Passa ai contenuti principali

E la chiamano estate



“E la chiamano estate 
questa estate senza te
ma non sanno che vivo
ricordando sempre te
il profumo del mare
non lo sento non c’è più
perché non torni qui
vicina a me”

Così cantava Bruno Martino, nel suo 45 giri, un testo scritto insieme a Franco Califano e Laura Zanin presentato poi al Festival delle Rose nel 1965. Questo pezzo memorabile, divenuto un classico della canzone italiana rischia oggi, di apparire come un misero inno ai disturbi sessuali compulsivi che affliggono l’uomo moderno. Ebbene, fautore di tale “autoriale” (così lo facciam felice) frode ancor prima morale che artistica è il regista italiano Paolo Franchi, noto al pubblico per pellicole piuttosto “lontane”,  come La spettatrice (2003) e Nessuna qualità agi eroi (2007). Dico lontane e non penso agli anni trascorsi dall’esordio di Franchi, bensì al vertiginoso salto a regredire nel vuoto, compiuto proprio grazie alla sua opera ultima, presentata in concorso alla settima edizione del Festival internazionale del film di Roma, E la chiamano estate.

Ma andiamo per gradi, in fin dei conti (fortuna vuole che) la maggior parte di voi ancora non ha visto il film, dunque cerchiamo di arrivare con le dovute cautele al cuore di questa “complicata” recensione. Dino (Jean - Marc Barr) ama in maniera smisurata la sua donna, Anna (Isabella Ferrari). E quando dico ama lo dico perché ne sono “pienamente” convinta, così come immagino lo fosse Franchi mentre si ingegnava a trovare il modo di rendere sullo schermo questo immane e incondizionato sentimento. Così, pur di salvaguardare un sentimento puro e arrivare dritto dritto all’anima dello spettatore ecco il quadro riempirsi di una luce bianca, graziata. Due corpi quasi fusi in una sola forma, che si inebriano del loro amore con la sola presenza, senza disfarsi, senza toccarsi. Un quadro sul cui sfondo prevale la spogliatezza, la nudità nel senso più lato del termine. Che meraviglia, finalmente qualcuno in grado di afferrare l’essenza dell’amore. L’amore, tutto ruota attorno a questo, che bello…


-Sveglia, sveglia stai sognando ad occhi aperti, guarda bene, osserva attentamente…-


Eravamo rimasti? Ah si, (Dino ama Anna). Tanto, davvero tanto. Lo si capisce fin dalla prima sequenza  tra l’altro che quello che di lì a breve avremmo visto sarebbe stato un por (no)…ehm, scusate, un film d’amore. Dino e Anna non hanno mai avuto rapporti, nonostante le esplicite gambe divaricate della donna distesa sul letto quest’uomo non riesce a fare l’amore con lei. Questo sarà per il povero Dino motivo di terribile frustrazione,  la stessa che necessita di venir colmata ogni notte con performance sessuali davvero variegate, si va dalla coppia leader nel settore scambisti alle prostitute occasionali e a incontri ravvicinati plurimi di ogni genere. A sottolineare la fragilità dell’uomo una voce fuori campo che si fa narratrice di una lettera scritta, quasi come una presa di coscienza/ testamento che sfocia poi in un epilogo tragico ma come nessun altro liberatorio e salvifico, soprattutto per lo spettatore. Franchi sceglie di servire la storia attraverso diapositive atemporali raccontate da differenti voci, ognuna delle quali ha avuto modo di conoscere Dino e Anna e condiviso con loro un pezzo di vita. Grazie a queste testimonianze viene fuori un po’ la persona di Dino, anestesista di giorno e sesso dipendente compulsivo di notte. Un uomo tanto innamorato di Anna da andare a recuperare gli ex della donna, al fine di farli riavvicinare a lei col desiderio di averla ancora una volta, esclamando loro: beh, una scopata non si nega a nessuno! (Dino ama Anna).

Pensare che l’idea di base, poteva andare perfino bene. Franchi parla del suo film come di un tentativo riuscito di un cinema che vuole sperimentare, fare ricerca. Cinema d’autore. Si è parlato spesso in questi termini a mio avviso detti in maniera così poco ponderata. C’era in principio qualcosa che sarebbe andato nella giusta direzione, poiché un amore così, puro, senza l’atto fisico e di un uomo afflitto da gravi disturbi psicosessuali che vede la propria donna come un totem da venerare a “distanza” pochi hanno saputo renderlo sullo schermo. (E non mi parlate di Shame, per favore). Qualcosa, o meglio, tutto il resto, poi però non ha funzionato. Non mi basta il bianco della camera immersa in una luce candida e abbagliante in contrasto con i colori scuri e fastidiosi delle notti piene di sesso. Non mi basta, anzi non mi sta affatto bene il fatto che tu abusi di un testo che richiama con dolore e malinconia un amore perduto e lo schiaffi al pubblico come il biglietto da visita del tuo film. Non mi sta bene e mi fa inorridire il fatto che ci sono volute otto mani in fase di sceneggiatura al fine di arrivare a dialoghi ridicoli e patetici: Lei: caro devi essere stanco, vieni a letto. – Lui: si, amore. Non immagini quanto io sia stanco. (il tutto, con una irritante faccia da ebete di Jean – Marc Barr subito dopo essersi sessualmente ripassato mezzo mondo).

Ma (Dino ama Anna). Su questo, non ci piove.

Commenti

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Quel mostro di me

Certi giorni mi vanno stretti, ci sto dentro a metà. Altri mi sembrano grandi come l'oceano. Sguazzo, mi perdo, sto serena. Scrivere Madrepàtria - Racconti dell'umana sorte ha significato molto per me.  Fin dal principio ho capito che quello, era il mio modo di esorcizzare i mostri più radicati nell'anima. Forse scrivere è davvero un atto terapeutico ancor prima che creativo. Ma certi mostri non li puoi cacciare via definitivamente, devi imparare a conviverci.  Questi racconti hanno avuto la forza di tenerli lontano da me, quei mostri, almeno per un po'. Di guardarli con scherno, prima da dentro e poi a distanza di sicurezza. Ma quali sono davvero questi mostri? Cos'è che sto allontanando? Ho paura che si tratti di me.  Di un ruolo sbagliato (così dicono), che ho rincorso a fatica, che poi ho cambiato, che poi ho abbandonato. Mi adatto continuamente, e continuamente non mi ritrovo. Scrivo, metto da parte, allontano i mostri, allont...

Dylan Dog, il film. Ogni cinefilo ha il suo incubo.

Licantropi e vampiri , direi che ne abbiamo fin sopra ai capelli di queste trovate alla Meyer , almeno nel mio caso, il primo pensiero finisce inesorabilmente lì. Non so quanto e come poi, questo abbia influenzato il mio giudizio. Solamente posso dire che, quando decisi di vedere Dylan Dog, il film , non immaginavo (al di là delle comuni perplessità) che avrei avuto a che fare con quello che, a tutt'oggi, io considero: il peggior film della mia vita!!! Abbandoniamo il rimando al film di Giovannesi , che qui a confronto è una boccata d'ossigeno per ogni cinefilo, e torniamo al film di Kevin Munroe . Il regista canadese aveva esordito nel 2007 con TMNT  (Teenage Mutant Ninja Turtles), dopo aver scritto e coprodotto nel 2001, un altro film d'animazione del regista Tony Shutterheim , Donner . Non è chiaro, tuttavia, quale malsano meccanismo sia scattato nella mente di Munroe quando, nel 2010, decise di portare sullo schermo la storia di un personaggio tanto popola...

Joker, La verità è che ci finiamo tutti.

Credo che il cinema a volte diventi davvero uno stato d'animo che non puoi descrivere.  Come la musica un rumore che non sai cos'è, né da dove provenga, eppure lo ascolti, ti piace, perché ti seduce e ti uccide, e ti salva. Il Joker di Joaquin Phoenix è esattamente questo, una lacrima che scende insieme al trucco, davanti allo specchio. Una risata disperata, che copre il dolore, il male di vivere. La paura di essere derisi, umiliati, e da lì l'esigenza di costruire una grande  menzogna, dove rifugiarsi, accettarsi oppure non farlo mai. Chi lo sa se poi è una scelta, oppure è solo una malattia. "Come ci si finisce qui?" Ci finiscono gli svitati, chi non sa cosa vuole, chi non sa se essere felici o tristi. La verità è che ci finiamo tutti. Perché nessuno sa cosa vuole realmente, e chi lo sa, è destinato ad assaporare il fallimento. Joker è solo l'ennesima vittima del gioco dei ruoli che è la vita. La follia il prezzo da p...