"Il massacro e l'orgoglio", le aveva suggerito Ferruccio de Bortoli.
Ma lei non era convinta. Tuttavia rimase in silenzio, per un po'. Poi si accese una delle tante sigarette di quella mattina e, all'improvviso, scattò dalla sedia.
"La rabbia..."
Tutta quella che aveva dentro.
La rabbia e l'orgoglio.
La mattina dell'11 settembre Oriana Fallaci era lì. Nel suo appartamento nel centro di Manhattan, sulla 61esima.
La ragazzina che faceva la staffetta da una sponda all'altra dell'Arno, durante la Resistenza.
La giovane corrispondente di guerra in Vietnam, la giornalista quasi morta ammazzata a Città del Messico. La "guerrafondaia" di cui molti parlano, a suon di accuse immeritate, spesso meschine.
Era presente nonostante il silenzio di quel periodo, di esilio, lontano dall'Italia, dalle "cicale di lusso", come amava definirle lei.
Gli italiani, sì. Gli uomini che contano e quelli da niente, e poi la gente. Quelli che all'indomani dell'11 settembre gridavano: "Gli sta bene. Agli americani!"
Per questa e tante altre infinite ragioni, Oriana Fallaci decise di allontanarsi da Firenze, dalla sua patria. Era convinta che ormai gli italiani non volessero più ascoltare, né sapere, né vedere. E il principio fondante di quella professione che oggi è morta, insieme a lei, dopo di lei, muore di conseguenza.
A nessuno importa che siano vere, le storie che si leggono sui giornali.
E poi Oriana aveva questo brutto vizio. Ti obbligava a riflettere...
La rabbia e l'orgoglio, in principio, era una pila di fogli raccolti in una cartella rossa. Erano i pensieri esplosi dopo l'Apocalisse, tutto ciò che Oriana aveva tagliato al fine di rispettare le volontà dell'editore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli.
Lui le chiese un articolo, la sua testimonianza di quella tragedia.
Lei lo accontentò.
Sai, io credevo d' aver visto tutto alle guerre. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono. Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio, neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho sempre visto la gente che muore ammazzata. Non l' ho mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè buttandosi senza paracadute dalle finestre d' un ottantesimo o novantesimo o centesimo piano. Alle guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran fracasso. Quelle due torri, invece, non sono esplose. La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La seconda s' è fusa, s' è sciolta. Per il calore s' è sciolta proprio come un panetto di burro messo sul fuoco. E tutto è avvenuto, o m' è parso, in un silenzio di tomba. Possibile? C' era davvero, quel silenzio, o era dentro di me?
La prima edizione de La rabbia e l'orgoglio arriva nelle librerie italiane il 12 dicembre 2001. Tre mesi dopo l'11 settembre e dopo la pubblicazione sul Corriere della Sera del 29 settembre.
Tante polemiche, un dibattito che ancora oggi si accende non appena si fa il suo nome: Oriana Fallaci.
La matta, la fascista, quella che preferisce la rabbia al "volemose bene" sempre e comunque.
Eppure la rabbia ci rende così terribilmente umani, come si può sostenere il contrario?
Tiziano Terzani, in una lettera alla Fallaci, parla del suo articolo come di invettive pregne di rabbia, e di quanto egli sia rimasto sbigottito dinanzi alla evidente perdita della ragione di lei.
Di lei che vedeva la gente ammazzarsi, bruciare viva. Di lei che vedeva le torri fondersi come un panetto di burro. Di lei che la guerra l'ha sempre vissuta in prima linea.
Ma è politicamente scorretto incazzarsi, sputare addosso agli uomini cattivi, alle barbarie. Ed è scorretto dire le cose come stanno, è scorretto lasciarsi divorare dalla rabbia e dall'orgoglio.
Sarebbe meglio lasciare che sia Dio a decidere, a intervenire dinanzi alla violenza, alla morte.
Sarebbe meglio contemplare dalla finestra un filo d'erba e sorridere, "Peace&Love".
Tiziano Terzani, così come molti altri colleghi e non, trascurava però un dettaglio affatto trascurabile. Lui ad esempio esortava la Fallaci a starsene sulla sponda del fiume, a vedere la corrente. Stare buona, non sputare, non incazzarsi, non parlare male.
Ma come si fa, se si conosce davvero questa giornalista scrittrice, a dire alla Fallaci di starsene buona e sulla sponda del fiume?
La sua mano è feroce ma si muove solo dopo aver toccato l'anima. Senza nemmeno chiederti se lo vuoi o meno, lei ti obbliga a ragionare. Sull'Italia, sull'America, sul mondo Islamico.
La bellezza che non trovo altrove è tutta in questo libro, e in tanti altri, che si muove entro i cardini del giornalismo, attaccato alla verità, e poi si stacca e prende il volo.
Un libro è soprattutto un sentimento che esplode. Non necessariamente "corretto".
Certo, devi saperlo raccontare.
E Oriana sapeva farlo.
Mostruosamente bene.