mercoledì 13 aprile 2016

Le scarpe del Signor Foley



Nel blog di una scrittrice, o presunta tale, non possono certo mancare racconti o stralci di narrativa. Non è la premessa di una che vuole fare la secchiona delle blogger o ripetere a puntino la lezione del buon SEO. La verità è che nel blog ci metto tutti i racconti che mi hanno "scartato". Ciò che accadde per Aghi di pino e carta straccia, si ripete con Le scarpe del Signor Foley. Un racconto nostalgico che fa da omaggio a quei mestieri scomparsi. Io la chiamerei una storia d'amore autentica e chiassosa, ma per capirla meglio, ho bisogno del vostro sincero parere!

Le scarpe del Signor Foley
Quel lunedì di Pasqua, era il 1944, stavano tutti riuniti da Giggetto all’Osteria. Famiglie vecchie e nuove, soldati tedeschi e fagotti pieni, di chi si portava il pranzo da casa. Era una tradizione popolare, quella, e a Roma certe cose non le ammazzava nemmeno la guerra.
C’era Peppino detto “il Gobbo”, insieme a due amici del Quarticciolo. E c’erano tre soldati tedeschi, ubriachi di vino e follia, e l’aria era tesa e dura come il marmo. Renato di quell’ultima Pasquetta dal sapore campestre, ricordava solo gli spari e la fuga di tutti i presenti. I fagotti erano volati in aria, a terra giacevano i corpi dei tre soldati. Del Gobbo e dei suoi amici poi, nessuno seppe più nulla. Una settimana dopo, a seguito del terribile fatto avvenuto all’Osteria, scattò la cosiddetta “Operazione Balena”. Quelli andarono nelle case di tutti, strappando alle mogli i loro uomini, e nel giro di una mezza giornata erano già “pronti”. Renato aveva quindici anni, quando udì per l’ultima volta i passi del padre. “Papà è andato via per lavoro”, diceva la mamma. E quel via non conobbe ritorno.
“Papà ha fatto la storia Renatì, non lo scorda’! Abbiamo fatto La canzone dell’amore. La storia, Renatì!”
Insieme a quelle parole, restava intatto il ricordo di un uomo che amava senza riserve il proprio lavoro. Suo padre era macchinista alla vecchia Cines. Un giorno normalissimo tornò a casa con una valigia vecchia e piena di oggetti strani. Renato aveva sì e no undici anni. Racchette, scarpe da uomo e da donna. Un cocomero, una scatola con dentro la sabbia. Bottoni grandi e piccoli e per finire una noce di cocco.
“Renatì, questa è tua. Me l’ha regalata n’amico caro. Tienila co’ te. Sempre”.

E in quel momento il ragazzino non sapeva se essere felice o stordito da così tante bizzarrìe. Osservava quelle scarpe da donna, e non capiva. “Dovrò indossarle?” – pensava in segreto. 
Una volta passato lo stupore, Renato inizò a familiarizzare con tutti quegli oggetti. Passava le sue giornate a imitare tutto ciò che avesse un suono. Con particolare ossessione per i cavali al galoppo. Scoprì il cinema, e capì che tutti i suoni e i rumori dei film, lui poteva ricrearli con la voce. Per non parlare di come fossero d’aiuto gli oggetti misteriosi della vecchia valigia. Insomma, col tempo arrivarono tutte le risposte, e quel ragazzino divenne “il Signor Foley”. Uno dei più grandi rumoristi del cinema italiano.
Era un tardo pomeriggio d’aprile, il sole stava lì lì per cadere dal cielo e l’aria era briosa, leggera. In compagnia del vecchio Armando e della signorina Norma, il Signor Foley camminava nel parco. L’uno e l’altra necessari, compagni di vita e sventura, da ormai sei anni. Da quando il male lo aveva privato per sempre di quell’istinto naturale che permette di vedere dove nascono e muoiono le cose. Ma il Signor Foley, ottantasei anni e una vita piena, sapeva quasi tutto delle cose. Le teneva a mente con cura, e salda memoria. Sapeva bene, ad esempio, che all’ingresso del parco in Via degli Argonauti, ad attenderlo, c’era sempre lo stesso scalino. E nel buio più nero, pensate, aveva imparato a evitarlo.
Poco prima di varcare l’ingresso, tutte le volte, si chinava con grazia fino a toccare la punta delle scarpe. Quel gesto, che a molti potrebbe apparire ridicolo o trascurabile, per il Signor Foley era necessario. Anticipava lo scalino, fermandosi nell’attimo che precede il passo, con tanta naturalezza che sembrava ancora potesse sfruttare la vista. Il pensiero, in silenzio, scivolava giù fino a quel paio di scarpe. Vecchie o nuove, non importava. Doveva solo accertarsi che nulla le avesse scalfite. Solo così avrebbe potuto continuare, a camminare, a vivere. Non poteva vederle con gli occhi, le sue tanto amate scarpe. Ma le mani avevano sviluppato una capacità incredibile di carpire lo stato d’animo di ogni cosa. Al Signor Foley bastava sfiorarle appena, seguire le curve tonde o squadrate, accarezzare i difetti e le virtù. Non gli riusciva solo con le scarpe, sia chiaro. Certo le scarpe, erano la sua specialità.
Il Signor Foley scovava l’aspetto e persino l’anima delle persone. Il droghiere ad esempio, aveva un trombone al posto delle corde vocali, e quando parlava si prendeva spesso una pausa. Nessuno aveva mai descritto l’aspetto di Vincenzo al Signor Foley, ma quella pausa poteva significare solo una cosa: un grosso e folto paio di baffi! Così era.
Il Signor Foley annusava l’aria come quando si attende qualcosa. Con una mano si prendeva cura di Armando, sedutogli accanto, con l’altra picchiettava il ginocchio e poi la panchina. Faceva cerchi nell’aria con le dita, poi un tocco leggero alle scarpe e, per finire,  il meritato riposo. Dal rumore delle foglie arricciate a terra, poco distanti dalla panchina su cui stava, insieme ad Armando, arrivò un sibilo sottile. A seguire, pochi ma decisi, passi impalpabili.
Un ragazzino imitava il fischio di un trenino a vapore, si muoveva disinteressato, calpestando e accartocciando ancora di più, quel tappeto rinsecchito e malinconico. Quelle foglie a terra non avrebbero mai incontrato primavera, e il Signor Foley lo sapeva. La maglia a righe nascondeva i contorni di un ragazzino smilzo, agile e in piena armonia con i suoi dieci anni. I capelli spettinati e un paio di occhiali con le lenti grandi, un calzino rosso, l’altro blu. Quel ragazzino era un disastro amabile. Scombinato e inconsueto, distratto. Il Signor Foley non poteva vederlo, ma lo capiva già  meglio di chiunque altro.

“Mi scusi signore. Chiedo scusa!”
Armando capriolò su se stesso, lasciando sulla panchina il trenino a vapore che non suonava più. Il Signor Foley poco irritato e molto incuriosito, afferrò il giocattolo del ragazzino piombatogli addosso.
“Ma questo trenino lo facevi suonare tu con la bocca?”
Cercava la risposta del ragazzino distratto, attendeva nell’aria qualcosa, un ritorno di voce.
“Beh, sì. Mi diverto a rifare i suoni. Questo è il mio preferito, il trenino a vapore. Ma so fare anche tanti altri rumori…"
Il ragazzino ne andava così fiero.
“Accidenti! Sei bravo allora”.
Norma prese Armando per una passeggiata, posò la rivista proprio dove stava seduta, e informò il Signor Foley.
"Sì Norma, vai tranquilla. Io me ne starò ancora qui. Ho trovato un amico, non vedi?”
L’umorismo non gli era mai mancato.
“Vuole sentirli? Tutti i miei rumori?”
Il ragazzino ormai smaniava per mettersi alla prova, il Signor Foley non poteva che assecondare quel desiderio, tanto familiare.
“Avanti. Fammi sentire che sai fare!”
Il piccolo rumorista si esibì in contorsioni delle labbra e smorfie di ogni tipo.
Il cavallo al galoppo.
"Ptcò – ptcò – ptcò".
E la Ferrari.
“Uuuuuuaaaaaah – Meeeeeeeeeeeh – Frrrrrrrrum”.
E per finire il vento.
“Fffffuiuuuuuschhhhhh”.
Il Signor Foley se ne stava lì seduto, immobile, rapito dall’imperfezione dei suoni, mai stata così piacevole.
"Il cavallo è stato decisamente il migliore. Bravo!”
E lui batteva le mani saltellando, con un sorriso che a fatica rientrava in quel viso mingherlino.
“Perché non mi guarda mai in faccia, signore?”
“Perché non cambierebbe le cose. Sono cieco. Ma ci sento benissimo, e so per certo che tu hai del talento!”
Il ragazzino dimenticò in fretta gli occhi del Signor Foley.
“Davvero? Lei crede?”
“Assolutamente! Certo, devi lavorarci su…”
“La mamma dice sempre di smetterla, con questi rumori. Li trova fastidiosi, soprattutto quando guarda i suoi programmi preferiti alla tv”.
“E quando lei ti sgrida, tu che fai?”
“Mi chiudo in camera e continuo a fare i miei rumori”.
Il Signor Foley sorrise, e in quello squarcio la luce scostò la notte, ormai prossima.
Era un ricordo.
"Renatì, Renatì… mo' basta co 'sti cavalli!”

martedì 5 aprile 2016

Quando il cappotto non serve più



L'indecisione delle mezze stagioni rende incerta l'esistenza. Porta a dubitare di ogni cosa. A partire da ciò che indossiamo fino ad arrivare, inevitabilmente, a tutto ciò che mandiamo giù, anche per vie traverse. Giù che vuol dire stomaco e cuore, anima e pelle.

Aprile ricorda che la distanza è solo un vago attendere.
Maggio sta nel mezzo e non fa che accrescere il desiderio di mare.
Eppure, persino nei colori accesi e caldi dell'estate, rimane un soffio di malinconia e incompletezza.

Lo capisci quando tiri fuori le scatole con i capi leggeri, quando tiri via dalle stampelle appese e silenziose, tutti quei mesi di cotone pesante e lana merino.
Cambia stagione e ogni stato d'animo.
Persino il tuo.
Quello che metti via ti somiglia tanto, ti dice che in fondo anche questo inverno, hai fatto tante belle cose. Ti suggerisce di non rimpiangerti niente e nel mentre ti prende alle costole.

Quando il cappotto non serve più, capisci che per ogni nuova stagione c'è un prezzo da pagare.
Non importa più se il cielo buio del mattino sembra un quadro triste e assonnato.
Se il freddo gela ogni cosa e l'aria è solo un grande spiffero che ti è sfuggito di mano.
Ti metti nei panni di quel cappotto che nemmeno ricorderai di avere, perché nella fretta lo hai messo chissà dove. In un sacco nero o in una scatola a fiori che sa di vecchio e preferirai non aprire più.
Capirai che vuol dire il tempo che passa.
Di come cambia il tuo stare al mondo.
Avrai domande nuove.
Che farai quando tornerà l'inverno, quando farà di nuovo freddo.
Penserai ai giorni che diventeranno ancora una volta lunghi, ai pomeriggi appena cominciati.
Ti ricorderai di quella vecchia scatola, dei fiori che non ti sono mai piaciuti.
Oppure no, e sai che questo non cambierà le cose.
Tornerà l'attesa, ti ritroverai nel mezzo.
E avrai una scatola, magari nuova, più grande.
Senza fiori.


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