Il cinema sta tentando, in questi ultimi anni, di riportare in superficie uno degli spaccati più tristi e terrificanti della storia dell'uomo. Lo sta facendo e direi anche bene, se non altro oggi, nell'era di "feisbuk" e della gloria di un mi piace, tornare a riflettere su un concetto così lontano, come quello della libertà, ci rende per un attimo uomini e donne più "grandi".
Lo ha fatto Steven Spielberg, con il suo Lincoln. Lo ha fatto Quentin Tarantino, alla sua maniera, con Django Unchained e si torna a parlare di quella oscura fetta di storia americana anche in The Butler - un maggiordomo alla Casa Bianca, di Lee Daniels.
Il regista inglese Steve McQueen, dopo aver affrontato i disturbi di Brandon Sullivan in Shame (2011), decide di portare sullo schermo l'autobiografia di Solomon Northup.
12 Years a slave, questo il titolo originale del film, ci riporta nel 1841, a Saratoga, nello stato di New York. Qui vive un uomo di colore, libero e violinista di talento. Una moglie e due figli, una vita dignitosa, quella di un uomo "libero"...
L'incubo di Solomon Northup inizia con l'inganno di due presunti artisti, i quali gli propongono una tournée presso la loro compagnia circense. Da Washington e dalle prime catene, si ritrova in Louisiana. Solomon qui non è più un uomo libero, solo uno schiavo da vendere. Non è più Solomon, è Platt. Non è più un uomo istruito, perché per uno schiavo saper leggere e scrivere potrebbe significare la morte. E la disperazione, quella che contraddistingue i peggiori incubi, invade lo schermo sequenza dopo sequenza. Tra le luci dell'alba e del tramonto, tra le urla di una donna oggetto del desiderio malato, di uno schiavista violento. E cosa ci si può aspettare da un Michael Fassbender, se non l'ennesima dimostrazione di un talento dannato, maledettamente all'altezza, in tutto ciò che fa. Edwin Epps è un uomo in grado di suscitare odio e rabbia fin dal primo momento in cui lo si guarda negli occhi. Quegli occhi freddi e impenetrabili...
La visione del film si carica di emotività e sofferenza, non appena si ricordi che quella storia non è frutto dell'immaginazione di un regista. No. E' una storia vera, tutta quella violenza non è cinematografica, è reale. Steve McQueen fa qualcosa che probabilmente non rende il suo film un capolavoro, ma assolutamente in grado di smuovere chi guarda. Ricordando che la storia racchiude in sé parentesi atroci e difficili da dimenticare, dunque è fondamentale conoscere, capire cosa è stato lo schiavismo e cosa ha significato. E la sua padronanza registica, la sua intelligenza così come la sua delicatezza che si fa spietata in alcune sequenze, fa di 12 anni schiavo un film libero dalle cosiddette "paraculate registiche".
Sì, perché un primo piano lungo due minuti sul volto di un uomo disperato, non può considerarsi eccessivo e mirato alla lacrima. Cosa vuoi che faccia un uomo divenuto oggetto e privato di tutto, ballare il tuca tuca nei campi di cotone? E poi come si fa ad esser così pigri e indifferenti a certe cose? E' come ammettere la nostra indifferenza, il nostro egoismo assoluto che ci fa sbuffare di fronte a storie che non vogliamo ascoltare. McQueen rende poetica la barbarie e l'indifferenza dell'uomo, ti toglie l'aria e nel frattempo ti seduce con la luce e l'arte delle immagini che scorrono. Penso a quella interminabile sequenza dell'impiccagione, una vita appesa a una corda maledetta. E da sfondo l'indifferenza degli altri. Le donne e gli uomini che continuano a fare, come se lì davanti ai loro occhi, non ci fosse un uomo morente, appeso a una corda. I bambini che giocano e tu che guardi su quella poltrona e non ti dai pace. Uno dei momenti più difficili, insostenibili quasi, di tutto il film.
(Per non parlare della disperazione di una madre che si vede portare via i propri figli. E la battuta terribile, della moglie di Epps: "una volta mangiato e riposato, avrai dimenticato i tuoi figli".)
Al di là delle nove nomination agli Oscar, io ritengo che, 12 anni schiavo sia un film tra i più duri e affascinanti che abbiano raccontato la schiavitù. Considero le interpretazioni degli attori tutte incredibili, su tutte quella del protagonista Chiwetel Ejiofor/Solomon. Il già citato Fassbender, ma non dimentichiamo Lupita Nyong'o/Patsey. E non dimentichiamo Benedict Cumberbatch e Brad Pitt, quest'ultimo anche produttore del film. Ci tengo a dire, a proposito di Pitt, che del suo piccolo contributo sono rimasta sorpresa. Il suo personaggio seppur in poco tempo, riesce a dare una scossa leggera ma fondamentale alla vicenda e alla storia di Solomon. Senza stare a rivelare troppo, ma è incredibile come il solo momento di apparente calma per il signor Epps, sia racchiuso proprio qui. Il discorso di Samuel Bass/Pitt è come un'illuminazione, per lo spettatore, per Solomon, e riesce a destabilizzare per un attimo anche lo stesso Epps. Da qui si inizia ad intravedere la luce della speranza, la possibilità di salvezza, di ritorno alla vita.
Non vorrei, e non devo, dimenticare un altro aspetto significativo del film. Ovvero le musiche di Hans Zimmer. Credetemi se vi dico che per un attimo, ho creduto di trovarmi in uno stadio mai raggiunto prima. In un limbo senza via d'uscita. Una musica forte, che non lascia scampo e mette l'accento sulla disperazione.
E per riprendere la mia piacevole sorpresa riguardo al personaggio di Pitt, io concluderei così:
"Le leggi cambiano, le verità universali restano". Resta soprattutto la disperazione di quegli uomini e di quelle donne resi schiavi, privati di tutto, da altri uomini. Simili nell'aspetto, ma bestie inaccettabili. Rimane il rumore delle corde di un violino che grida, con la speranza che qualcuno lo ascolti. Nell'aria, nei fiori di cotone e nell'inchiostro su un pezzo di carta. Un film che si guarda a fatica, e non perché non sia ben fatto, tutt'altro. Ti fa odiare l'uomo, poi te lo fa compatire, per poi amarlo nel tentativo di dimenticare una storia che non avresti voluto ascoltare. Ci si chiede se mai una volta, nella nostra vita, abbiamo provato la felicità indicibile, di un uomo che si sente libero.