mercoledì 15 settembre 2021

Mondocane, quel destino che è il contrario della libertà



Mondocane segna l'esordio alla regia di Alessandro Celli, autore e regista romano molto legato ai ragazzi e alle tematiche sociali. Basti pensare a Braccialetti rossi, di cui è stato aiuto regia, oppure alle serie tv Jams, prodotta da Stand By Me per Rai Gulp, e I Cavalieri di Castelcorvo.

Alessandro Celli si presenta al pubblico come un regista decisamente ambizioso, e il primo lungometraggio, vanta il fascino di un film non per forza impeccabile, ma necessario.

La storia di Mondocane è terribile, e non lasciatevi ingannare dalle presentazioni più gettonate che ne fanno un film distopico e post apocalittico.

Non è una dark novel, seppure a livello cinematografico, ma puramente visivo, potrebbe esserlo.

Quella dell'Ilva, l'acciaieria più grande d'Europa, è una storia VERA. 

La storia di questi bambini sperduti, allevati da una "Testacalda" che si muove a metà tra il Peter Pan di Spielberg e il Bane di Nolan, racconta una Taranto fantasma, divisa per classi sociali, abbandonata al suo destino. Una favola neorealista che intreccia il visionario al romanzo di formazione, dove questi "randagi" sognano di diventare criminali, perché forse è la loro migliore occasione.

Il film riflette il lato più oscuro dei nostri tempi, e non parlo solamente della denuncia a sfondo ambientalista. Vedi questi ragazzini, disgraziati, esili, sporchi, soli come cani, che camminano sulla spiaggia portando una croce sulle spalle. Un trofeo che gli ha consegnato il loro unico amico, il mare.

Non sanno nemmeno cos'è, e quei sorrisi appena accennati, quell'innocenza che la vita gli ha strappato via troppo presto, rigano lo schermo con quel fare che è tipico dei bambini.

Così veri, così malleabili.

Sono loro, i veri, grandi, protagonisti del film. Giovanissimi e pieni di talento, Dennis Protopapa, Giuliano Soprano, e la bellissima e intensa Ludovica Nasti. Credo che loro abbiano la forza autentica di gridare contro il mondo, oggi più che mai. Mentre cerchiamo ancora a fatica di uscire da una pandemia che ha stravolto le nostre vite, i nostri figli non hanno nemmeno detto la loro, non si sono potuti nemmeno incazzare, non hanno potuto combattere con niente, perché questo mondo è così bastardo.

Ci sono lockdown che durano da troppo tempo, ci sono nemici più cattivi e mortali di un virus. Questo forse è il messaggio più forte del film.

Un film che non sempre ti dà la possibilità di capire dove stia andando, perché io ho avuto questa sensazione. Non lo so se vuole essere un docu film, un film denuncia, una storia vera, una "favolaccia" che non vorresti nemmeno sentire, ma devi. Ma sono felice di averla vista, ascoltata. Sono felice che qualcuno me l'abbia raccontata. 

Sono felice di aver visto un Alessandro Borghi così umile e allo stesso tempo grande, un gigante in mezzo ai bambini che si fa piccolo, che sceglie i toni recitativi più sommessi pur di non togliere la scena ai giovani attori.



Per concludere, Mondocane è una favola che parla di come muore la speranza, di come siamo colpevoli tutti, di come il destino a volte, fa più male di ogni altra cosa. 

Ma il cinema, quello vero, scardina tutti i piani, a volte.

Il cinema batte il destino. 

Il cinema, è libertà.


P.S. 

Mondocane mi ha riportato in sala dopo tanto, troppo e insostenibile tempo. E' stata una grande gioia, quasi come la prima volta.

Al Cinema Adriano di Roma, poco prima che si spegnessero le luci, in quella penombra di cui inalavo gli odori, tutto, ho ricominciato a correre verso lo schermo, a sentirmi una spettatrice. 

Viva.

Piena di entusiasmo. 

Piena di me.

venerdì 12 febbraio 2021

Questo giorno che incombe, Antonella Lattanzi



Sono tutti giorni che incombono, uno dopo l'altro, inesorabilmente, quelli che Antonella Lattanzi racconta nel suo ultimo libro, bellissimo, implacabile, Questo giorno che incombe.

Nella prefazione l'autrice accenna al suo passato, scava dentro la sua vita, la sua anima di bambina e di figlia, facilitando al lettore quel passo indietro che separa i tempi e rende nitidi i ricordi. 

Tutti abbiamo dei ricordi.

Un esercizio doloroso, ma necessario.

Si può scrivere per vendetta?

Per perdonare o condannare qualcuno, per amore o per odio?

Io credo che si scriva per andare avanti, e si legga, poi, per imparare a non guardare indietro.

Questo giorno che incombe è la storia di una famiglia che si traferisce a Roma, da Milano. La storia di Francesca, che è la protagonista e colei che parla (con se stessa, con la casa), spesso, che si mette a nudo, che si confessa e si redime. Donna piena di vita e ambiziosa, moglie di Massimo, madre di Angela e Emma.

Madre.

"Perché Francesca era una madre. E le madri - glielo aveva insegnato sua madre, ne era certa - le madri amano. Le madri fanno sacrifici. Le madri sanno cosa è giusto e cosa è sbagliato. Le madri ci sono momenti che essere madri gli prende tutto il corpo, e il tempo. Ma sono momenti, solo momenti Francesca, fidati di me. (Quanto spesso parlava tra sé, sempre più spesso ad alta voce? Quanto spesso non ricordava cos' aveva fatto solo un momento prima, o in tutta la giornata? Quanto spesso aveva vuoti di memoria, e si ritrovava in un posto senza ricordare com'era arrivata fin lì?) Le madri sono felici di essere madri.

E tu?"

Ho preso la matita esattamente qui, a pagina 67. Ed è stato il momento in cui ho capito che questo libro, mi avrebbe scavato dentro, più che dentro, in una profondità in cui mai nessuno avrebbe potuto osare spingersi.

Perché la Lattanzi non ha scritto semplicemente un bel libro. Un prodotto bello e confezionato in maniera impeccabile. 

No.

Non è un bel giallo, nemmeno un thriller psicologico di quelli che puoi definire "introspettivi" perché fa tanto chic.

La Lattanzi ha scritto un libro coraggioso, perché dietro la tragica storia di una bambina scomparsa sotto gli occhi di tutti, in un cortile bello e pieno di sole, tra il mare e la metropoli, esplode il dramma della maternità.

Ho detto dramma?

Sì, e lo dico con una naturalezza che qualche anno fa non avevo, sono una madre di tre bambini che amo, ma sono soprattutto una donna. 

Un essere umano.

Mentre leggevo non ero più io, ero Francesca. Ero terribilmente io?

Io/Francesca, che passo le mie giornate da sola in casa, mio marito che esce la mattina presto e torna la sera tardi. Del resto lui lavora, ha un lavoro importante, è per questo che siamo venuti a vivere qui, a Roma, in questo bel quartiere. Io invece ho tutto il tempo che voglio, sto a casa, con le bambine, il mio lavoro è scrivere libri per bambini e illustrarli, la mia editor dice che ce la posso fare, che ce la devo fare. In realtà pensa che se non ci riesco sono una fallita. Anche mio marito si meraviglia del fatto che non riesca a fare nulla, io sto a casa, con le nostre meravigliose bambine, perché dovrei essere stanca?

"Tu sai quanto possono essere lunghe le giornate? Tu sai perché uno ha paura quando è solo?"

Cazzo, lo so tantissimo. Lo so, lo so!

Nient'altro che una madre. Mi ci sono sentita così tante volte, e le giornate incombevano tutte, e io mi sentivo sola, stanca, con un unico grande e inconfessabile desiderio. Quello di sospendermi da tutto e tutti.

Dal mio ruolo di madre, da quel compito eterno.

Come se io - noi donne, noi madri - una volta diventata quello, quella cosa lì, quel "ruolo", venissi avvolta da una nuvoletta soffiata apposta da Dio, accompagnata dalla voce inoppugnabile di un angelo che ti guarda, sorride, e ti dice: "Ora non puoi più sbagliare, sei una madre".

Le madri amano, smisuratamente.

Ma le madri sbagliano, anche. 

Il condominio che ci descrive l'autrice incarna la società, nel pieno rispetto dei luoghi comuni, dei pregiudizi, occhi vitrei e feroci, pronti a distruggerti.

Una scrittura che non stanca mai, che fa esplodere angoscia e rabbia, pagina dopo pagina. Che ti sbatte in faccia la realtà nuda e cruda, senza fronzoli. 

Che ti fa malissimo, ma ti perdona. Ti perdona se ami ancora, se senti il desiderio ancora crescere in te, se pensi che la tua vita valga qualcosa al di fuori del tuo essere madre, donna, ruolo. Anche se torni dal supermercato e ti accorgi che tutte le cose importanti non le hai comprate, ma le hai dimenticate...

(Dio quante volte l'ho fatto!)

Questo libro è una denuncia all'ipocrisia, un atto di coraggio e solidarietà. 

Vorrei averlo scritto io, tantissimo. 

Che bello averlo letto, però.


Il male esiste, intorno a noi e ovunque. 

Fuori le mura della nostra casa, e dentro la nostra anima.

Ma qualcosa di dolce resta.

Resta sempre.

venerdì 29 gennaio 2021

L'amore che ti meriti, Daria Bignardi



Parto da una premessa che mi aiuta sempre ad avvalorare la mia teoria sugli incontri con certi libri, per niente premeditati.

Sono i libri che scelgono te.

Non è così anche per voi?

Daria Bignardi è una donna piuttosto promiscua, piena di talenti. Quelle donne che le guardi e ti chiedi: "Ma come fa questa a fare tante cose? E a farle bene?"

Non mi è particolarmente a cuore, nemmeno mi è simpatica, ma la stimo profondamente per la sua intelligenza e la sua sottile ironia, mai sopra le righe. 

L'amore che ti meriti è il primo dei suoi romanzi che leggo, un titolo che mi ha incuriosito, e sorpreso, perché mi immaginavo una trama completamente diversa da quella che poi ho scoperto. L'autrice racconta una storia e viviseziona le istantanee di una famiglia.

Un dramma. Una scomparsa. Il silenzio che gela ogni cosa. 

Un gigantesco senso di colpa.

Sceglie di farlo attraverso due voci narranti, nonché protagoniste, quella di Alma e di sua figlia Antonia. La prima riporta il lettore al passato, la seconda al presente.

Alma a un certo punto decide di raccontare alla figlia alcuni fatti del suo passato, tra cui la scomparsa del fratello Maio, e altre innumerevoli morti tragiche avvenute in famiglia. 

Antonia, che aspetta un bambino e scrive romanzi gialli, decide di partire per Ferrara, da Bologna, per cercare di capire qualcosa di più su quanto accadde a suo zio, la cui scomparsa segnò il destino della sua famiglia, e pure i tormenti della madre.

Erano gli anni Settanta, a Ferrara era arrivata l'eroina.

Alma suggerisce di provarla, "solo una volta", disse a Maio. Ma lei era quella più forte, lui quello fragile. 

"Mai più".

Lei riuscì a mantenere quella promessa. Lui no.

Una cazzata, quelle che fai a diciassette anni per il gusto di scoprire, di trasgredire.

"Non eravamo contenti né dispiaciuti, solo svuotati e stanchi, come se avessimo sbadatamente perso qualcosa di prezioso ma ce ne vergognassimo e non avessimo voglia di ammetterlo".

Quella della Bignardi è una prosa quasi impeccabile, cavolo è brava!

Però io amo le parole che fanno fatica a sopportare il dolore, quelle che strappano la carta e ti feriscono. Perché le devo sentire, devo uscirne provata, per niente indenne. Sono un po' masochista lo so.

La bravura dell'autrice mi ha impedito di sentire quel dolore e di vivere con Alma e Antonia il dramma della loro famiglia. Questo non vuol dire che se sei bravo non arrivi, eh?

Assolutamente no. 

Credo che L'amore che ti meriti sia un libro piacevole da leggere, alla portata di tutti e dal ritmo incalzante. Non annoia mai, a tratti sembra un thriller psicologico, dalle suggestive scenografie disegnate con estrema cura, e talvolta cuore.

Mentre leggevo, quel cuore lo sfioravo proprio lì, perché l'autrice quando parla della sua Ferrara lo fa senza distacco, ci si butta dentro completamente e questa cosa arriva. 

Una città ovattata, fatta di nebbia e mistero. Di biciclette parcheggiate ovunque e sempre, i portici, il Castello circondato dal fossato, il fiume, la piazza, i pasticci di maccheroni e la besciamella. La malinconia e il silenzio che cade dal cielo non appena si cerchi di recuperare il passato.

Sono belli i momenti in cui si lascia andare, per un attimo mi dimentico che l'autrice è solo una secchiona infrangibile e fredda come un eschimese. 

Scherzo Daria...

Dicono che certi luoghi della nostra vita custodiscono l'amore e il dolore.

E fermano il tempo. 

"Quando eravamo felici e non sapevamo di esserlo".

Ho chiuso il libro e mi ha travolto quella nostalgia dei luoghi.

"Respiravamo un profumo che non ho mai più risentito: l'odore del fiume che si avvicinava alla foce, dove l'acqua dolce si mescola a quella salmastra".

sabato 23 gennaio 2021

Finché il caffè è caldo, Toshikazu Kawaguchi



Siamo nel 2021 e ancora parliamo di viaggi nel tempo.

Come se la cosa fosse démodé, trita e ritrita.

Eppure è stata la mia lettura che ha inaugurato l'anno nuovo, Finché il caffè è caldo, di Toshikazu Kawaguchi.

Che poi a pensarci un libro non deve mai essere giusto o sbagliato. Storicamente corretto, adatto ai tempi che corrono.

Se dovessi leggere badando troppo ai tempi che corrono, be'... non lo so!

La verità, è che un libro, qualunque esso sia, resta sempre la migliore via di fuga dalla realtà.


"Un tavolino, un caffè, una scelta. 

Basta solo questo per essere felici".


Lo leggiamo sulla copertina del libro d'esordio di Kawaguchi.

Non lo so quanto sia vero, se basti davvero "solo" questo per essere felici. Però aiuta.

In Giappone esiste una caffetteria speciale, aperta da più di cento anni. Si dice che chiunque vi entri, poi, una volta uscito, non sia più lo stesso.

Gli spazi e gli eventi vengono narrati dall'autore senza troppi fronzoli, la scrittura è per niente ricercata eppure estremamente leggera, delicata. 

Le parole non vengono gonfiate di prosa e nemmeno tirate allo stremo, mai. 

Anche quando gli argomenti trattati potrebbero richiederlo.


Il lettore viene accolto con un inchino di cortesia che è tipico della cultura giapponese.

Gli orologi sulle pareti della caffetteria e il color seppia del locale creano un'atmosfera retrò, le storie prendono vita davanti a una tazza di caffè fumante, per poi svanire nel fumo che riporta al presente.

Non credo di aver letto un grande libro, ma una piccola grande lezione di vita.

Forse la cosa più incredibile che ci possa capitare non è viaggiare nel tempo e cambiare il presente, o il futuro.

Ma tenerci gli sbagli e cambiare cuore.

E questo è possibile.

Possibilissimo.

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