domenica 28 dicembre 2014

La domenica dopo Natale



Che strana la domenica dopo Natale...
La vivi senza sentirla. Non è più sul calendario, probabilmente perché l'hai buttato già via, in fondo l'anno è giunto al termine e questi pochi giorni sai che li ricorderai nell'ordine, senza necessariamente guardare la parete, dove tenevi i vecchi promemoria.

Appuntamenti vari, fogli grandi e piccoli, appunti di ogni genere, che sembrano essere stati scritti da un milione di mani differenti. E invece è sempre la tua, la mano che scrive per non dimenticare mai nulla.
La domenica dopo Natale è carta straccia, destinata a finire nei sacchi sistemati provvisoriamente fuori, insieme ai mille colori delle carte scartate, seguite dalla gioia dell'inaspettato e dalla delusione che non si può manifestare. Non si fa. Si dice "grazie", sempre sempre e solo grazie.

La domenica dopo Natale resta in casa come resta un pandoro con i canditi, che non piace a nessuno. Resta come la confezione regalo con tanto di champagne, che nessuno berrà. Resta come il ricordo di chi non c'è più, da così poco tempo o da così tanto ormai, da non riuscire più a calcolare il senso di quel vuoto.

E poi la domenica dopo Natale piove sempre, e ti devi preoccupare delle cose messe fuori perché non sai più davvero dove metterle. E piove sui pensieri che si ripeteranno identici, gli stessi della domenica dopo Natale di un anno fa, e dell'anno ancora prima e quello ancora ancora prima. 
La domenica dopo Natale guardi l'albero e provi un senso di compassione, tanto da sentirti stanco e vulnerabile, coi giorni contati, come lui. A un passo dall'ennesimo smembramento, ma non vi dannate più di tanto, in fondo è così che dev'essere. E così sarà.

La domenica dopo Natale la guardi dalla finestra, scivola su tutto, sulle coccarde rosse, color oro e verdi, e blu. Sui nastri e i bigliettini che un tempo conservavi, ora non più. E piangono inchiostro che lava via il pensiero di un parente più o meno carnale, il cui legame ogni anno vacilla, sempre di più. Finirà disperso senza più colore, e tu lo sai, e non ti preoccupa più.

La domenica dopo Natale ti riempie e ti svuota allo stesso tempo, ti porta e ti toglie sempre qualcosa. E tu, oltre ad accettare questo andirivieni a suon di luci e colori a intermittenza, continuerai a guardare fuori. Mentre aspetti che passino gli ultimi giorni, taglierai una fetta di quel dolce pieno di canditi che nessuno voleva e imparerai ad apprezzarlo, col cuore a bagnarsi sotto la pioggia, e un occhio rivolto alla parete.


lunedì 22 dicembre 2014

Gone Girl - una critica tiepida



Ieri ho infranto per l'ennesima volta il primo comandamento del buon critico.
Scrivere a caldo di un film, appena terminata la visione.
Farlo quando ancora tutto dentro di te è in fermento, quando le immagini ancora scorrono e quando vengono in mente le parole che avresti voluto gridare in faccia ai protagonisti della storia e non ne hai avuto il tempo, il modo.

In realtà mi sono frenata, poiché di quel pensiero, altro non rimane che uno status pubblicato sulla mia bacheca blu, con a seguito tanti commenti di amici e colleghi piuttosto caldi e tutti molto, molto interessanti.
Bene, oggi è passata una notte dalla visione. Ci ho dormito (più o meno) su, e credo sia arrivato il momento di buttare giù un pensiero non dico a prova di critico, ma almeno non troppo sfiammante come questo:

Reazione a caldo, di ieri.

So che scrivere a caldo, appena terminata la visione, è poco saggio. Lo so perché spesso e sovente mi è capitato di dover spegnere le fiamme provenienti esattamente da lì, e quasi mai il risultato che ne segue poi è anche lontanamente simile alla tanto agognata critica.
Ma come dico spesso. Fanculo la critica!
Non scriverò una recensione a caldo, no. Ma devo, voglio e posso almeno dire che, se non conoscessi affatto Fincher, odierei dal profondo il suo ultimo film tanto quanto io possa odiare ogni disperato e raccapricciante tentativo da parte dell'uomo di manifestare e promuovere ogni qualsivoglia forma triste e incurabile di maschilismo. Ma di quelli pesanti. 
E Gone Girl a una prima Visione sembra sconvolgermi proprio per questo suo assordante e impeccabile grido al mondo e all'uomo nello specifico, il quale deve a tutti i costi guardarsi bene dalla moglie laureata, bella e intelligente poiché un giorno, questa, oltre a succhiarlo come si deve, potrebbe esibire la sua vera verissima natura. Quella della sociopatica omicida e troia fino al midollo.
Ma va bene. Non devo andare oltre. Potrei aver accusato il colpo, cosa che capita spesso. Con Fincher però non era mai successo. 
Ora vado. Sto organizzando una caccia al tesoro per mio marito...shhhh.

Reazione tiepida, quella di oggi.

Oggi qui si fa la critica, mi verrebbe da dire. Ma quando mai, mi verrebbe da aggiungere...
D'altronde lo si deve fare, almeno tentare, no?
Se c'è un regista che non mi ha mai deluso, del quale posso dire di aver apprezzato tutti, e dico TUTTI i suoi film, questo è David Fincher.
Con questa premessa vorrei che voi capiste soprattutto una cosa, che io amo questo regista e al di là del turbamento, considero Gone Girl un altro grande, grandissimo film.
Non ho letto il romanzo di Gillian Flynn, la quale ha curato anche la sceneggiatura del film, ma devo dire che nel complesso è perfettamente in linea con la visione del regista a proposito dell'uomo moderno e dei rapporti anestetizzati e malati di cui siamo ormai portatori sani e assuefatti.
Voi magari vi starete chiedendo come mai io, abbia parlato di film maschilista. Provo a spiegarmi meglio, visto che ieri non ero molto abile con le parole (sì lo so, non che oggi vada meglio).


La storia parte con la mano del marito che sfiora la testa di lei, la moglie. E questi, il marito, in voce narrante, si domanda cosa troverebbe in quella testolina se solo potesse "aprirla" per vedere cosa c'è, e poi si pone le domande che un po' tutte le coppie si pongono dopo almeno cinque anni di matrimonio.
"Come abbiamo fatto a ridurci così. Come siamo diventati quello che siamo oggi e via dicendo".
Il primo sintomo di turbamento arriva qui. La visione inizia nel segno del turbamento. Perché io ho pensato subito: "Ben Affleck nei panni del marito sociopatico? Mmm, mi piace!". Non so voi, ma io ho pensato subito che, come dire, "il cattivo" fosse proprio lui.
E non è che il film sia esattamente il gioco che finisce con "era lui - era lei", no. 
Il film è uno specchio dei rapporti di oggi, soprattutto quelli che vedono marito e moglie intenti a salvaguardare un matrimonio logorato dall'abitudine, dai problemi e quant'altro. La macchina diventa l'occhio indiscreto che fruga nell'intimità di quei rapporti, fino a scoperchiare verità sconcertanti, inaccettabili.

In questo caso si parla di tutto ciò che vi è dietro la sparizione di Amy/Rosamund Pike, la moglie di Nick/Ben Affleck. La mitica Amy, una donna perfetta, la moglie che tutti vorrebbero, la paladina delle casalinghe e degli uomini. Senza cadere nello spoiler, nel rispetto di quanti non abbiano visto il film, provo giusto a spiegare cosa mi ha davvero infastidito del film.
Ribadisco ancora, non dico sia un film maschilista, non è un'accusa rivolta al regista (anche perché il libro è opera di una donna), piuttosto è un pensiero nato nell'immediato post visione.

Fino a un certo punto lo spettatore non sa se lo stronzo assassino è lui, il marito, oppure è lei la matta che ha inventato di sana pianta la storia del rapimento. Perché lui poi si scopre essere un marito infedele, un po' stupido in effetti, "bugiardo" e allora viene naturale far ricadere le colpe tutte su di lui.
Però finché la verità non viene a galla in tutto il suo splendore, lo spettatore cosa sa di questa donna?
- che è bella.
- che è intelligente.
- che è istruita, ha DUE lauree.
- che non ha amiche = è una stronza!
- che passa il suo tempo a leggere libri = oddio tua moglie legge tutti quei libri? - pauuura.
- che ha un certo talento nell'accontentare gli uomini, senza scendere nel dettaglio, dai.

Sono molti i personaggi femminili negativi in questo film. Fatta eccezione per la detective e la sorella di Nick. Lo so che non si può accusare un film di maschilismo, però ho paura della reazione che può scaturire nello spettatore medio. In realtà io ho sofferto anche per lo svolgersi della vicenda così com'è. Al di là del maschilismo. Il fatto è che spesso ci capita di assistere a storie assurde, quelle per le quali arriviamo a dire "no vabbè, ma allora tu sei più matto di lei e te la meriti tutta". Spesso a fare male davvero non è la cattiveria di una persona, che sia lui o lei. Ma come a un certo punto finisce che l'altro, la vittima, diventi complice egli stesso fino a perdere completamente il lume della ragione e con esso la dignità che dovrebbe sempre accompagnarci onde evitare di sprofondare nel buio più sordo e cieco. 


Attenzione pericolo Spoiler!!!
Alla fine non è tanto lei, stronza e "fantasticamente troia". Piuttosto lui, bugiardo e debole, tanto da scegliere la parte stabilita da lei e che, forse, fa comodo a tutti e due. E a quel punto tu che guardi ti senti tradito dall'uomo tuo simile e senti di non avere più scampo. L'unica normale in quel manicomio aperto a tutti è la sorella di Nick. (E la detective).
Per il resto era come vivere in un grosso reality, con la Barbara D'Urso de noantri, giornalisti affamati e telecamere ovunque. Sembrava un sequel dal sapore thriller di The Truman Show...
Finché morte non li separi.

Dio li fa e poi li accoppia, si dice dalle mie parti.


venerdì 19 dicembre 2014

Una è bella l'altra balla



Carissimi lettori, come avrete notato scarseggiano i post in questi ultimi giorni. Inutile stare a sottolineare che: "le recite dei bambini, i regalini ai settemilacinquecentoquarantadue parenti - e che alla zia della zia della zia della zia che vive in Canada, per dire, non glielo fai un pensierino?".

Be' si sa com'è frenetico questo periodo, inutile ricordarlo - speriamo finisca presto!

Oggi volevo proporvi una nuova rubrica, Una è bella l'altra balla. Non nel senso che balla, voce del verbo ballare, no. Nel senso di frottola, minchiata cosmica, stronzata. 
Mi ha colto di sorpresa l'idea, poiché mi sono resa conto che quasi tutti i giorni mi capita un fatto sorprendente. Ovvero di ritrovarmi nell'arco delle ventiquattro ore, almeno due volte, di fronte a:
1) una bellissima poesia, o l'estratto di un romanzo bellissimo, oppure una canzone o un pensiero davvero particolare che io ritengo degno d'essere ricordato.
2) una stronzata megagalattica, figlia di gente comune o più frequentemente nota.

Dunque la rubrica sarà strutturata in questo modo. Prima la cosa bella, poi la balla.
E oggi si comincia così.

Bella - Gabbiani, di Vincenzo Cardarelli (poesia)

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch'essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere

balenando in burrasca.

Balla - No alle donne registe, di Bret Easton Ellis (misoginia acuta fulminante nonché idiozia incurabile)

"C'è qualcosa nel mezzo cinematografico che penso richieda proprio una visione maschile”. 
“Senza contare il lato puramente business del cinema – spiega Ellis – c'è un motivo per cui non esista una versione femminile di Hitchcock, una versione femminile di Scorsese o una versione femminile di Spielberg? Non lo so”.
“Credo sia davvero un medium creato per uno sguardo e una sensibilità maschile. Voglio dire, l'arte migliore è concepita attraverso una neutralità verso l'emotività, il che penso possa essere una trappola per gran parte delle donne registe".

Fonte della news/balla FareFilm.it

Anch'io spesso volo come un gabbiano, e mi pare di sfiorare appena le cose, come loro l'acqua per prendere i pesci, per sopravvivere. 
Meravigliosa poesia del Novecento.

giovedì 11 dicembre 2014

Se mamma m'ammazza



Non avrei voluto affrontare l'argomento, non avrei voluto scriverne. 
Certo ne parlo tutti i giorni, e ci penso. Ci penso di continuo.
Penso a tutto ciò che si dice, penso a tutto ciò che la gente potrebbe pensare e nella confusione più totale finisce sempre tutto nello stesso tragico epilogo.
Una madre che ammazza un figlio.

Diciamo senza indugi che la tragicità esiste a prescindere, che sia una madre da condannare, o un essere umano qualunque. L'omicidio è l'atto più estremo e ignobile di cui l'uomo possa macchiarsi. E punto.

Ma oggi si parla di Veronica Panarello, la madre di Loris.
Non mi va nemmeno di ricordare i dettagli di un fatto tanto orribile, come tanti, troppi altri. Che poi non sono nemmeno una giornalista e non vorrei sguazzare nel mare di competenze e glorie che proprio non mi spettano. 
(Ma chi le vuole, poi?)

Sono una madre però. Ho ventinove anni e ho due figli. E spesso è dura, lo so bene. A volte farfuglio cose strane, mi immagino fughe notturne mentre tutti in casa dormono e mi sembra di lasciare tutto com'è e prendere il volo, per andare chissà dove. Via.
A volte è dura perché ti senti sola, altre perché non hai più un momento per te e vorresti che la solitudine ti travolgesse e ti portasse via con sé. A volte è dura perché le responsabilità sono tante, e vivi nel terrore di sbagliare e nell'ambire alla perfezione, sempre. Costantemente bombardata dalla responsabilità e dalla paura, finisce che a un certo punto "sbotti". Ma il botto spesso lo senti solo tu, e dopo non hai che da raccogliere i pezzi sparsi in giro. Devi rimettere tutto in ordine, come sempre.
Se mi guardo da fuori, da un punto di vista che non è mio, vedo una giovane mamma verso la quale provo come un sentimento di tenerezza e ammirazione al tempo stesso. E in effetti, tolta me, è ciò che provo quando vedo le altre mamme mie coetanee, o ancor più giovani.

Perché se razionalmente ci penso, dico: "cazzarola sono diventata madre a ventitrè anni".
Sì io ci rifletto spesso, e ancora oggi vivo la mia vita con quel senso di sbigottimento generale al solo guardare i miei figli. Al solo guardare me, madre, donna, moglie. E mi dimentico com'ero prima, quasi non ricordo nulla della me non madre. Allora capisco che è la mia vita, che è normale, come quando sogni e non ti ricordi nulla, e tu vorresti recuperare quei ricordi notturni e confusi, ma non ci riesci. E ti rassegni all'idea che forse era un sogno trascurabile, e smetti di pensarci.
La vita ti porta a cambiamenti che quasi mai hai deciso, voluto, o pianificato quanto prima. E diventare genitore è l'esempio più evidente, e se non cambi vuol dire che qualcosa non va...

Non sono una madre severa, anzi molti dicono che ho viziato entrambi i miei figli, e che se sbagliano è colpa mia. Però sono una madre che si incazza spesso, anche per le piccole cose. Ma come insegna la storia del cane che abbaia e non morde, devo dire che i miei figli mi conoscono fin troppo bene e, da grandi paraculi quali sono, mi guardano e ridono. Come per dire: "a ma', sta bona che non te crede nessuno pure se urli come 'na matta". Ed è così. Meglio, peggio, non lo so.
Fatto sta che io, madre imperfetta e urlatrice alla vecchia maniera, quando proprio non ce la faccio più mi chiudo in bagno e conto le mattonelle blu. Oppure prendo la chitarra e mi metto a suonare, pennate forti, ma forti forti da far tremare le tende e poi canto, anche se stono, io canto. Oppure, quando posso, prendo la macchina e vado a fare un giro.

Mi aiuto, e so che questo basta a placare la mia ira e il mio desiderio di fuga. 
Oggi rifletto su queste cose perché mi ha colpito un articolo scritto da Deborah Dirani, e pubblicato su L'Huffington Post, il cui titolo recita "Non esistono mamme buone e mamme cattive".
Era lampante che si parlasse del caso Loris e della madre, per il momento ferma in carcere con l'accusa di omicidio. E la mia curiosità mi ha portato a leggere questo articolo, anche se tra le righe trovavo spesso passaggi per i quali era necessario fermarsi un attimo, e provare a capire il più limpido pensiero dell'autrice.
Be' io ce l'ho messa tutta, ma alcuni passaggi mi sfuggono, peggio, mi terrorizzano.

"Le mamme non sono sante donne votate per natura a stare dietro ai loro figli: imparano a farlo e nella maggior parte dei casi questo le riempie di una gioia talmente grande da rendere sopportabili la stanchezza e la frustrazione che derivano dal rassegnarsi a diventare per sempre schiave dei loro figli".

D'accordo sul primo concetto, le mamme non sono sante. Ok. Ma se io devo credere che la mia vita sia la summa ultima e definitiva della frustrazione e dello schiavismo, no. Non accetto che passi questo messaggio. Mi dispiace che una donna, la quale si consideri prima tale e poi giornalista, arrivi a formulare il suddetto pensiero. Anche perché che senso ha? Il tuo articolo vuole far riflettere il mondo dinnanzi a una storia così agghiacciante, e la cosa ti fa onore, va bene. Ma poi gridi che la maternità è soprattutto frustrazione?
Non è normale.

"Così finisce che un infanticidio diventa più sopportabile per tutte le mamme del mondo se a commetterlo è stata una donna diversa: una donna piena di problemi. Una malata. Una in cui è impossibile identificarsi...". 

Cioè, sta insinuando che io madre non malata e presumibilmente normale, me la cavi così? Ritenendo con sufficienza la madre assassina una povera scema, nella quale è impossibile identificarsi. Dunque il problema è mio, che mi allontano con presunzione da una madre che in fondo non è diversa da me, ma solo più fragile, "più predisposta a"?
Io lo so che non sono invulnerabile, e non avete idea di quante volte io pensi a queste storie terribili e provi rabbia e pena per tutte queste madri disperate, arrivate all'estremo. Ma il fatto che io non riesca a comprenderle e tenda ad allontanarmi, fa di me una donna normale. Allontanarmi è mio dovere perché così facendo mi allontano dalla disperazione, dall'idea che uccidere mio figlio possa diventare un atto terribile sì, ma in fondo comprensibile.
Ma scherziamo?
Io non mi sento ipocrita, no. Mi sento mancare la terra sotto i piedi e mi crolla il mondo addosso. Per una vita spezzata, e per la mano assassina e madre di quella stessa vita.

"Perché i bambini, in fin dei conti, sono gli esseri più inconsapevolmente prepotenti che esistano: sono il centro del loro mondo, è naturale ed è giusto, ma non sempre è sopportabile. La tirannia del bisogno è peggio di quella nordcoreana, le mamme lo sanno, anche se difficilmente accetterebbero di ammetterlo, perché da ogni bisogno che non riescono a soddisfare nasce un senso di colpa devastante".

In fin dei conti quel bambino prepotente lo hai voluto tu. Che poi tu fossi pronta o meno, non puoi non considerare questo. I figli arrivano e ti stravolgono l'esistenza, ma non tanto da volerli ammazzare.
Non possiamo compatirci a vicenda sul desiderio di ammazzare un ragazzino perché prepotente e viziato, e riccioluto
La società non deve compatire e capire queste donne, né qualsivoglia assassino. La società dovrebbe mettere ognuno nella condizione di poter parlare dei propri problemi senza il tormento della vergogna. Evitare è meglio che punire. Se io sono esaurita e non ce la faccio più, se sto iniziando a pensare che potrei far fuori mio figlio, allora devo correre via lontano, da qualcuno che possa aiutarmi prima che sia troppo tardi. 
Io non comprendo una madre che ammazza il proprio figlio, devo sentirmi in colpa per questo?
Io comprendo una madre esaurita che mi dice che non ce la fa più e che vorrebbe scappare e mollare tutto. Sì, quella la comprendo. 
Oltre non vado.
Se a diciassette anni rimani incinta, è bene che tu sappia che puoi decidere.
Forse la società dovrebbe aiutare la donna qui.


Perché se mamma m'ammazza, allora è meglio non venirci per niente, al mondo.


domenica 7 dicembre 2014

Melania G. Mazzucco - Il bassotto e la Regina



Vi ricordate la storia del lupo e dell'agnello?
Be', quella era una "favola", e l'autore è praticamente colui che ha inventato il genere letterario appena citato.
Di Esopo contiamo circa quattrocento favole, storie entrate nella vita di tutti a partire dai tempi di Creso e Pisistrato. E poco importa se fosse brutto come la morte, almeno così dicono, con lui nasce l'arte di raccontare storie che lasciano il segno, metafore e parabole sull'esistenza dell'uomo, sulla virtù e la cattiveria che da sempre ci contraddistinguono.

Le favole diventano spesso modi di dire, le assimiliamo e le facciamo nostre, le prendiamo come esempio quando magari non riusciamo a spiegare un concetto particolare, ricco di sfumature.
(La volpe che non arriva all'uva dice che è acerba).
Per me la favola è questo, il modo migliore di raccontare la vita. Sia essa meravigliosa o terrificante.

Melania G. Mazzucco in queste cento pagine riesce a raccontare una favola per grandi e bambini, laddove l'amicizia e il coraggio, la lealtà e la costante ricerca della libertà, fanno degli uomini e degli animali un universo unico governato dagli stessi principi.
Platone è un cane da salotto. Un bassotto che ama passeggiare, amico del mondo e degli uomini. Platone come il filosofo, sì. La sua normalissima vita da bassotto, vissuta in compagnia di Yuri (studente di filosofia con gli occhiali perennemente appannati), suo fedelissimo compagno umano, viene però stravolta dall'incontro con una Regina...

La Regina è un levriero afghano, bellissima ed elegante. Platone se ne innamora perdutamente, ma conquistare il suo cuore non sarà facile.

Dal traffico illegale di animali, tenuto nascosto nel buio di una cantina e gestito da un tatuato (cranio rasato e muscoli da sollevatore di pesi) si percorrono le vie che spesso portano alla convivenza delle specie più dissimili. Uomini e animali, ad esempio. Chi dietro le sbarre di una gabbia ingiusta e asfissiante, chi dietro il volo leggero di un messaggero libero e fedele (nonché narratore della storia), oppure dietro la saggezza centenaria di una corazza rara e bellissima (la signora Leo, una tartaruga), dietro la furbizia di una scimmia che conosce bene gli uomini (suoi simili), ognuno di questi personaggi/animali, incarna una virtù estranea agli uomini.
Ed è questa la bellezza della favola scritta dalla Mazzucco.
La compensazione. 

Il lupo di Esopo pur di salvaguardare il suo fine, trovò un pretesto che gli permettesse di mangiare l'agnello. L'uomo ancora oggi tenta disperatamente di giustificare azioni indegne, quelle che non lo fanno dormire la notte e lo portano a sbagliare ancora, il giorno seguente.
Eppure, nel mare marcio navigato dall'uomo misero, c'è ancora qualcuno in grado di parlare la lingua silenziosa e assordante di un bastardo qualunque. 
Seppur nella favola non dovesse esserci lieto fine, l'uomo, per mezzo di essa, può dirsi migliore.
E a volte questo basta.

"La forma è solo un'apparenza, e non ha davvero importanza. Quando mi chiudo nella mia mente, e mi abbandono al ritmo segreto del mondo, posso lasciare il mio corpo come il bruco lascia il suo bozzolo per farsi farfalla. E io, che sono pesante come la terra, i sassi, e gli alberi, posso volare via come se fossi cenere, o scintilla di fuoco. Allora vedo nel buio e sento nel silenzio".

(La Signora Leo, una tartaruga leopardo).


giovedì 4 dicembre 2014

Joe Brainard - Mi ricordo



A metà tra il diario personale e l'esercizio mnemotico, il libro di Joe Brainard è un sincero e intimo excursus che va dalla vita inconfessabile di un artista, alla storia dell'America degli anni '40, '50 e '60.
Scritto tra il 1969 e il 1973, Mi ricordo rievoca non solo i pensieri individuali e propri dello scrittore, bensì quelli di un'intera generazione, fatta di pittori, icone della musica pop e del cinema di quegli anni.

Senza rispettare un'asse temporale o spaziale, lo scrittore ci porta nelle viscere di quei pensieri grezzi, attraverso i quali si toccano più mete geografiche, passando per New York, Boston e Tulsa.
Ma alla fine si torna sempre lì, nel cuore di quei pensieri un po' goffi ma come pochi altri in grado di immortalare i dettagli di una vita. La famiglia, il cinema e la tv, il cibo e gli oggetti più in voga e oggi in disuso.

"Mi ricordo l'unica volta che vidi mia madre piangere. Stavo mangiando crostata di albicocche".

"Mi ricordo discussioni infinite con Pat e Ron Padgett e Ted Berrigan, dopo aver visto La dolce vita, su che cosa poteva significare tutto quel simbolismo".

Le confessioni sulla propria omosessualità ("Mi ricordo che mi odiavo perché non rimorchiavo i ragazzi che probabilmente avrei potuto rimorchiare per paura di essere rifiutato" - "Mi ricordo le prime esperienze sessuali e le gambe molli. Sono certo che il sesso ora sia molto meglio, ma mi mancano parecchio le gambe molli"), i sogni ad occhi aperti svelati e le espressioni d'uso comune ("Perché sì, punto").
Nonostante Brainard fosse un artista versatile, esploso giovanissimo (aveva iniziato ad esporre le sue opere quando ancora era alle elementari e iniziò a scrivere questo libro all'età di ventisette anni), passò gli ultimi quindici anni della sua vita lontano dalla produzione artistica. Brainard morì di AIDS nel 1994, aveva cinquantadue anni.

Chi si avvicina solo oggi a Brainard, come me, ha la sensazione di ammirare un collage indefinito, frammentario eppure così ricco di poesia, di malinconia e bellezza. Si guarda la vita di un uomo, come se questi avesse in qualche modo predetto il proprio destino. 

"Saprò sempre, eppure non saprò mai davvero. Farò quadri meravigliosi, ma non farò mai ciò che voglio. Imparerò a comprendere e accettare la vita, ma non saprò mai perché. Amerò e farò l'amore, ma saprò che potrebbe essere meglio. Sarò intelligente, ma saprò sempre che ci sono un'infinità di altre cose da imparare. Sono condannato, ma non posso cambiare".

Dalla prefazione di Paul Auster, Joe Brainard - Self-Portrait on Christmas Night.


martedì 2 dicembre 2014

Francesco Piccolo - Momenti di trascurabile felicità




Trascurabile: Di cui si può non tener conto. 

Se c'è una cosa di cui l'uomo possa dirsi veramente "capace", è l'arte di non sapersi tenere da conto le gioie piccole e certe della vita.
E quale miglior gioia da trascurare, se non la felicità?
Mettiamoci pure che la felicità è difficile da riconoscere eh? Perché quasi sempre quando capiamo di essere felici pensiamo al passato, ed è così, non puoi sfuggire a questa severa legge della vita. Ti è concesso essere felice, ma non ti è concesso capirlo mentre lo sei. Puoi ricordarti di quella felicità, ma non puoi afferrarla mentre c'è.
E Francesco Piccolo compie una divertente e nostalgica impresa, una sorta di viaggio alla ricerca delle piccole gioie perdute, dimenticate, trascurate.

Come l'acqua quando hai sete, per dirne una, oppure il letto quando hai sonno.
Ci avete mai pensato?
In realtà ci state pensando solo ora, perché lo avete letto, come me. 
Così, oltre a riflettere sulla felicità irrilevante (ma anche no), ti ritrovi a capire quanto sia importante il ruolo di uno scrittore. Di un individuo di cui si può dire "è matto" oppure "fortuna che esiste!".
Perché uno scrittore arriva laddove vorremmo tutti, arriva a porsi quelle domande di cui spesso ci vergogniamo ma che al tempo stesso vorremmo gridare in faccia a tutti. Ti porta a sconfiggere la solitudine e addirittura ti fa sentire "normale". E tu trovi la pace con te stesso e dici "ma allora non sono matto/a!", allora queste sfumature non le colgo solo io, questa storia riguarda anche me, anche lui, e di conseguenza tutti.
(Anch'io odio le previsioni del tempo, anch'io preferisco bagnarmi piuttosto che usare l'ombrello, anch'io penso alle cose belle, ai miei momenti di felicità trascurabile, quando mi annoio. E non capisco perché, ma so che è così e basta).

- La sigaretta davanti al cinema, lo sguardo assente e i momenti più significativi del film che scorrono nella testa.
L'ho fatto anch'io!
- Quando compri le caramelle alla frutta e mangi prima quelle più buone, e finisce che rimangono quelle gialle e quelle arancioni. SEMPRE.
L'ho fatto anch'io!
- Quando ti chiudi nei bagni degli altri, amici o conoscenti, e vieni colto dal desiderio improvviso di curiosare tra i prodotti che usano.
L'ho fatto anch'io!
- Soffiare il pane quando cade a terra.
L'ho fatto anch'io!
- Lasciare per un sacco di tempo le lattine di Coca-Cola aperte e mezze piene nel frigorifero,senza berle e senza buttarle.
L'ho fatto anch'io!

La prima e l'ultima pagina di un libro. Togliere il cetriolo dal cheeseburger. Gli sms dopo le undici di sera che dicono:"dove sei?", che significano molto di più di quello che dicono.

Quando un libro ci mette nella condizione di "riconoscerci", vuol dire che non mente. 
Ma anche se così non fosse, a chi importa?

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