giovedì 15 dicembre 2016

Lovecycle, il riciclo in stop motion



Lovecycle è un cortometraggio che racconta il riciclo dei rifiuti di imballaggio in un modo del tutto nuovo. E lo fa ispirandosi ai grandi classici dell'animazione come Toy Story, Nightmare before Christmas e Coraline e la porta magica.

Promosso da CONAI (consorzio nazionale imballaggi) e realizzato dallo studio Dadomani con la tecnica dello stop motion, Lovecycle narra la storia di sei protagonisti molto originali.
Una pinzetta, una caffettiera, un libro, una cassettiera, un paio di occhiali e una bottiglia tornano a casa dei genitori-imballaggi per le vacanze di Natale.

Lovecycle non solo ribalta l'approccio più classico al discorso riciclo, ma compie un viaggio fantastico che si fa metafora della vita dei rifiuti, portando grandi e piccoli a riflettere sull'importanza del loro riciclo. La storia si svolge in una cittadina magica e incantata chiamata Conai Town ed è fatta di imballaggi e prodotti realizzati con materia riciclata.
L'idea di Lovecycle è di J. Walter Thompson, la regia di Francesco De Meo e art director è Dario Agnello.
CONAI è un consorzio privato costituito per garantire il rifiuto di imballaggi su territorio nazionale. Nel 2015, grazie anche a CONAI,  sono stati avviati a riciclo il 66,9% degli imballaggi immessi sul mercato.

Della serie: "A Natale si può fare di più!"




mercoledì 14 dicembre 2016

Dexter - Come una scatola di ciambelle vuota



E adesso sarai impacchettato con cura, nei sacchi della spazzatura, e il mio piccolo personale angolo di mondo, sarà un posto più pulito e felice... Un posto migliore...

Non male come biglietto da visita. Certo in un mondo reale farebbe un attimo rabbrividire, anche se... A pensarci bene... Be', ci siamo capiti. No?
"Dexter dove sei?". "Eeeeh, se ci fosse stato Dexter..." - Quante volte lo abbiamo detto e pensato?
Io ho perso il conto.

Perché alla fine si sa, davanti allo schermo o davanti a un bel libro, il cattivo diventa buono. Il sociopatico che fa a pezzetti la gente finisce col piacerci di brutto. La morte diventa normale, e la corrente dell'Oceano - nel nostro caso specifico - la signora giustizia per antonomasia.
Sacchetti di plastica neri e pellicola trasparente hanno riempito le mie giornate e, da che non guardavo nemmeno una serie tv - a meno che questa non fosse ambientata all'interno del Seattle Grace - mi ritrovo oggi a cercare disperatamente di colmare un vuoto. Sensazione frustrante che segue quell'ultimo straziante episodio. L'ultimo!
Dopo aver visto Lost, ho creduto davvero che non avrebbe avuto più senso nulla in fatto di serie tv. Sapevo che quella era la serie Regina, la mamma di tutte le serie tv, e che niente avrebbe saputo sostituire quell'esperienza tanto unica.
Finché non ho scoperto lui.
Dexter Morgan.



Attenzione pericolo SPOILER!

Otto stagioni sono tante, e questa consapevolezza un po' mi frenava. Iniziare a vedere Dexter è stato fin dal principio un grande atto di fede (i postumi di Lost!). E poi è bastato un episodio per andare il più lontano possibile rispetto a Dio, per oltrepassare il confine che ci vuole o buoni o cattivi. Uno psicopatico che uccide, sì, "ma lui è diverso. Non è come gli altri".
Ed è questo che continui a ripeterti, puntata dopo puntata, per assolvere lui, e pure un po' te stesso.
La giustizia è un concetto labile eppure tanto semplice.
Chi uccide va in galera. Chi uccide è un assassino. Le persone normali non uccidono. E agli assassini, ai cattivi di ogni genere, ci pensa la polizia e, per finire, il voto di una giuria.
L'aspetto più drammatico e brutale di questa serie tv è proprio questo. Come dinanzi a Dio, la giustizia rende impotente l'uomo e, talvolta, assolve e uccide con la stessa mano.

La grande forza di Dexter, intesa come serie, sta nel riconoscere se stessi e le proprie azioni. Seppur nel difetto, nel sangue e nel bisogno di uccidere, Dexter Morgan mette subito le cose in chiaro.

Mi chiamo Dexter, Dexter Morgan. Non so cosa mi ha fatto diventare ciò che sono ma, qualunque cosa sia stata, mi ha lasciato un vuoto dentro. Le persone fingono molto, io fingo quasi tutto e fingo molto bene. È questo che mi pesa tanto [...]

Il peso più grande che un essere umano sia costretto a portarsi addosso, è quello della maschera che indossa. Dexter è un ematologo della polizia di Miami, il topo da laboratorio che dal sangue ripercorre la storia delle vittime. Certo a lui riesce particolarmente bene, certo, il suo curriculum da serial killer ha gli attributi con tanto di fiocchi e stellette.
Questo personaggio insolito nasce dalla mente dello scrittore Jeff Lindsay, il cui romanzo La mano sinistra di Dio, sembra aver ispirato solamente la prima stagione della serie tv dedicata al suo protagonista, per l'appunto, Dexter Morgan.
Quello che più ci ha tenuti incollati allo schermo, provo ad azzardare, credo sia la presenza narrativa - che poi diventa tangibile - di un codice da seguire che porti all'atto più estremo, tuttavia evitabile, che è la morte.
La morte per mano altrui, un omicidio brutale e ordinato al tempo stesso. Curato nel minimo dettaglio, con tanto di pareti di plastica che gridano alla morale e cercano una confessione, l'ultima. Un attimo prima della fine.

Dexter Morgan assiste all'omicidio della madre quando aveva solo tre anni. Uccisa in modo disumano. Nato nel sangue, come afferma anche lui nel corso della serie, e destinato a viverci tutta la vita. A prendersi cura di lui sarà Harry, padre adottivo e poliziotto che insegnerà a Dexter un codice ben preciso, l'unica possibilità di convivere con quel passeggero oscuro che, altrimenti, lo avrebbe reso uno psicopatico senza alcuno spessore.
E invece Dexter lo spessore ce l'ha.
Uccide, è vero. E questo lo rende un assassino come tutti. Ma il suo codice riesce ad incanalare quel bisogno di uccidere, e fa sì che le vittime siano solo ed esclusivamente assassini che la giustizia non è riuscita a fermare.
Alti e bassi accompagnano tutte le stagioni di Dexter, ma credo sia abbastanza accettabile come compromesso. Significative le evoluzioni di alcuni personaggi, primo su tutti Dexter, il quale si dichiara all'inizio completamente estraneo al mondo normale, fatto di pianto e dolore, di gioia e piccoli o grandi sentimenti. Ma i bambini lo hanno cambiato, la vita insieme a Rita lo ha cambiato. Così come lo ha cambiato suo figlio Harrison, e l'amore per Hannah e - solo nel finale - quello per Deb.  
Alcune scelte narrative mi hanno lasciato addosso qualche perplessità (un finale da nì), cose che non avrei mai e poi mai voluto vedere, ad esempio.
Quella vasca piena di sangue e il corpo di Rita senza vita, e il pianto di un bambino che pare interminabile. L'abbraccio di Debra disperata a Maria LaGuerta. Quella barca che vira verso la tempesta e il mare che ingoia Debra.
Questi sono traumi, non sono scelte narrative.
Ca**o!


Quando finisci di vedere Dexter ti chiedi come farai a vivere senza più le cazzate da pervertito di Vince Masuka. Per dirne una.
Ti chiedi come sarà la vita dopo, quando sul divano provi a capire dove arriva la parte più umana e giusta di te. Ti chiedi cosa voglia dire convivere con un mostro che ti abita dentro. Ti chiedi cosa porti davvero la gente ad uccidere, quanto sia importante una vita e un evento in grado di segnarla per sempre.
Ti chiedi come sarà tutte le volte che guarderai una scatola di ciambelle vuota, e ti sentirai così, vuoto dentro.


Concludo dicendo che di questa serie ho amato molti personaggi. Non dimenticherò facilmente il volto di Trinity, i pancake a colazione e la bellezza di Rita. Ma soprattutto non dimenticherò lei. La sua camminata storta e quel modo di fare da camionista, con tutti i cazzo e vaffanculo che ne conseguono. La sua lealtà di essere umano.
La sua completezza...
Ciao Debra. E grazie.


lunedì 12 dicembre 2016

Gli ultimi saranno gli ultimi



Un modo di dire, una verità comune.
Il finale che non puoi proprio cambiare, perché è stato scritto apposta per te, pensato insieme alle tue fattezze di carne e di spirito.
Il giorno in cui veniamo al mondo non ci facciamo caso, neanche un po'. Eppure quel pianto porta con se una marea di sorrisi e lacrime, e qualche crepa sul muro.

E se c'è una cosa che al cinema italiano riesce davvero bene, è proprio questa. Raccontare le crepe.
Massimiliano Bruno è ormai una garanzia. Autore che inizia a muovere i primi passi con Fausto Brizzi alla regia, nel 2006, con quella notte prima degli esami che più di tanto non mi aveva convinto.
Nel 2011 però arriva l'esordio dietro la macchina da presa, e qualcosa cambia della mia idea di un autore italiano che sta tentando di farcela. E alla fine ci riesce!
Mi piacciono quegli autori che hanno da dire qualcosa, che tengono storie sotto il letto, e le tirano fuori al momento giusto.
Dalle vicende di Alice (Nessuno mi può giudicare) - e quel paese delle (non)meraviglie che è Roma Nord - ad oggi, si definisce un percorso tanto caro al cinema italiano.
Viva l'Italia prima e Confusi e felici poi, confermano una grande dote dell'autore romano. La leggerezza come facoltà di toccare le cose senza disintegrarle, l'esigenza di raccontare una storia che sia vera e fare della commedia a partire dalle disgrazie dell'uomo.
E noi italiani in questo siamo forti!

Gli ultimi saranno gli ultimi porta lo spettatore/italiano medio a guardare se stesso. Consapevolezza e autoironia sono gli anticorpi necessari a superare l'esperienza davanti allo schermo.
Perché diciamoci la verità, la storia di Luciana e Stefano è pure la nostra.
Noi gente di paese un po' provincialotta. Generazione di sfasciati a tempo sempre più determinato.
Ci rivediamo in ogni piccolezza, che non è soltanto cinema poi, ma è ciò che siamo realmente.
Stefano che non vuole stare sotto padrone, che la sola cosa a cui tiene è un accendino che porta lo stemma della sua squadra. Stefano che ancora non sa cosa voglia dire un figlio, ma che all'atto pratico poi capirà.


E Luciana che combatte come un leone, davanti a un frigo vuoto, anche se le parole giuste le vengono in mente sempre un attimo dopo.
Luciana che forse più di ogni altro personaggio incarna l'Italia, donna e madre disperata che non riesce a gestire tutta quella umiliazione.
L'ultimo film di Massimiliano Bruno nasce come pièce teatrale, e si vede.
I personaggi si muovono come pedine sul tavolo da gioco, corpi nudi privati di tutto. In fondo è questo che fanno gli attori, quelli autentici, che quando li guardi rivedi te stesso e poi ti racconti in terza persona. E noi, tra i tanti che ci provano sul serio, abbiamo Paola Cortellesi e Alessandro Gassmann.

E abbiamo un autore che parla di noi, che si ferma laddove le crepe sono destinate a restare. Che vede la nostra vita, una vita di merda che però ci piace, e la vuole raccontare.

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