lunedì 29 luglio 2013

Mr. Brooks - Dio concedimi la serenità di accettare anche questi film...



Mr. Brooks è un imprenditore di successo. Un uomo dall'apparente calma super controllata, uno con un capello mai fuori posto. Con l'ufficio immacolato e dalle abitudini rigorosamente rispettate fin nei minimi dettagli. Mr. Brooks frequenta un gruppo di alcolisti anonimi ed è solito affidarsi a una delle più note preghiere circolanti nelle terapie di questo genere, quella scritta del teologo Reinhold Niebuhr, La preghiera della serenità.

Dio, concedimi 
la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, 
il coraggio di cambiare le cose che posso, 

e la saggezza per conoscere la differenza.


Sulla scia di questi intimi confessionali del signor Brooks, il regista Bruce A. Evans, cerca ("cerca") di costruire un thriller che gioca sulla duplice identità del protagonista, riflessa tra l'altro allo specchio in più di un'occasione, quasi si sentisse il bisogno di sottolineare allo spettatore che Marshall fosse effettivamente l'alter ego di Brooks. Certo tutto riporta a quel Fincher di Fight Club. Terapia di gruppo, alter ego e l'apatia di un comune essere umano. In realtà sembra più un disperato e patetico tentativo di scopiazzare qualche idea per metterla dentro il film. La sceneggiatura non credo sia il problema più grande di questa pellicola. Pensare che è stato scritto dalla coppia Raynold GideonBruce A. Evans alias quelli che hanno adattato il racconto di Stephen King The Body per quel piccolo capolavoro dai battiti adolescenziali diretto da Rob Reiner, Stand By Me.

Lontani anni luce da quelle vette, di questo Mr. Brooks si potrebbe dire semplicemente che Kevin Costner il serial killer non lo può proprio fare. Poco credibile, a tratti perfino ridicolo e imbarazzante. Basti pensare al suo modo di enfatizzare il post omicidio, con una mezza giravolta e una sorta di orgasmo da serial killer. Così come è fastidioso il suo modo di tirare su il naso tutte le volte che la sua vocina malefica Marshall tira fuori il suo lato oscuro e questi, il signor Brooks, non riesce a dominarla finché non sarà costretto a cedervi. A peggiorare ulteriormente la credibilità del film mettiamoci la presenza della poliziotta coatta Demi Moore, così come quella del giovane voyeur cretino "aspirante" serial killer.

C'è chi può e chi non può. Io può...


Insomma l'idea non era originale e gli attori non hanno aiutato affatto. Guardando la locandina di questo film, del 2007, ho ripensato ad un altro titolo che al contrario ricordo mi sorprese in maniera positiva. One hour photo è a mio avviso, la prova vivente del fatto che un grande attore (Robin Williams ad esempio), possa calarsi in ogni ruolo. 

E poi diciamoci la verità, papà Kent che sgozza un poveretto con una pala, non si può proprio guardare...




mercoledì 24 luglio 2013

Hesher è stato qui



Forse qualcuno di voi sa dell'espressione "Kilroy was here", nota tra gli americani durante il periodo della Seconda Guerra Mondiale, oppure avrà visto quel disegno sul muro, e ricorderà l'omino calvo col naso lungo. Quel che è certo è che, molti di voi, avranno pensato a Cliff Burton nell'immediato, quando sullo schermo è apparso quel capellone tatuato di Hesher. Joseph Gordon-Levitt in effetti non ha mai nascosto di essersi ispirato al bassista dei Metallica per rendere al meglio le fattezze vagabonde e disturbate proprie del personaggio voluto da Spencer Susser.

Opera prima per il regista, Hesher è stato qui è un ritratto amaro e claustrofobico sull'accettazione della perdita. T.J./Devin Brochu è un ragazzino distrutto e disorientato dalla morte della madre, avvenuta in un incidente d'auto. La stessa su cui viaggiavano lui e il padre Paul/Rainn Wilson. Questi non avrà reazione alla perdita della moglie se non quella di affogare nelle pillole e vegetare in casa, diretto e accudito dalla sola donna rimasta in famiglia, la signora Madeleine/Piper Laurie. A rompere la quiete del dolore e dello stato depresso di padre e figlio ci pensa un insolito vagabondo dai modi inspiegabilmente violenti e un corpo che parla per mezzo di tatuaggi piuttosto espliciti. Hesher è un po' l'angelo del male sceso momentaneamente tra i comuni mortali. Come suggerisce il titolo stesso, si capisce che questo moderno figlio dei fiori è "qui" di passaggio e non ha intenzione di fissare dimora.

Il giovane attore statunitense credo abbia dato qui, una delle sue più grandi prove d'attore. Una figura complessa, che porta dentro un male quasi mai afferrabile se non verso il finale del film. Certo è che la grande performance di Levitt non compensa (almeno non del tutto), le piccole imperfezioni che, nel corso della visione, "saltellano" davanti ai nostri occhi. Nel cast troviamo anche una bella e impacciata Natalie Portman, nei panni di una ragazza terrorizzata dall'idea di una vita anonima, del sentirsi una signora e non una ragazza, solo perché fa la cassiera e indossa un paio di grossi occhiali. Peccato perché il film avrebbe potuto dare davvero di più, non manca nel dire a chi guarda che a volte la vita ci toglie qualcosa e in questi casi dovremmo semplicemente guardare cosa è rimasto. Ciò che abbiamo ancora.


Non convince però il cambiamento inaspettato e inspiegabile di Hesher. Quello dalle manie piromani, violente e quasi mai comprensibili che alla fine diventa una sorta di messia maledetto. Quello che con la storia del "coglione" sinistro incanta i fedeli. Così, quell'attimo di quiete ed equilibrio apparente, dalle umane corde che si toccano nel vedere una vecchietta a fumare "sigarette curative", e quella corsa disperata di chi è arrivato troppo tardi e non ha mai ascoltato, perde un po' del suo fascino e non arriva dritto al cuore, come avrebbe potuto (e/o dovuto).


domenica 21 luglio 2013

Cena tra amici



Piove, è domenica e i bambini stanno dormendo. Ergo, ho il tempo per scrivere qualcosa...

Un paio di giorni fa ho visto questa commedia "fvancese", Cena tra amici, e mi son detta subito: ma noi italiani quando partoriremo un'idea, anche solo accostabile a questa nata dalle menti di  Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte? Mai.
La risposta pervade i nostri corpi di un profondo senso di rassegnazione e amarezza, inutile negarlo. E poi a pensarci bene, i nostri autori orchestrerebbero il tutto partendo già da qualcosa che non avrebbe lo stesso sapore ironico e pungente che domina il salotto di Pierre e Babou. Il nostro Vincent magari diventerebbe Vincenzo, e annuncerebbe ai presenti l'arrivo di un figlio maschio che vuole a tutti i costi chiamare...che so, Benito???

No, non sarebbe lo stesso. Chi ha visto il film sa ovviamente di cosa sto parlando. Perché a mettere in moto questa commedia deliziosa e intelligente, dai tempi accelerati e pungenti, è proprio un nome. Adolphe (non Adolf), ma non fa differenza in effetti, la nostra prima immagine è quella dell'uomo che ha sterminato mezza Europa. Sarà così anche per gli amici di Vincent, il futuro papà del piccolo Adolphe. Vincent ha un senso dell'umorismo elevato, anzi sfacciato e senza un briciolo di pudore. E' solito annunciare sempre le notizie a coppia, quella brutta e quella cattiva. Non a caso esordisce così: "la notizia buona è che è maschio. Quella cattiva che...è morto!".


La sua tipica faccia da schiaffi francese però sa come conquistare lo spettatore, altro che. Così come i colleghi, tutti in perfetta simbiosi con l'appartamento e i ritmi comici richiesti dal testo. Ricordiamo che il film è ispirato all'omonimo lavoro teatrale diretto dagli stessi registi, Le prénom. Ecco perché la casa si fa palcoscenico e gli attori hanno l'opportunità di esibire tutte le loro abilità teatrali. 

Io che adoro la commedia inglese, un titolo su tutti L'importanza di chiamarsi Ernest (il mio film antidepressivo per eccellenza) non posso fare a meno di togliermi il cappello di fronte ai francesi, perché quando ho la fortuna di beccare in tv film come questo, mi sembra sempre di aver assaporato una comicità nuova, una boccata d'ossigeno. Una sorta di rinnovamento culturale e spirituale. 


Quel che amo di più di questo film, oltre alla sceneggiatura geniale ed originale, è il gioco delle figure che si scontrano e si stuzzicano all'interno di questo appartamento parigino. Tutti amici da una vita, eppure così diversi tra loro. Gli scambi tra Vincent e Pierre sono irresistibili. Ma la mia beniamina è in assoluto Babou. La moglie, la sorella, la mamma, l'insegnante di seconda classe rispetto al marito. Quella che adora il suo migliore amico e crede ancora che i segreti esistono solo se si confidano alla nostra "persona" (si, fa molto Grey's Anatomy lo so...). Quella che si infuria se gli ospiti/amici proseguono una conversazione interessante mentre lei va di la in cucina a controllare la cena. Il suo sfogo nel finale mi ha fatto pensare a tante situazioni provate sulla mia stessa pelle e mi ha fatto pensare soprattutto a quanto sia fondamentale salvaguardare le amicizie di una vita. Nonostante i problemi, le rivelazioni più sconvolgenti e difficili da accettare. E' che uno alla fine tende a dimenticare quanto sia vitale discutere, scontrarsi e sbellicarsi dalle risate con qualcuno che sappia riempirti la casa e, perché no, prenderti un po' in giro. Trovando spunto dal titolo di un romanzo sulla libreria, passando una serata al limite delle nostre possibilità e realizzando una sorta di Carnage al rovescio. Laddove a muoverci non c'è il Dio del massacro (come lo chiamo io) Polanski, no. Ci sono solo le nostre debolezze e le nostre virtù, e il nostro bisogno di sentirsi "parte di"...

Un film assolutamente da vedere!!!



giovedì 18 luglio 2013

Fight Club



"Tu non sei il tuo lavoro, non sei la quantità di soldi che hai in banca, non sei la macchina che guidi, né il contenuto del tuo portafogli, non sei i tuoi vestiti di marca, sei la canticchiante e danzante me**a del mondo".
La vita tranquilla di un normalissimo e benestante assicuratore di una casa automobilistica, Edward Norton, viene profondamente stravolta dall' arrivo di Tyler Durden (Brad Pitt), un individuo piuttosto insolito dedito alla vendita di saponi. Norton però, stereotipo dell' uomo moderno, soffre di insonnia e di una terribile ansia che lo porteranno a frequentare gruppi di incontro per malati terminali. Qui in effetti il protagonista riceve come una sorta di beneficio consolatorio-psicologico, poiché si rende conto di essere l' unico sano tra i "veri" malati. La sua "quasi" ritrovata tranquillità però viene nuovamente messa in discussione dall' incontro con Marla (Helena Bohnam Carter), un' altra finta malata intrufolatasi come lui nelle terapie di gruppo.  La soluzione ai suoi problemi sembra dunque non arrivare, finché lo stesso Tyler non lo coinvolgerà nel progetto "Fight Club". 



Chiamiamola "boxe clandestina", anche se nel Fight Club non c'è chi vince e chi perde, a dominare gli animi degli adepti-combattenti è solo ed esclusivamente la voglia di una profonda rivincita spirituale, combattere contro (se stessi?) per vincere contro una società contemporanea annichilita e schiava del consumismo e del qualunquismo. Ogni membro del Club tra l'altro conduce parallelamente una vita assolutamente normale ma sarà di vitale importanza mantenere segreta l' esistenza dello stesso. 
Ogni sera questi appartenenti al club se le danno di santa ragione e combattono corpo a corpo fino allo sfinimento a volte, eppure, nei loro volti si percepisce una sorta di soddisfazione che deriva da un profondo senso di liberazione poiché solamente attraverso quei violenti pugni essi ritroveranno la via per un riscatto personale.
"Le cose che possiedi alla fine ti possiedono". Questa è la filosofia di Tyler, che, al contrario di Norton, è animato da un forte senso rivoluzionario, anticonformista e ribelle. Tyler infatti non mancherà di ricordare al protagonista, afflitto per aver perduto il suo costosissimo appartamento e dunque tutti i suoi beni, che nulla è davvero necessario e indispensabile come sembra, tutto è un macabro e convenzionale frutto di un sistema di massa di cui noi siamo schiavi. Fanno riflettere e pungono come spilli le parole di Tyler quando confida a Norton che ciò che più di tutto lo spaventa in questo mondo sono le celebrità sulle riviste, il volto del tizio che sta sulle sue mutande, la televisione con cinquecento canali...
Disegnato secondo precise e inviolabili "regole" il Fight Club arriverà però a degenerare in un vero e proprio gruppo terroristico chiamato "Progetto Mayhem". Specializzato nella realizzazione di esplosivi con l' utilizzo del grasso umano, atti a colpire le istituzioni.
Quando il protagonista si renderà conto di ciò che è stato creato, sarà ormai "difficile" stabilire nuovi e risanatori ordini tra i membri del Fight Club, poiché nessuno sarà disposto a violare quelli già stabiliti. 




Fincher dirige questo spettacolo inquietante secondo delle logiche che già ci aveva mostrato non troppi anni addietro con il thriller drammatico sui sette peccati capitali Seven (1995). Anche qui infatti il regista ci immerge in quelle atmosfere buie, violente e quasi mai illuminate se non da quelle psichedeliche e azzeccatissime luci al neon che si impiantano incredibilmente nella mente dello spettatore.

Doveroso ricordare che il film risulterà essere un eccellente adattamento dello splendido romanzo di Chuck Palahniuk, e che lo stesso scrittore si dimostrerà entusiasta della trasposizione cinematografica di Fincher (quindi doppi complimenti al regista). La denuncia di Fincher è la denuncia di un mondo ormai dominato dalle logiche capitalistico-industriali e l' uomo, ormai solamente vittima e a volte complice di questo sistema, non fa che vivere di cose materiali, preoccupato solo ed esclusivamente ad "addobbare" il proprio appartamento firmato Ikea.




In un' ottica assolutamente dura e tragica al tempo stesso, ma cinematograficamente parlando più che mai apprezzabile, il regista, decide che per l' epilogo della vicenda di Norton-Tyler avremmo dovuto assistere (e così sarà) all' "autodistruzione" del protagonista, che altra via d' uscita non trova, se non quella di sbarazzarsi una volta per tutte del suo "alter ego" (e di se stesso).

*Questa, è stata una delle primissime recensioni scritte per CriticissimaMente. Eh sì, ho fatto una sorta di recupero/riciclo, anche perché martedì ne ho parlato in radio e con la scusa vi beccate pure il podcast...





martedì 16 luglio 2013

The Lone Ranger - Quando i critici cazzuti scrivono di cinema.



Sì ok, non sottovalutare mai le spese fa di noi degli elementi dotati di natura riflessiva e saggia, almeno fin quando teniamo la mano nella tasca...soprattutto fa di noi dei grandi conoscitori e ammiratori della Settima Arte, l'esigenza di scassare l'anima a chi fa cinema e a chi lo guarda con quella leggerezza che, ogni buon critico "d'oc", si è rigorosamente promesso di eliminare dalla lista delle proprie possibilità esistenziali, ancor prima che professionali.

Nonostante il mio ritardo vergognoso, e la mia assenza in questi giorni sul blog, devo ammettere che è bastato arrivare alla prima virgola del post per ritornare alle sensazioni fresche di visione in sala. Al momento preciso in cui io ho detto a me stessa, cacchio ma il Cinema allora può davvero esistere in funzione della sua più congenita abilità di "intrattenere"? Può, può eccome. Anzi deve...


Su questo ultimo film, che vede di nuovo insieme la ciurma capitanata da Gore Verbinski, se ne sono dette già di tutti i colori. No aspetta un attimo. A dirla tutta si è detta per bene la stessa filastrocca fin da prima dell'anteprima, e ancor prima di ogni prima possibile. Perché voi dovete sapere che il critico "cazzuto" è quello che può parlare del film ancor prima di vederlo. Eh già...davvero. Non ci credete? Eppure è così. E non immaginate quanto io mi diverta a leggere le elaborate paranoie critiche e saputelle di chi scrive, con quella presunzione di poter dire tutto, sottovalutando poi la fondamentale prerogativa di chi scrive e di chi legge, ovvero la voce del verbo "VEDERE". Io ho imparato senz'altro a farmi un'idea, così come facciamo tutti. E le idee vengono quasi sempre a priori, entriamo in sala con un'idea ben precisa. Poi accade che questa può legittimarsi oppure frantumarsi, per dissolversi poi nell'entusiasmo generale che chiude quelle due ore circa passate in sala. 

The Lone Ranger non è un capolavoro, ma è pure banale starlo sempre a sottolineare. Voglio dire, possibile che si deve e si può discutere, solamente ruotando attorno a questo terribile e fastidioso paletto che divide in due le acque della critica, condannando e condannandoci ad una sola alternativa di giudizio: capolavoro o no. E se non è un capolavoro è un flop. Flop uguale merdume cinematografico e così via...
No, io finché posso mi rifugio nella via di mezzo e provo a guardare quello schermo libera e incondizionata, anche perché se il critico cazzuto ha detto che The Lone Ranger è inguardabile e che Johnny Depp è ormai alla frutta, altro non ha fatto che darmi un buon motivo in più per correre in sala.
(Che simpaticoni i critici cazzuti...)


Mi è capitato di discutere in maniera accesa con amici e colleghi, diciamo così, ancor prima di vedere il film. Per le ragioni elencate prima. Un amico ad esempio sostiene che per andare al cinema, bisogna avere almeno un buon motivo e, a detta sua, The Lone Ranger proprio non gliene dava. Figuriamoci, il Pirata dei Caraibi trapiantato nel deserto. Rispettabile pensiero, per carità. Ma io non sono d'accordo. Eviterei di dire, anzi di ripetere, quanto io ami il "mio Johnny". Quindi non lo faccio e mi salvo, se non altro ci provo, dagli attacchi che mi condannerebbero (e così sarà) alla nomea della critica fasulla che va a vedere The Lone Ranger solo perché c'è Johnny Depp (embè?). Ma andiamo avanti.

A me bastava pensare a questo personaggio visto già in serial e film, alla più nota vista anche in Italia come Il cavaliere solitario, e ancor prima letto in un fumetto e ascoltato in un programma radiofonico. Verbinski sceglie di strutturare il suo Lone Ranger sulla scia di ricordi ed emozioni di un vecchio indiano esposto ad una mostra/museo, e fa in modo che il suo primo ascoltatore/spettatore sia proprio un bambino. Il vecchio indiano è Tonto/Depp, e dai suoi occhi e dalle sue immediate fattezze strambe parte la storia di questo uomo della legge divenuto Ranger mascherato, John Reid/Armie Hammer. Alla base c'è l'esigenza di una giustizia, la storia di un avvocato che rimane deluso dalla sua dea e la storia di un indiano emarginato. Questi due personaggi, le loro stesse storie finiranno per confluire in un unico fiume narrativo, scontrandosi e riconciliandosi a tremila all'ora, lungo i binari di un treno che sembra gridare al cinema di una volta. Non dimentichiamo che il CINEMA INIZIA PROPRIO CON UN TRENO...


Nonostante la sua durata, per molti eccessiva e inutile, io non ho mai sofferto il tempo durante la visione del film. Sarà che amo abbandonarmi alle sequenze più tipiche dell'action, un action che si esibisce nelle distese del western e ti solleva quel mucchio di polvere e terra che fa strizzare gli occhi. Il Tonto di Depp è perfetto e sembrerà assurdo confessarvi che io non abbia pensato a Sparrow neanche per un secondo, piuttosto io ho rivisto il senso di emarginazione e di solitudine che esplodevano pacatamente negli occhi di Edward (mani di forbice). Il Tonto di Depp non beve rum, non appare grottesco e non fa ridere. Oppure se lo fa, rimanda a quei sorrisi più amari, distanti anni luce da quelli che seguivano alle gesta del brigante Jack.

Volevo mantenere una certa forma contenuta, non ce l'ho fatta. Volevo parlare dell'Overture di Rossini e delle spettacolari musiche di Hans Zimmer. Volevo parlare di William Fichtner e del suo terribile Butch Cavendish. Volevo parlare della gamba d'avorio della signora Red/Helena Bonham Carter, quando un'attrice dà tutto in due battute e quattro colpi di ciak!. Volevo parlare del sapore western e delle sequenze dedicate al deserto e alla polvere, ai cavalli che sembrano rompere il silenzio in sala. Volevo parlare di un film che, nonostante il fiasco al botteghino americano e nonostante i critici cazzuti, a me ha ricordato la più nobile e semplice delle emozioni che sanno riempire le sale. Il divertimento, il sentirsi leggeri per un paio d'ore. Assistere ad uno spettacolo che può vantare l'abilità di un regista non perfetto ma abile nel "confezionare". Volevo scrivere una recensione che somigliasse almeno un po' a quelle dei miei abili e illustri colleghi. Ma io non sono una critica cazzuta. A me piace pure fiondarmi in sala senza stare ad ammazzarmi di paranoie, con l'entusiasmo  che mi riporta un po' a quando avevo dieci anni. Perché il cinema, cari critici cazzuti, che lo vogliate o no, è anche QUESTO!!! 





*Ora che ci penso, ho scritto "flop"? Aspetta aspetta, sì. L'ho scritto. 
Cavolo, allora sono un critico anche io...







lunedì 8 luglio 2013

I tuoi maledettissimi impegni, e "quello che una musica può fare".



Non si può combattere il tempo, al limite lo puoi ammazzare...

Ci vuole tempo per imparare a non avere tempo, e qualcosa mi dice che tutto l'inghippo sta nel salvaguardare la voglia di giocare con il tempo, con la vita, con gli impegni e con tutto ciò che ci manda quotidianamente in tilt. Max Gazzè in questo suo ultimo videoclip, racconta e sintetizza in poco più di quattro minuti, il male più comune dell'uomo contemporaneo. Il male del tempo. 

Nella frenesia delle nostre giornate perdiamo per strada il nostro entusiasmo, la nostra predisposizione ad attendere due minuti che l'altro ci suggerisca qualcosa. Un pensiero, una battuta, anche un'uscita stravagante e senza apparente senso. Perché non siamo più in grado di ritagliarci del tempo? Dov'è il nostro reale difetto di fabbrica...nessuno può dirlo con certezza però vedete, la magia della Musica...

Nel '99 Max cantava Una musica può fare, e oggi torna come un'eco su quelle parole di speranza e di ottimismo sfrenato, che ci portava a vedere la dea della musica come una supereroina dal mantello rosso, che salvava dall'orlo di un precipizio. Oggi sembra che tutto diventi più complesso, perché oggi cantare le canzoni non basta più?

Forse perché andiamo troppo di fretta, con la smania di arrivare e di (tutto)fare che alla fine non concludiamo mai un bel nulla. Se non l'inutile e dispensabile. 

La genialità di questo cantautore romano sta tutta nella capacità di osservare e stuzzicare gli esseri umani, la società che li ospita e li fa correre a tremila all'ora. Chi ha l'occhio più sensibile e per abitudine scruta fino all' al di là dell'apparenza, finisce che va fuori di testa, non viene compreso. Ecco allora che un Cappellaio matto affiora nel bel mezzo di maschere tutte uguali, piene di nulla. Un Cappellaio che alla sua tavola non vedrà mai i suoi commensali, tanto matti quanto lui. Si diventa così, perché la donna o l'uomo che ami non sa più giocare, non sa trovare il tempo, non VUOLE trovare tempo. 

I tentativi e le rocambolesche trovate poetiche non basteranno più per loro, ma continueranno a dare una speranza a quanti invece credono ancora nel potere della musica, della fantasia. 

P.S.
Caro Max, la mia borsa è sempre aperta...



giovedì 4 luglio 2013

Voce del verbo NO!



Un paio di sere fa, mi è capitato di riordinare il mio cassetto del comodino, accanto al letto. Ritrovo per caso un libro acquistato circa un anno fa, scritto da questa psicoterapeuta infantile Asha Philips, I no che aiutano a crescere. Le mamme e i papà che seguono questo blog, potrebbero prendere questo post come un piccolo consiglio pratico, ancor prima che letterario.

Quasi mai mi fermo davanti allo scaffale "psicologia" o educazione infantile, nonostante il mio essere madre di due bambini. Ho sempre visto questa avventura con i figli come qualcosa che non può essere insegnato a mo' di corso, così come ho sempre creduto che l'essere genitore sia un meccanismo naturale che si avvia e si migliora (almeno si spera) nel corso degli anni. Quella volta, caso strano, mi va l'occhio su questo libricino dalla copertina azzurra, sarà stato il volto di una bambina in bianco e nero e la sua linguaccia a richiamare la mia attenzione, credo. Certo anche il titolo ha avuto il suo bell'impatto su di me, I NO che aiutano a crescere. Quante volte, mi sono detta in quell'istante che anticipa di pochi secondi la decisione definitiva di acquistare il libro che si tiene in mano, mi sono trovata in difficoltà nel dire un No. Una banale parola, una sillaba, eppure un suono che rimbomba nelle orecchie e nella testa di un genitore e di un figlio, come una condanna a morte.

Dicendo NO è come se gettassimo in maniera definitiva tutte le speranze e le aspettative che un bambino, il nostro bambino, aveva riposto in noi. Ecco perché ci fa troppo male quel no, ci fa sentire dei mostri, delle figure quasi dittatoriali. Una sensazione straziante...
Però, il più delle volte ignoriamo l'importanza di quel no, anche se questo comporta poi tutti i turbamenti, nostri e dei bambini. Questo libro torna utile nel momento in cui noi dimentichiamo che siamo diventati gli adulti che siamo oggi, proprio grazie a quei no, che hanno turbato prima di noi, i nostri genitori. La Philips riesce a convincere e a rassicurare il lettore/lettrice, perché non non ha la presunzione di dettare delle leggi, come fanno tanti psicoterapeuti o psicologi. Al contrario lei, con assoluta delicatezza, racconta tutta una serie di casi vissuti al fianco dei genitori e dei figli nelle loro stesse case, intervenendo proprio nel momento fatidico che precede il No.

Aprendo qualche pagina a caso, in quella libreria, mi ritrovo in un capitolo dedicato all' adolescenza dei nostri figli. Capirai, mi son detta, troppo ce ne vuole per me, i miei hanno da poco imparato a camminare...però mi ha rapita questa espressione che racconta in poche righe la fase più delicata della nostra vita:

"Non penso di contare qualcosa, ma a volte anche per me
il cielo e la terra sono troppo piccoli".
Kujo Takeko

Ancor prima di affrontare situazioni difficili come il momento del distacco madre-figlio poco prima di dormire, cose che nemmeno credevamo possibili. Ci sono tutte le nostre ombre del passato che ci ruotano attorno, senza nemmeno rendercene conto, ciò che influenza di più le nostre decisioni, sono quelle che i nostri genitori hanno preso prima di noi. Una miriade di stati d'animo che si scontrano ed esplodono dentro di te e dentro i bambini, qualcosa difficile da spiegare. Ecco, in questo libro si capisce una cosa fondamentale secondo me. A volte a condizionare le nostre scelte sono i nostri stessi disagi vissuti quando eravamo bambini. Come la paura di lasciar dormire da solo un figlio, un no dentro al supermercato per una spesa che non si può affrontare in quel momento, per un altro giocattolo (forse l'ultimo dei settecentomila che vagano per casa e spuntano da ogni dove). Insomma, la cosa più importante è fare chiarezza con noi stessi, metterci nella condizione che un no, detto al momento giusto, non significa pugnalare nostro figlio. Capire che un no, a volte, rappresenta quel piccolo salto verso la maturità e la serenità di un figlio e dello stesso genitore. Anche perché siamo stati bambini anche noi non molto tempo fa, secondo me la cosa migliore in ogni rapporto ma con un figlio ancor di più, è scendere a piccoli compromessi...

La frase sull'adolescenza mi fa capire che si tratta di una fase destinata a rimanere dentro di noi, al di là del tempo. L'adolescenza non significa avere quattordici o sedici anni, non ha uno standard. Oggi più che mai, oggi che sono madre di due figli e ho ventotto anni, mi sembra che in quelle parole di Takeko, siano racchiuse tutte le mie sensazioni, il mio stato d'animo più frequente. Qualcosa vorrà pur dire, no?


Un pomeriggio, mentre ero ferma al distributore di benzina e aspettavo il resto del rifornimento appena fatto, mi vanno gli occhi su questo padre che discuteva con il figlio. Il papà era fuori a fare benzina, il piccolo era in macchina ad aspettarlo e nel mentre stava facendo qualche richiesta, del tipo: "dai papà, me lo compri, dai dai dai?". Fortuna ha voluto che io non abbia perso la risposta del padre, un po' seccato ma neanche troppo, il quale con la pompa in mano e gli occhi fissi sul figlio esclama con tono severo: "t'ho detto de No, VOCE DEL VERBO NO!!!".



lunedì 1 luglio 2013

La magia di un "Hoketi poketi"...



Come cambierebbe la nostra vita se all'occorrenza, avessimo davvero a portata di mano una formula magica, due paroline inconsuete e "voilà". Ci avete mai pensato?
Io non faccio a meno di pensare a questa cosa, soprattutto la mattina. Perché è la mattina a rivelare, fin dal primo sole, l'andamento di una giornata...

Giorni fa in radio abbiamo parlato di uno dei Classici più belli della Walt Disney, La spada nella roccia, un film del 1963, diretto da Wolfang Reitherman, adattamento del romanzo di Terence Hanbury White, o meglio, del primo capitolo di una tetralogia intitolata Re in eterno. Negli Stati Uniti quello stesso anno, la gente ebbe la fortuna di vederlo in sala, durante il periodo natalizio. Il periodo magico per antonomasia. Penso a tutti quei bambini seduti davanti al grande schermo, e mi immagino le loro espressioni. Estasiati e affascinati dalla semplicità di una fiaba che, dietro svariate trasformazioni e incantesimi, nasconde una delle parentesi letterarie più affascinanti che la storia ci abbia raccontato. Eppure i bambini, noi stessi, mentre guardavamo le avventure del giovane Semola, certo non pensavamo al Ciclo Arturiano. Ci mancherebbe...quello che rapì la nostra preziosa attenzione e i nostri limpidi cuori, fu proprio la semplicità e l'ironia di una fiaba dal sapore medievale, che esaltava le gesta di un umile ragazzino, un po' il "cenerentolo" della tavola rotonda. Il ragazzino dai capelli gialli, mingherlino e curioso, che con assoluta nonchalance estrae una spada dalla roccia e diventa Re d'Inghilterra

L'eroe dei nostri giorni fanciulleschi, affiancato dal mago che ogni bambino ha sognato di avere al proprio fianco almeno una volta nella vita. Il mago sbadato e senza cognizione del tempo, Merlino. E ogni volta che ripenso a lui, ancor prima di immaginare la sua figura più leggendaria, legata ai miti e ai poemi arturiani, me lo vedo con una camicia stile hawaiano, che grida "Honolulu arrivoooo"...


Se avessimo avuto un Merlino a spiegarci l'Amore con un grazioso incantesimo, magari avremmo capito di più di quanto non sappiamo oggi, nella nostra realtà adulta e "formata". Parlare del film, La spada nella roccia, significa inevitabilmente ascoltare una inconfondibile risata, quella di un volatile che pare impagliato ma impagliato non è, Anacleto. Credo che la sua risata si possa innalzare a metafora della spensieratezza e della gioia che esplodono nei sorrisi e negli occhi dei bambini. E' incredibile, ricordiamo poi che la voce di Anacleto è quella del grande Lauro Gazzolo, attore e doppiatore italiano, voce di altri grandi e indimenticabili figure disneyane, tra le quali  il Grillo parlante in Pinocchio, il Bianconiglio in Alice nel paese delle meraviglie, Whisky in Lilli e il vagabondo


Quando si torna a parlare di questi film, si torna indietro e si è travolti da una brezza cristallina e fiabesca. Magari la magia dura per un istante, anche solo per immaginare di avere in casa un gufo parlante e un po' scorbutico, oppure un mago che ti riordina la casa con la magia di un "hoketi poketi". Al di là del cinema, c'è qualcosa che va oltre quando si parla di questi film, c'è di mezzo la nostra fantasia, i nostri cuori liberi e puri di una volta...c'è di mezzo la nostra esigenza di riscoprire ed apprezzare le cose semplici. C'è bisogno di chiudersi per un istante dentro un castello e concedersi anche solo un tentativo di trovare quella spada, per estrarla e aggiudicarsi il trono più ambito, quello della nostra felicità...

"Qualche trovata divertente (un duello tra maghi), ma il resto è un po' inamidato e dimostrativo".
Dal Morandini, Zanichelli editore.

Giusto per sentirsi fieri di non aver mai speso una lira, per questi che, si spacciano come i profeti della settima arte...




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