venerdì 23 gennaio 2015

Puncture

 
 
Oggi parliamo di Puncture, un film del 2011 diretto da Adam e Mark Kassen, presentato al Tribeca Film Festival e giunto qui in Italia, vergognosamente, solo in formato digital download.
Prenderei già questo come un buon motivo per recuperare il film, ma non esiterei a dire, e infatti lo dico, che a volte è sufficiente una storia considerevole, e una grande, grandissima prova d'attore.
 
Chris Evans non è solo il Capitano Rogers, tra l'altro Puncture esce nello stesso anno del film diretto da Joe Johnston e dedicato per l'appunto al primo vendicatore. E la piacevole sorpresa poi, di constatare capacità attoriali che andassero ben oltre quella commedia che non è, così dicono, un'altra solita stupida commedia americana. A dire il vero la sorpresa si ripete identica, come quella volta in cui vidi Chris Evans con tanto di barba e cappellino in testa, su un treno spedito a tremila all'ora nel pieno di una nuova era glaciale. Dopo Snowpiercer infatti, ho capito che un grande attore può permettersi di dare contributi diversi, che non lo leghino in eterno al supereroe che tutti amano e acclamano.
 
 
Puncture è più di un dramma legale, lo considererei piuttosto un dramma personale legato alla solitudine di un uomo. Un avvocato giovane e in gamba, di quelli però troppo fragili e per questo incapaci di vincere la causa più importante, quella contro l'avversario più forte e spietato: la vita. Mike Weiss/ Chris Evans fa uso pesante di stupefacenti, paga puttane per non sentirsi solo, e vive puntando tutto sull'unica ambizione che possa concedersi, rischiare di perdere pur di agguantare la vittoria. Ha un alligatore in casa, una moglie arrivata a chiedere il divorzio armata di pistola e in preda all'esasperazione, nei suoi confronti non si può che provare rabbia e compassione.
 
Il film è basato su una storia vera, ed è dedicato proprio a Mark. Un drogato, pazzo, intelligente, amico, avvocato, un uomo solo.
Si parla di siringhe, ed è questa la causa presa in mano dagli avvocati Weiss e Danziger (interpretato da Mark Kassen). Soci e amici, ma non al punto da permettere all'altro, Danziger, di capire fin dove arrivasse la solitudine e la tossicodipendenza del suo compagno in affari. Un'infermiera si ferisce accidentalmente con un ago infetto, contraendo l'HIV. Un ingegnere medico ha in mano qualcosa che potrebbe cambiare definitivamente la sanità, riducendo al minimo incidenti come questi e di conseguenza le numerosissime morti tra i dipendenti sanitari. Ma ovviamente gli ospedali rifiutano una simile offerta, voltando le spalle alla sola ed unica possibilità di evitare morte, a vantaggio degli interessi delle grandi case farmaceutiche.
 
Un caso decisamente grande, difficile, ma Weiss non vuole mollare, nonostante la dipendenza continui a peggiorare le sue condizioni fisiche, nonostante la fiducia del suo socio sia sempre più debole. Mike a un certo punto si ritroverà da solo persino nella causa degli aghi sicuri, quella per cui sta dando tutto, almeno, tutto di quel poco che ha.
Di Weiss resta impresso il suo modo di essere così sopra le righe, la sua debolezza e la sua tenacia insieme. Le sue prove generali prima di andare in aula, e solo chi ha visto il film può capire davvero...Resta soprattutto lo sguardo di un avvocato davanti a un giudice, lo sguardo a cercare dietro di sé l'approvazione della donna per la quale bisogna fare giustizia.
 
 
A tutti i costi, anche se questo dovesse significare cercare la luce nei posti più bui, apparire banali perché si vuole disperatamente ambire ad essere un uomo migliore, incapace tuttavia di cambiare sé stesso, ma in grado, forse, di cambiare il mondo. 
 

mercoledì 21 gennaio 2015

Di normalità e vitamine volanti



Sono giorni questi, in cui mi viene da pensare alla vita e a cosa sia normale.
Normale come bere quando si ha sete, chiudere bene il cappotto quando si ha freddo.

La normalità è un concetto piuttosto complicato e sfuggente, al contrario di quanto il suo significato più convenzionale possa lasciare intendere.
Chiedersi cosa sia normale oggi, nell'era dei social e degli stati d'animo stesi in bacheca, porta a delle risposte in grado di rimettere tutto in discussione. Siamo i frutti del progresso e le orme lasciate dai passi giganti e frenetici della tecnologia, quella enorme galassia sempre in fermento, pronta a soddisfare e a condannare al tempo stesso tutti i nostri bisogni. Primari o effimeri che siano.

I giorni come questi, quelli in cui pensi a tante cose insieme, di solito si contano su più di due mani, e da giorni diventano periodi, momenti. Sono quelli che io amo definire "periodi boh", quelli in cui nulla ti è chiaro e tutto si manifesta davanti ai tuoi occhi, con un'arroganza e una naturalezza tale da metterti in imbarazzo, da schiaffeggiarti senza nemmeno darti il modo di  capire quale sia delle due, la guancia che fa più male. Quella più rossa, quella ancora calda, ma lì per lì non lo sai, non lo capisci. 
Io mi trovo nel mezzo di questo periodo, e non è la prima volta, e non sarà nemmeno l'ultima. Trovare delle linee guida che sappiano accelerare i tempi di questo enorme e destabilizzante "boh", è impossibile. Rimane piuttosto la possibilità di accettarli, di viverli come pause necessarie alla crescita, al miglioramento anche. Perché una volta usciti da questi periodi boh, non si è mai identici.

Mi viene in mente una battuta di Matthew McConaughey, Ron Woodroof nel film Dallas Buyers Club, quella in cui anche un uomo abituato a cavalcare tori, fiero del suo cappello da texano, si domandi cosa sia una vita normale. E cosa avrebbe significato viverla davvero, nel suo caso specifico e tanto drammatico. E quelle a cui ci abitua il grande schermo, sono vite per nulla ordinarie, non come le nostre.
Voglio dire, alcune storie sono state scritte apposta per arricchire la nostra conoscenza, per andare a colmare, nel bene o nel male, quella instancabile voglia di scoprire tutto ciò che sfugge all' abitudine. Alla nostra vita così normale.
Eppure mi sembra di afferrare il senso delle sue parole, nonostante la mia vita sia così distante da quella di Ron Woodroof.
Perché?

Forse perché in questi giorni mi viene quella strana voglia di fare cose banali, quelle che per abitudine dimentico, e poi imparo ad amare, nei periodi boh.
-Boh.

Sinceramente non so dirvi che senso abbia ora parlarne, scriverne.
Forse sento solo il bisogno di dire a voi che, se le pagine restano bianche e aggiornate senza costanza, né criterio, altro non è che il sintomo di questa strana esigenza di vivere la vita così com'è.

Vivo le mie giornate senza voglia di scrivere, condividere, aggiornare status o comunicare quel giornaliero "mi sento", oppure "sto guardando". Il computer messo via da giorni, il telefono che ad un tratto torna a fare il telefono. Chiamare e rispondere. Rispondere e chiamare.
Al massimo un sms.
Vedere un'amica e invitarla a prendere un tè. "Magari ci sentiamo su facebook".
Eh no. No! No! Al diavolo facebook.
Vediamoci. Parliamo. Stiamo insieme.

Durante i periodi boh poi mi capitano cose curiosissime, tipo rivedermi in tutto ciò che io contestavo dei miei genitori, mia madre soprattutto.
Esempio: sono cresciuta con la storia della spremuta d'arancia e delle sue vitamine volanti, per cui:"Bevi subito altrimenti tutte le vitamine volano viiia!". Ok mamma. E tu lì che tracannavi un litro di spremuta per farla felice. Però alla fine andava bene così, era normale.
Be', oggi lo faccio anch'io con i miei figli.
E un po' mi fa sorridere, e un po' mi piace.
Che vi devo dire, colpa del mio periodo boh, e di tutti i boh che verranno.

Ma a volte la normalità ti rende così...NORMALE, che quasi ti ci affezioni.

"Luca bevi la spremuta, su, prima che volino via tutte le vitamine".
"Mamma perché volano via?".
"Lascia fare, è una lunga storia...ma fidati, è così".


martedì 13 gennaio 2015

Ed è subito mezzogiorno



Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera. 
Non so perché continui a guardarmi, a cercare in tutti i modi la mia attenzione, già di suo sconnessa, fitta di pensieri latenti. Vanno di fretta anche loro, a quest'ora del mattino tutto corre e non vorrebbe affatto, che così fosse.
Non vorrei nemmeno dartela vinta, e guardarti. Ancora, e ancora.
Ma poi ti guardo, per ricordarmi che devo fare in fretta, corro in un perimetro tanto piccolo che potrei chiuderlo e metterlo in tasca. E invece continuo a circumnavigare questa casa, concentrandomi per lo più sull'ambiente che prende la sala e la cucina. E giro senza nave, senza mezzo che sappia illudermi che il tempo non conti, che non fa quel rumore assordante, che non è perversa come sembra, quella stronza malefica di una lancetta.
"Tic e tac, tic e tac, tic e ancora tac".
Ti odio.
Impresa ridicola, sfiancante. A metà tra l'ordinario e l'impossibile.
Mi volto contro la mia volontà, sfidando il collo in torsioni impraticabili, e di nuovo ti guardo.
Nella tua perfetta e dannata rotondità, stesa sul muro color avorio spugnato e toccato dal sole.
Questa è l'ora in cui dalla finestra entra una luce smagliante, invadente al punto giusto, senza esagerare scalda ogni cosa. Il sole d'inverno è proprio così.

E saltello qua e là, con un occhio ai fornelli, l'altro ad aspettare il momento fatidico della mattinata. Come un tic, un vezzo che non ho cercato.
Sbrigo tutto ciò che tu mi rammenti, cercandomi con sfacciata ostinazione, tra un tic e un tac.
Ma per chi mi hai preso, per la tuttofare dei tuoi ghiribizzi?
Tu vuoi i miei occhi e la mia attenzione, vuoi che accosti la tua presenza ad ogni gesto o pensiero della mia giornata. Credi forse che, se così non fosse, mi scivolerebbe tutto addosso e perderei la cognizione dello spazio e del tempo attorno a me?
Be' ti sbagli di grosso.
Ho tutto sotto controllo, sai?
In casa ora l'aria rinfresca e rigenera i pensieri, accarezza i letti, le lenzuola e i cuscini. Ha un non so che di celestiale. Me ne accorgo osservando il mio gatto.
Dalla camera, con fare felino e fiero, si sposta e sceglie la posizione perfetta. Quella in cui il corridoio si incontra con la sala, e il pavimento, nella sua trama a rombi color salmone, sembra il punto del mondo più illuminato, un'oasi.
E i gatti non scelgono mai un posto a caso, e se si spostano è perché ne vale davvero la pena.

Sembra proprio che tu non mi creda.
Chiudo il gas e mi lascio consolare dal profumo di un sugo avvolgente, morbido.
"Mamma io pasta in bianco".
"Mamma io pasta al sugo".

Continuo a pianificare la mia crociata domestica, rivedendo ogni punto, cercando di non deludere i gusti dei miei piccoli uomini. E tu mi guardi ancora, mentre la casa è vuota e io approfitto della mia solitudine.
Ma sì, so cosa vuoi dirmi.
Tra poco la mia bolla arriverà in alto, su su su fino a toccare il massimo consentito dalla fisica e dall'aria.
E poi "puff", svanirà nel nulla e tu ribadirai il passaggio, cruciale, crogiolandoti nella tua pensata autorità da Re delle mie mattine.
Stavolta sbagli, lasciatelo dire.
Sì, ti guardo e continuo a soddisfare le tue voglie, ma io so che la mia bolla domani tornerà a prendermi.
Mi guardi anche tu ora, e vuoi che i miei occhi si concentrino solo su di te. Proprio ora che tra l'undici e il dodici non esiste più un passo che li divida.
L'ultimo giro è andato, abbiamo corso entrambi, tu seguendo il tuo senso, io il mio.
Chiudo le finestre e non vorrei - si stava così bene.
Il gatto è tornato in camera.
Io guardo la luce spostarsi, tu trovi un po' di pace e scegli il silenzio.
Spengo il pc e un pensiero torna a trovarmi, identico, tutte le mattine.

"Domani ti tolgo da quella parete, disgraziato di un orologio".
 
Ed è subito mezzogiorno.

 

venerdì 9 gennaio 2015

I predatori dell'arca perduta

 
 
Riscoprire le gioie cinematografiche che hanno fatto grandi i nostri cuori bambini, ingenui, sognanti. Farlo senza corre alcun rischio, esigendo quelle certezze che un tempo certo non pretendevamo, ma oggi sì. Nella preziosissima varietà di ricordi e titoli che ci hanno fatto grandi, uomini e donne critici per professione o passione, certo non può mancare il Professor Jones.
 
Giubbino di pelle e cappello d'avventuriero spavaldo, professore in aula e temerario esploratore nel mondo, sempre alla ricerca di nuovi tesori da scovare. Ad ogni costo.
Tornano le immagini  di come eravamo noi negli anni '80, piccoli e curiosi, inconsapevolmente bramosi d'avventura. E alla fine è sempre la stessa storia, non ci resta che il cinema per compiere le nostre più grandi imprese.
E il pregio più inestimabile di questi film, è la loro immortalità. Riuscire a mantenere intatto il sapore del mito, e stuzzicare in noi, non più bambini, quella voglia di partire per il mondo e scoprirlo tutto, fino all'ultimo pezzetto di terra. I predatori dell'arca perduta è il primo capitolo della tetralogia che ha come protagonista l'archeologo più affascinante e mordace che il mondo ricordi, Indiana Jones.
Da George Lucas alla regia di Steven Spielberg, passando per i volti di un Harrison Ford in splendida forma, una donna cazzuta (finalmente!), intelligente e bella come Karen Allen, fino ad arrivare alle spettacolari musiche di uno dei più grandi compositori del globo terrestre/e non alias John Williams.
 
A proposito di garanzia...
Eppure, a rivederlo oggi, sorprende quanto funzioni alla perfezione, nonostante il tempo e il cinema stesso siano notevolmente cambiati. Di Indiana Jones io ricordo soprattutto le battute semplici (adios imbecille!), l'ironia tagliente e una genuina complessità. Ricordo di come la storia sapeva dipanarsi in maniera naturale, puntando tutto sul fascino del mito, del mistero. Grande intelligenza poi nella scelta di ambientare il film negli anni della Seconda Guerra Mondiale, dove i cattivi - i cattivi per eccellenza - non potevano che essere i Nazisti. Hitler e la Gestapo ostacolano in tutti i modi, i tentativi di recuperare l'Arca dell'Alleanza da parte del dottor Jones. La mappa sullo schermo segna gli spostamenti dell'esploratore, dal Perù al Cairo, toccando per poco il New Jersey, dove si trova l'Università di Princeton.
 
 
Tolti i serpenti* e tutto ciò che striscia, è davvero impossibile distruggere un mito come quello di Indiana Jones.
Molti credono che le esigenze del pubblico col tempo cambino, eppure alcuni film dimostrano esattamente il contrario.
L'avventura, il sogno, la scoperta.
Cambiano tante cose, alcune restano così com'erano trent'anni fa.
 
*E tolto Pino Insegno!
 

mercoledì 7 gennaio 2015

Banana Yoshimoto - Kitchen " キッチン "

 
 
Quando ci si trova in libreria, e si è sul punto di prendere un libro, pronti, decisi ad allungare la mano fino a raggiungere lo scaffale che ai nostri occhi appare come il più grande, il più bello, accade qualcosa di sorprendente. In teoria i fenomeni riscontrabili durante quei minuti decisivi, non possono essere selezionati e studiati a dovere, ritengo impossibile la cosa. Perché si verifica una serie infinita di coincidenze oppure semplicemente (si fa per dire), capita che tu vai in libreria con le idee ben chiare ma questo non basta a fare di te un campione affidabile per la disperata ricerca in fatto di gusti e decisioni del lettore poco più che medio, perché al 99% dei casi tu, uscirai con tutt'altro libro in mano.
 
Prendere un libro di Banana Yoshimoto ad esempio può significare due cose, che la si conosce fin troppo bene e dunque si torna su quello scaffale, oppure che è giunto il momento di scoprire questa scrittrice, fenomeno letterario non solo in Giappone.
Ci pensate a cosa significhi scrivere sette libri in due anni? Un pensiero su cui mi interrogo da giorni in realtà, ed è impensabile per un comune mortale come me, realizzare l'idea di scrivere e vedersi pubblicare nel giro di soli due anni ben sette romanzi.
Probabilmente chi divora fumetti e manga, ha già un'idea piuttosto chiara dello stile della Yoshimoto. Oppure diciamo che è più naturalmente predisposto alle sue storie, alla maniera che ha lei di raccontarle, non curando affatto - o talmente poco da non darlo a vedere - la verosimiglianza e la logica a beneficio di un risultato finale che probabilmente torna sempre identico, nonostante sembianze differenti. E questo non è un limite. Ancora non posso dirlo con certezza, Kitchen è il mio primo libro preso da quello scaffale, con lui la Yoshimoto esordì nel mondo letterario, con lui io arricchisco la mia conoscenza e la mia sete.
 
Kitchen stava sullo scaffale insieme ad altri della Universale Economica Feltrinelli (adoro le loro stampe, tanto da avergli riservato un ampio e luminoso angolo di libreria in casa) e senza girarci attorno o guardare altrove, l'ho preso. Sapete no? Il momento giusto quando arriva, arriva e basta, non è che ti dia modo di ragionarci su o metabolizzare.
Certo a freddo poi ti fai qualche domanda, inevitabilmente le risposte le trovi tra quelle pagine fatte di carta immacolata, che sembrano essere state stampate per te. Per te soltanto.
Assieme al profumo di carta e di stampa, assieme ai colori di una copertina che ti piace, ti piace da morire, inizi ad essere sopraffatta da un miliardo di odori provenienti da una parte del mondo a te lontana, e cominci a viaggiare senza farti notare da chi ti sta attorno, perché a te importa solo raggiungere quei cieli che alternano nebbia e sole, buio e luce, con la stessa delicatezza dei gesti di un bambino quando scopre il mondo. Ed è così che la Yoshimoto alterna la felicità e il dolore, lo fa con una naturalezza tale da risultare forse infantile, ma ciò che ne viene fuori è terapeutico e indispensabile, bello da non poter essere altrimenti.
 
Di questa autrice si ama già la scelta dello pseudonimo, e potrebbe sembrare una considerazione banale, ma è così. Quando pronunci il suo nome per intero, la bocca emette un suono di cui già sei innamorato. Qualcuno può provare il contrario?
E poi c'è la cucina...e nella mia testa tutto è in fermento, sento l'odore e il rumore delle pentole vuote o piene, e vedo tè fumanti davanti alla solitudine di due giovani innamorati, vedo ramen e piatti di tenpura di ogni genere. Vedo la felicità scoppiare all'improvviso davanti a quei piatti ricchi, e so bene cosa vuol dire mangiare insieme a qualcuno e sentire tutto più buono. Vedo futon stesi su pavimenti illuminati dal sole e con la mente torno ai tempi in cui guardavo i cartoni animati e mi chiedevo quali strani letti avessero loro, messi semplicemente a terra. E che strana maniera di stare seduti accanto al tè o ai piatti della cena. Ricordo che la mia curiosità impazziva quando Sailor Moon mangiava quei triangolini di riso belli pieni con una "strana cosa nera" ad avvolgerli. Solo oggi ho placato quell'impeto di curiosità frenetica. Adoro gli Onigiri!
 
Tutto questo per dire che, la Yoshimoto ha un dono prezioso. Quello di portare il lettore ad assaporare gusti e atmosfere tipiche del Giappone. Non solo, riesce a farti toccare gli stati d'animo dei personaggi, quasi sempre giovani rimasti soli e colpiti duramente dalla vita, e ti accompagna fino alla fine, con grazia e un briciolo di fiabesca immaginazione. Per abbattere definitivamente i limiti che ancora oggi dividono gli uomini, è forse necessario guardare il mondo come fa un bambino. Perché se una donna è bella, lo è a prescindere. Anche se qualcuno un giorno dovesse svelarci il contrario. L'identità sessuale non può e non deve condizionare i sentimenti.
Un concetto enorme, oppure la cosa più naturale del mondo.
 
"Sembrava una cosa straordinaria e allo stesso tempo una cosa da niente. Un prodigio, ma anche la cosa più naturale del mondo. Conservo in me una sensazione indefinibile, che le parole potrebbero dissolvere. C'è ancora tanta strada. Forse nel susseguirsi delle notti e dei risvegli che verranno, uno dopo l'altro, anche questo momento diventerà un sogno".

lunedì 5 gennaio 2015

Francesco D'Isa - Anna. Storia di un palindromo

 
 
Durante questi giorni passati senza scrivere, perché non potevo proprio, ho letto molto. Direi che non tutti i mali vengono per nuocere, e ci credo pure, ma giusto un po'. Quel po' che viene spedito e salvifico, da una delle letture più piacevoli di questi giorni di abbuffate e svariati nulla. Anna. Storia di un palindromo, una storia d'amore che in realtà non lo è.
 
Conosco Francesco D'Isa come scrittore, lo conosco ora, con la storia di Anna. Curiosa incongruenza la mia, vista la sua già ben affermata fama di artista, soprattutto visuale, la cui ascesa tocca e si lega con gli ideali del connettivismo. Precisiamo però che D'Isa non può considerarsi esponente del suddetto movimento. Be', non chiedetemi cos'è perché a spiegarlo è davvero complicato. Io l'ho capito anche leggendo Anna, libro anche surreale, a tratti, e potrei azzardare dicendo che, si tratti con buone probabilità, di un movimento o di un ensemble di artisti - suona meglio -  il cui fine ultimo è quello di indagare, cercando risposte (senza tuttavia trovarle, al massimo permettere che queste si moltiplichino all'infinito) attraverso filtri e lenti deformanti, nei quali i tempi si mescolano e l'arte, lei sola, si fa speranza e vittoria nell'apocalisse odierna.
 
Nella confusione tempi e pensieri si alterano, togliendo agli uomini la possibilità di tracciare un netto confine che separi la vita reale dalla vita pensata, sognata. E forse l'arte soccorre gli uomini e i mali della mente, proprio per fornire linguaggi e metodi di indagine sempre nuovi. Forse per capire il mondo che ci ruota attorno, per continuare a porci sempre nuove domande, dovremmo cimentarci in linguaggi differenti, fare il salto di qualità che scardina la teoria dell'indispensabile e minimo. E se non è mai abbastanza ciò che facciamo?
 
Lui e lei si incontrano. Clinica Monterosa. Lui è il medico, il neurochirurgo. Lei la paziente, affetta da crisi epilettiche, sintomo tra i tanti, di un tumore benigno, ai più noto come angioma. Non è il classico incontro, non è il romanzo rosa che gioca a fare il noir, auto abbellendosi di mistero e ambiguità. Credo che allo scrittore, il quale esordisce nel romanzo proprio con Anna, venga naturale procedere in maniera per nulla lineare, e credo pure nel suo stile innato che è affilato e ironico, seppur poco articolato - nel senso di "pulito, privo di fronzoli", e dunque mi piace. Deve piacermi per forza. Il romanzo corre lungo le pagine ed è un'indagine continua, un mettere in discussione di nuovo tutto.
 
Niente conferme, la storia di Anna è racchiusa nell'indefinito, rapita dal dubbio. Il volto di questa donna riflesso allo specchio si sposta da un prologo che è praticamente identico all'epilogo. Le lettere inserite dall'autore non sono affatto accessorie o trascurabili, anzi, le considero linfa vitale del romanzo, sono gli unici momenti in cui si tocca l'anima dei due protagonisti. Necessarie.
 
Di questo autore credo valga la pena scoprire un po' tutto, a partire da le recensioni brevissime di libri difficili fino ad arrivare ai suoi libri illustrati, racconti e, perché no?, la gestione di un collettivo di artisti dediti alla pornografia.
 
Detto questo, consiglio vivamente la lettura di Anna. Un libro sulla solitudine fatta di due - la duitudine. La più comune, la meno riconoscibile.

Forse più che un libro, un saggio breve "pro e contro" la scienza che studia la mente umana e vuole a tutti i costi giustificare - diagnosticandoli - i pensieri, i sogni, i sentimenti. Ma alla fine persino la Scienza si azzera, divenendo pochissima cosa o l'universo tutto insieme. Un piccolo libro rosso le cui uniche pagine scritte sono state strappate. Un'infinità di idee e sogni, pensieri.
L'apparenza dell'apparenza.
Risposte che non spiegano nulla.
Quelle che continui a cercare, incessantemente.
 
"Pensieri, cervelli, parole, stelle: tutto è legato. Nuotiamo in questo mare come fanno i neonati nel liquido amniotico. Che problema c'è? Il problema sono loro. Gli altri. Con quegli occhietti curiosi: siamo un pericolo? Siamo simili o diversi? Da amare o uccidere?".
 

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