giovedì 29 ottobre 2015

Caramelle al gusto arancia - In bocca al lupo a me!

 
 
"Perché magari alla fine quel sogno s'avvera".
E io non ho mai smesso di dirlo a me stessa, nonostante tutto.
Tutto che vuol dire paura, sfiducia, giorni aridi di parole. Tutto che vuol dire il paese in cui vivo, e le incertezze, la faccia della gente quando ti presenti e dici "piacere io scrivo!"
I sorrisi storti, l'entusiasmo che non c'è.
Ma le pagine a un certo punto hanno iniziato a riempirsi davvero. A un certo punto, si è fatto oggi. E stento a crederci, ve lo giuro, mentre mi sforzo di trovare un qualcosa che sia d'impatto, che funzioni...
 
La verità è che quando finisci di scrivere, è come se alle parole volessi concedere una tregua. Ci guardiamo senza più pretese, ora, senza colpe né meriti. È il momento che attendevamo. Tipo pianeti allineati, stelle che non sono più né poche né troppe.
Tipo che non so più che dire perché mi sta farneticando il cuore.

Il 10 novembre uscirà il mio romanzo, Caramelle al gusto arancia.
A partire da lunedì sarà già acquistabile tramite il sito della casa editrice 
Edizioni Leucotea
Che dire... in bocca al lupo a me!
E GRAZIE a Leucotea Edizioni.
 
Vi lascio un estratto:

mercoledì 28 ottobre 2015

Inside Out

 


Le cose sorprendenti sono due:
la prima è che ho visto Inside Out, la seconda è che gli italiani hanno fatto altrettanto.
L'incasso globale raggiunge gli oltre 842 milioni di dollari!
 
Ma a noi le cifre non piacciono. E poco importa della corsa agli Oscar e dei record al botteghino. Se parliamo di Inside Out oggi, con questo entusiasmo un poco smorzato dalla nostalgia, è soprattutto grazie a una storia semplicissima e straordinaria.
 
La storia di una bambina, che nel film procede dall'infanzia all'adolescenza, viene raccontata a partire da tutto ciò che accade dentro. Ed è questa la cosa straordinaria. Non siete d'accordo?
Abituati a vivere e a vedere le emozioni solo per ciò che ne consegue all'esterno. Fuori e mai dentro. Prima o poi doveva accadere, e chi meglio di un Pete Docter avrebbe potuto realizzare una simile impresa?
 
In realtà, considerata la mole delle critiche degli ultimi giorni e considerata pure la solita spartizione dei pensieri, ho visto Inside Out con un leggero timore. Per una che ha sempre apprezzato tutto ciò che ha da dire questa grande macchina dei sogni chiamata Pixar, le aspettative sono tante, e sono alte. Così, ho deciso di cavalcare l'onda più moderata, quella che di solito sta in mezzo e non grida al capolavoro, ma nemmeno se ne esce col muso lungo e piange delusione.
Deciso poi è un parolone... è andata così.
Quello che mi entusiasma davanti allo schermo, o davanti alle pagine di un libro, è quasi sempre l'idea rudimentale. Quella che mette in moto tutto un mondo narrativo e ne determina il risultato finale.
 
 
Qui parliamo di un'idea che scardina le nostre abitudini davanti allo schermo. Abbiamo sì una bambina, un padre, una madre e tutto il nostro normalissimo mondo esterno. Ma a dirigere tutti e tutto sono dei protagonisti inaspettati e inaspettatamente credibili. Nel quartier generale di ognuno, c'è una Gioia, una Tristezza, una Rabbia, una Paura e un Disgusto, pronti a intervenire, a guidare gli eventi della nostra vita.
Come?
Un po' come i globuli rossi in Siamo fatti così. Lo ricordate?
Ma l'aspetto più scientifico qui cede il posto alle emozioni, a tutto ciò che il corpo spesso tace, nasconde. I protagonisti sono proprio loro, le emozioni, intese come stati d'animo.
La loro presenza è fondamentale. Se vai a San Francisco e ti vendono solo pizza con i broccoli, Disgusto interviene e ti ricorda che quella roba verde potrebbe avvelenare la tua persona. E questo coinvolge inevitabilmente anche Rabbia.
Paura calcola ogni rischio, ma spesso viene travolto dal desiderio di mollare tutto e fuggire.
Gioia deve tenere sempre tutto sotto controllo, credo sia lei la presenza necessaria, ma credo persino che, senza Tristezza - quella cosa ingombrante e goffa che rischia di mandare in frantumi tutto ciò che sfiora - nemmeno la gioia più esperta sarebbe infallibile.
 
 
Come dire, siamo imprescindibili. Mai d'accordo e tutti uguali, eppure necessari gli uni agli altri. Mi piace vedere nel film un messaggio universale di questo genere. Ci tengo inoltre a rispondere a quella scia di pensiero che descrive il film come "poco adatto ai bambini", perché non capirebbero, perché si annoierebbero, perché alcune tematiche vengono affrontate con troppa leggerezza. Sono queste le opinioni più "strane" che ho letto in giro.
Ma io non sono affatto d'accordo!
 
 
Ancora siamo convinti che i bambini certe cose non le capiscono?
Ah!
Che illusi che siamo noi GRANDI.
 
Alla fine Inside Out parla dei primi grandi problemi della vita. Quelli che poi ricorderai con un sorriso, ma allora facevano male davvero. Il trasferimento e una nuova vita. Amici nuovi, strade nuove da imboccare e imparare in fretta. La spensieratezza che spesso si perde e svanisce, in un luogo buio cui non puoi accedere, al massimo puoi pensarlo. Un dimenticatoio destinato a tutti, lo stomaco del subconscio, dove un attimo prima guidavi un razzo spaziale insieme a Bing Bong, il tuo migliore amico - sì, quello immaginario - e un attimo dopo, un elefante rosa ti sembra solo l'ennesima cosa stupida e insignificante del mondo.
Sei grande, e non ti importa più di raggiungere la luna.

giovedì 22 ottobre 2015

Bessie Smith, l'imperatrice del Blues

 
 
La HBO porta in tv la storia dell'Imperatrice del Blues, Bessie Smith.
Imponente e graffiante, Bessie incarna il miracolo dell'ascesa. Dalla miseria alla fama, seppure la storia ha da esibire le solite carte e getta ovunque pregiudizio e discriminazione.

La pelle, e il colore che più di tutti spaventa, quello di donna.
E Bessie era una mina vagante, voce maestosa e leggera, un luccichio incostante che sfiora il cielo per poi schiantarsi a terra.
Bessie Smith fu da esempio a grandi artiste come Janis Joplin, Norah Jones, Ella Fitzgerald e molte altre, ma la sua storia, che ripercorre quella di un paese come l'America degli anni '20 e '30, è destinata al tramonto.

A riempire lo schermo è la regina Dana Elaine Owens, meglio nota come Queen Latifah. Indomabile e perfetta, la sua performance riceve una candidatura agli Emmy e ai Critics' Choice Television Award, e porta a termine un'impresa complessa. Lo fa con eleganza e maestria, senza mai tentennare, col fare che è tipico solo delle grandi attrici. E non bastano vestiti sgargianti e piume di struzzo a riportare in vita un pezzo di storia del blues e del jazz. Ci vuole la stazza del fuoriclasse, ci vuole sangue caldo che scorre nelle vene e una credibilità che rende tutto naturale.
 
 
Bessie Smith era una donna dal talento versatile, passionale e piena di sé. Il regista Dee Rees, sfrutta appieno le capacità della Latifah e mette insieme i pezzi di una vita tormentata e piena. Al di là della musica, dell'America che divide ancora i bianchi dai neri, questa è la storia di una donna che doveva a tutti i costi riempire un buco nello stomaco, divorando tutto.
Persino se stessa.
 
 

mercoledì 21 ottobre 2015

Giacomo Festi - Vita da scarabocchio

 

La fuga e l'insoddisfazione, l'odio verso il mondo e verso tutti.
Si chiama adolescenza, sì.
Ed è quello che ci racconta Giacomo Festi nel suo terzo romanzo, Vita da scarabocchioLeucotea Edizioni.
 
Fuggire dalla propria immobilità, alternando al desiderio di evasione, la paura dell'ineluttabilità. Perché la vita che fai, porta il tuo nome, ed è vero. Ma a volte a guidarci sono gli eventi e, che lo vogliamo o no, persino le azioni e il volere degli altri.
Vita da scarabocchio è l'avventura drammatica e rocambolesca di una ragazza obesa, poco in sintonia col resto del mondo, e con se stessa. Elena ama disegnare, ma non ama il suo corpo e la sua vita, tanto da ridurre tutto ad uno squallido show: ingurgitare cibo di ogni genere.
I problemi legati alla propria identità, alle relazioni sociali e la sfiancante corsa verso la risposta più ambita: "Cosa ci faccio io al mondo?", fanno di lei l'ennesima vittima di un sistema avvelenato, che guarda all'impeccabile e diventa inammissibile. La bella presenza, una forma che sia allettante, e possibilmente un bel culo - grazie!
 
Elena viene descritta come un corpo esagerato, i cui contorni sembrano esplodere da un momento all'altro, tanta è la rabbia e la materia adiposa costretta a convivere in un una cosa sola. E nell'indifferenza e nel giudizio degli altri, spunta dal niente uno scarabocchio capace di muoversi da un muro all'altro e, tanto scemo da rivolgere la parola a quella cicciona sfigata e dark.
Lo scarabocchio diventa metafora di evasione, e incarna nelle sue elementari fattezze (è stato disegnato da una bambina) tutta la complessità dell'età adolescenziale. Abbandonare il muro e staccarsi, verso un mondo ignoto, abitato da esseri piuttosto "strani", che camminano e hanno l'orecchio sempre impegnato. Gli occhi mai.
E parlano, parlano per ore e ore, ma alla fine tutto resta in superficie, come il sistema vuole. Tutto appare e nulla più.
 
Ad arricchire questo agglomerato di desideri e paure, il problema dell'integrazione e le conseguenze delle scelte sbagliate. Così come la difficoltà nel crearsi un ruolo preciso e poi doverlo mantenere, a tutti i costi. Ma a far scorrere le pagine, è la fantasia, che nonostante tutto trova sempre una via di fuga e si sposta, come quello scarabocchio. Di muro in muro, di testa in testa.
 
Perché il nero non è mai "nero e basta", e per staccarti dal muro devi essere pronto a cambiarti.
 
P.S. Complimenti all'autore, nonché amico e collega di molte avventure. Perché tutti hanno avuto un'adolescenza di merda, ma pochi le palle di staccarsi dal muro.
 
 
 

venerdì 16 ottobre 2015

Suburra

 
 
Suburra era la Roma antica, sita tra i colli e diventata poi, per antonomasia, il quartiere più malfamato di una città. Era Roma, e col tempo rimane, la città eterna bagnata dalla pioggia e sporcata dalla criminalità.
 
Ma l'acqua non leva via tutto...
Dalle pagine di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, prende vita per mano di Stefano Sollima, un conto alla rovescia grigio e bagnato, che anticipa l'Apocalisse.
 
Nei giorni della Suburra nessuno piú è innocente.
«Il Libanese era morto.
Tanti altri erano morti, qualcuno era diventato infame, qualcuno si faceva la galera in silenzio, sognando di ricominciare, magari con un lavoretto senza pretese.
Il Samurai era ancora là. L'antico nome di battaglia denunciava ormai soltanto sogni abbandonati. Ad affibbiarglielo era stato il Dandi, ma lui aveva cercato di esserne degno.
E il potere, quello, era concreto, vivo, reale.
Il Samurai era il numero uno».

Carlo Bonini, Giancarlo De Cataldo, Suburra
 
 
Per capire meglio questo Samurai, dovremmo leggere il romanzo. Dovrei. Devo.
Perché di questo meraviglioso e inquietante affresco di una Roma odierna, non ho capito alcune cose. Chiedo scusa ai più, che avranno letto e dato un senso ad alcune scelte narrative, al contrario di me.
Ribadire che Sollima sia un grande regista, credo sia noioso ma in ogni caso doveroso. Roma stavolta si vede dai bassifondi, con la bocca e gli occhi che sfiorano l'asfalto. Ed è un effetto ipnotico, seppur spossante. Perché Suburra è la storia di una Roma criminale che si ripete nel tempo. Che plasma gli errori e dimentica le opere di bene, le decisioni giuste, democratiche, fatte per accontentare il volere della plebe.
Ma qui la gente non si vede. Non vi è traccia delle autorità giudiziarie, delle Forze dell'Ordine. Niente che sia accostabile alla Giustizia, o almeno, al "tentativo di".
 
Roma è sola.
Vuoto. Sgomento. Paura.
 
E torniamo al Samurai, la figura del diplomatico con le fattezze di un Claudio Amendola, sì all'altezza, ma poco credibile. Il passato che torna e sopravvive, nel fango della criminalità di oggi. Il vecchio boss della Banda della Magliana, onnipresente. Quello che se ne va in giro col T-Max e l'impermeabile, e sembra più un professore che un mafioso. Ma... le apparenze si sa, ingannano. E poi i più pericolosi sono quelli che non ti aspetti.
Dicono...
Dopo averlo apprezzato nel godibilissimo Noi e la Giulia, torno a parlare di lui con minore entusiasmo. Non che abbia deluso una qualche aspettativa, solo ho fatto molta fatica a dare al suo ruolo una certa credibilità. A un certo punto ho pensato: "Il Samurai sta sempre in mezzo ai coglioni come Jor-El in Man of Steel, perché?"
Ovviamente si fa dell'ironia. Ma io l'ho pensato davvero!
Così come ho fatto fatica, ad accettare (intesa come reazione fisiologica, quindi inevitabile) un epilogo che sa di giustizia fai da te, molto, ma molto poco verosimile. Non aggiungo altro. No spoiler!
 
Ma Suburra ha il pregio d'essere gigante, e nasconde in ogni caso queste piccole disavventure narrative. Mentre ero in sala ho immaginato persino una serie. I giorni prima dell'Apocalisse, forse, avrebbero voluto distanziarsi maggiormente, l'uno dall'altro.
"Suburra - La serie". Sollima e le serie tv, sì. Ma anche ACAB non ci aveva fatto rimpiangere nulla, anzi. Forse con Suburra prendi ancor più coscienza della sua enorme potenza registica, ma anche della sua predominanza in fatto di serialità. L'impressione è che, questo film, risenta della sua stessa natura. Come se il mosaico da rimettere insieme fosse "troppo", e che la Roma di oggi non la racconti in una settimana. Che cinematograficamente fanno 130 minuti.
 
Sono pensieri inevitabili, ma poi succede che davanti allo schermo rimani indifferente a tutto ciò che non va. E non so nemmeno spiegarlo ma...
Un po' come quando sai che la tua città se la sta passando davvero male, lo sai. Perché ci vivi e la vedi tutti i giorni.
Poi però la guardi, e non ti chiedi più niente. 
 
 
Favino è disgustoso. Nel senso che la sua natura d'attore lo porta ad annullarsi come uomo, e lo innalza a simbolo. E come lo interpreti lo schifo? Il politico immune e porco e sporco, che fai fatica pure a guardare o a pensarlo possibile. La sua voce, il suo stare sulla scena come se nulla fosse, un corpo lurido, che diventa l'immoralità, la perversione di tutti, nessuno escluso.
Alcune sequenze da brivido, merito del regista, della fotografia di Paolo Carnera, e di un attore che solo, avrebbe raccontato il degrado e l'Apocalisse.
Grandi prove poi, quelle di Elio Germano, Alessandro Borghi e Greta Scarano.

mercoledì 7 ottobre 2015

Ti hanno mai detto che era solo un B2?

 
 
Ottobre è il mese dedicato alla prevenzione contro il tumore al seno. So che non c'entra molto con la linea editoriale del blog, ma c'entra con la vita. E direi che merita il suo spazio.
Anche qui, in un blog che parla di cinema e letteratura.
 
Gira da qualche giorno, una locandina realizzata dalla Lega italiana per la lotta ai tumori (Lilt), la quale ha pensato "bene" di scegliere come testimonial, una bella donna. La bella donna è Anna Tatangelo, e fin qui direi che non c'è nulla di male. Perché dovrei scatenare una bufera?
In fondo è il messaggio che conta. Quello che, questa donna scelta, riesca a trasmettere attraverso il suo corpo, i suoi occhi, la sua persona, la sua storia.
Un seno rifatto stretto tra le braccia, e la faccia sbiadita di una gatta morta, però, non trasmette esattamente quel messaggio. Il messaggio rivolto a tutte le donne, a quelle che non hanno ancora mai fatto una visita al seno, mai una mammografia. A quelle che di visite ne hanno fatte fin troppe. A quelle che hanno lottato contro il male. A quelle che hanno vinto. A quelle che non ce l'hanno fatta. A quelle che, del loro seno, non resta che una cicatrice. E il dolore. L'umiliazione. Il rifiuto di un corpo che non si accetta quasi più.
 
E invece la testimonial scelta dalla Lilt, è bella. Sembra non avere la più pallida idea di cosa significhi... un ago infilato nel seno. La chemio, le cure devastanti e il crollo di tutte le certezze.
No.
La bella donna non si è mai sentita dire: "E' maligno!", oppure "Era solo un B2 signora, stia tranquilla".
A voi l'hanno mai detto, che era solo un B2?
Chissà se alla testimonial bella e col seno rifatto, lo abbiano mai detto...
 
Ottobre rosa. Vuol dire che dobbiamo pensare a noi, a prevenire qualcosa che potrebbe distruggerci. Non è per appesantire i vostri pensieri, ma in Italia si ammalano 48.000 donne ogni 12 mesi. La buona notizia però, è che grazie alla prevenzione, le guarigioni sono raddoppiate in venti anni.
 
A me l'hanno detto. Che era solo un B2.
Mi hanno infilato un ago da 8 nel seno.
Mi hanno detto di stare tranquilla.
Tranquilla un cazzo!
Mentre uscivo dallo studio, il medico mi ricordava che sarebbero passati quindici giorni, e poi avremmo avuto la risposta.
La risposta.
Maligno o benigno.
La va o la spacca!
E sono stati quindici giorni pieni di paura.
Sono uscita dall'ospedale con il ghiaccio sul seno.
Avevo la tetta addormentata.
Fanculo!
Mi sentivo stordita, lo ero.
Il medico prima di bucarmi la tetta mi fa: "Tranquilla signora, è un'anestesia leggera. Quella che usa il dentista".
Sarà... ma a me quell'ago metteva ansia.
E mentre quello spingeva, sempre più a fondo, fino a bucare la mia carne, quell'ago aspirava qualcosa di me.
Di mio, della mia intimità, della mia persona, del mio essere donna.
Non avrei mai voluto perdonarlo.
C'ho pensato per quindici giorni, rivedevo gli occhi del medico e continuavo a sentire quell'ago.
Quando sono tornata, in quello stesso studio, il medico che avrei voluto uccidere era lì. Sempre lui.
Aveva in mano la mia risposta.
Maligno o benigno.
Benigno o maligno.
O va bene o va male.
Quello poi sorride, mentre a me mancava l'aria nel petto.
Stavo morendo.
"Come immaginavamo..."
- Io non ho immaginato un bel cazzo di niente, ma vabbè...
"Era solo un B2".
Che in termini pratici vuol dire?
"Un fibroadenoma. Un tumore benigno. Molto frequente nelle donne della sua stessa età".
Ero viva e lo sarei stata, almeno per un altro po'.
"Ma questo coso... potrebbe cambiare e diventare pericoloso?" - chiedo io.
"No signora, stia tranquilla. Ma d'ora in avanti la chiameremo per la prevenzione del tumore alla mammella. Una volta all'anno verrà qui e faremo un controllo".
"Ok, ma non bucarmi più la tetta o ti spacco la faccia!"

 

giovedì 1 ottobre 2015

Arance e martello

 
 
Di Diego Bianchi, in arte Zoro, conoscevo soprattutto la sua attività di Blogger e conduttore, avviato a quest'ultima professione tramite il web, con il programma Tolleranza Zoro.
Con questo stesso format, il giornalista e attore romano, arriva in tv nel programma di Serena Dandini, Parla con me. Un fatto mai avvenuto prima, almeno in Italia. Prosegue il suo percorso al fianco della Dandini fino ad arrivare a un programma tutto suo, Gazebo.
 
Mi piace sottolineare i percorsi, mi piace la gente che so da dove viene.
 
Perché questa premessa?
Perché dopo aver visto Arance e martello, film esordio di Bianchi, torno a non capire alcune dinamiche, alcuni giudizi.
Non capisco ad esempio, le ragioni per cui, un regista romano che racconta uno spaccato del proprio quartiere, sia costretto a subire per l'ennesima volta, la colpa dell'esser romano. La colpa di narrare una realtà troppo poco identificabile, perché romana. Come se la romanità precludesse, a prescindere da dove la si guardi, un fattore stonante e distorto, che non può essere capito, che non arriva e, di conseguenza, non piace.
 
Ma parliamo del film, che dovrebbe più o meno essere, la ragione regina di ogni sensata discussione. Critica e non.
L'idea di Bianchi è quella di realizzare una sorta di documentario, che guardi con particolare attenzione alla realtà contemporanea. L'estate 2011 si ricorda per il caldo atroce e per una serie di cambiamenti politici, che non sto qui a sottolineare... era giunta l'ora di liberarci dal male. Ecco.
A San Giovanni un gruppo di "compagni" del PD, vuole darsi da fare e mischiarsi tra la gente, tra gli spazi stretti del mercato storico del quartiere. E mentre questi del partito speravano nella fatidica firma per cacciare via "il passato", un giornalista prende una telecamera e raccoglie le storie di tutti.
 
La storia del pescivendolo, e della concorrenza al femminile. Del salumiere, del fratello razzista, del venditore arrivato a Roma dal Bangladesh, quello che tifa Roma, quello che tifa Lazio e il rappresentante dei commercianti. Quello che fa il carciofaro e tiene Padre Pio sul banco, e spera e prega, e nel mentre frega gli altri e pure se stesso. La ricercatrice bona e presumibilmente mignotta, ma iscritta al Partito dal 2008.
In questa Roma caotica c'è davvero di tutto. L'asfissia dovuta alla puzza che non levi più, quella dell'indifferenza però, no del pesce che vendi da una vita. La puzza degli ideali sbagliati, di una generazione allo sbando che imita le gesta dei predecessori senza nemmeno sapere chi fossero.
 

In questa Roma c'è un pezzo della nostra storia, nostra, non mia che sono romana e vivo a Roma. Mia di tutti. Di chi va a votare e non sa nemmeno perché, di chi è stato privato del diritto e del dovere alla resistenza, e non intendo quella politica. Intendo quella che ci fa vivere, andare avanti e resistere.
 
Qualcuno ha accusato Bianchi di non essere stato in grado di dare al film, la propria riconoscibilità. Che cazzata è mai questa?
Il mio primo film e vuoi la riconoscibilità?
Be' però se ci pensi, questo termine fa un sacco radical chic. E a noi critici piace assai.
RI-CO- NO-SCI-BI-LI-Tà - non mi viene la A con l'accento, scusate.
 
Eppure, se solo guardassimo meglio, si riconoscerebbe (Riconoscibilità? No. Riconoscenza!) a questo film, una dichiarata e profonda inadeguatezza che fa di un'inettitudine il più grande pregio. Quello di guardarsi meglio e capire che non si è niente e nessuno, ma poi ti guardi intorno e vedi che nessuno lo sa, nessuno se ne accorge. La colpa di tutti è la colpa dell'individuo, di chi vota e di chi si fa votare, di un paese che dovrebbe cambiare ma non ha la forza, gli ideali.
Dove i figli di nessuno e i figli di chi ha fatto la Resistenza, sono fusi nello stesso tempo, senza potersi distinguere. Se hai gli ideali magari vivi meglio, ma nessuno se ne accorge e, parliamoci chiaro, se mi garantisci quei soldi a fine mese, io, il voto te lo do. Sai quanto me ne frega poi dell'IDEALE...
 
Perché non è così?
Lo è. E le conseguenze poi sono tragiche e comiche. Inverosimili, ma presenti in ogni dove. E la vita è la stessa per tutti. Per l'extracomunitario, per il vecchio che passa il suo tempo al bar, per i ragazzini coatti sui motorini, per il pescivendolo al mercato rionale, per il giornalista onesto e quello stronzo. Per chi è di destra o di sinistra.
Per il laziale e il romanista.
E pure per voi, che appena sentite Roma vi voltate dall'altra parte con indifferenza. Come se questa storia non riguardasse pure voi.
Vi riguarda eccome, ma fate prima a dire che certe storie sono "troppo romane", che non vi identificate, che non capite.
 
Paola Casella su mymovies.it conclude la sua illuminante recensione, così:
 
"L'altro tallone d'Achille di Arance e martello è la tendenza a parlare ad un pubblico di "iniziati", meglio se romanocentrici. È giusto radicare una storia in una realtà locale ben identificabile, meno utile fare conto su riferimenti comprensibili solo ad una cerchia ristretta. Zoro ha il suo pubblico, ma può legittimamente aspirare ad una platea più grande, se ricorda di non escluderla dai suoi orizzonti".
 
Cara Paola, ma voi 'na platea più grande de Roma?

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