questi morente gli affida il delicato compito di continuare a scrivere la sua storia. Il mio istinto mi porterebbe a restare ferma su questo che, a  mio avviso, è uno degli aspetti più commoventi del film, perché Burton è Edward ma è al contempo il giovane Will. Burton è il cuore del film...


Ma se così facessi, correrei il rischio di confezionare un pacchetto pesante e troppo personale, dunque vado avanti, nonostante già abbia superato il limite della vostra sopportazione (perdonatemi), spostandomi invece sull'aspetto più affascinante e seducente dal punto di vista visivo, puramente scenografico. Chi conosce e apprezza Burton, sa che con Big Fish avviene qualcosa di nuovo, rispetto alla filmografia precedente del regista. Lontano da sfondi surreali o personaggi da "animare", con Big Fish Burton sperimenta la sua dote più intima e lo fa puntando su tutto ciò che lo contraddistingue. E' uno dei suoi film più "normali", questo afferma lo spettatore e la maggior parte dei critici e al tempo stesso uno dei migliori, il capolavoro assoluto di Burton. Io non la vedo esattamente così, o meglio, anche per me è l'apice della sua carriera (almeno fino ad oggi) ma non mi sento di dire che sia così diverso. Ho sentito dire persino che Big Fish è il meno burtoniano della sua filmografia. Ma scherziamo? Mi sembra così assurdo sostenere una tesi simile, perché penso a tutto ciò che mi fa amare ancora oggi e sempre di più Big Fish. Penso alle sfaccettature psicologiche dei personaggi, alle sfumature che sanno renderli così originali ed eterni. Helena Bonam Carter, anche lei nelle doppie vesti di Jenny e la strega con l'occhio di vetro. Danny De Vito direttore del circo Amos Dolloway e licantropo. Karl il gigante, emblema del diverso tanto grande quanto ingenuo dal cuore puro. Poi c'è il grande Steve Buscemi, ladro per caso e scrittore in crisi esistenziale. 

Cercando in qualche modo un richiamo alle opere precedenti e ad altre, Burton dirige questo affresco che travalica a tratti e dolcemente, il continuo alternarsi che spesso si crea nella nostra vita, tra il reale e l'immaginazione. Chi può stabilire cosa esiste davvero? Può darsi che le nostre perplessità derivino in definitiva, solamente da un difficile modo di approcciarsi agli altri, dalle incomprensioni, dalla mancata comunicabilità che dovrebbe esser tipica degli esseri umani. Scriverei ancora per ore di questo che, ancora oggi, è uno dei pochissimi film capaci di aprire, senza chiedere il permesso, i condotti più fragili e lacrimevoli del mio corpo. Mi travolge, mi seduce e mi commuove anche solo per il fatto che Big Fish, in conclusione, è la favola più importante della nostra vita. La potremmo scrivere noi stessi, magari per evitare di andare dall'analista (come ha confessato lo stesso regista) ed imparare ad esorcizzare i nostri mali, le nostre paure e i nostri legami più difficili. Ecco perché un film può diventare fondamentale, parte integrante di una vita e dell'anima di una persona che è lì e guarda solamente. Nella peggiore delle ipotesi, questa persona, potrà dire di aver assistito all'impresa di un folle, che ha voluto raccontare al mondo, semplicemente con i propri mezzi, il più umano dei rapporti. 
Quello di un padre e un figlio e un'infinità di mondi possibili...

Vi è mai capitato di sentire una barzelletta così tante volte da dimenticare perché è divertente? E poi la sentite di nuovo e improvvisamente è nuova. E vi ricordate perché vi era piaciuta tanto la prima volta... A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale. (Will Bloom)




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