Nel blog di una scrittrice, o presunta tale, non possono certo mancare racconti o stralci di narrativa. Non è la premessa di una che vuole fare la secchiona delle blogger o ripetere a puntino la lezione del buon SEO. La verità è che nel blog ci metto tutti i racconti che mi hanno "scartato". Ciò che accadde per Aghi di pino e carta straccia, si ripete con Le scarpe del Signor Foley. Un racconto nostalgico che fa da omaggio a quei mestieri scomparsi. Io la chiamerei una storia d'amore autentica e chiassosa, ma per capirla meglio, ho bisogno del vostro sincero parere!
Le scarpe del Signor Foley
Quel lunedì di Pasqua,
era il 1944, stavano tutti riuniti da Giggetto all’Osteria. Famiglie vecchie e
nuove, soldati tedeschi e fagotti pieni, di chi si portava il pranzo da casa.
Era una tradizione popolare, quella, e a Roma certe cose non le ammazzava
nemmeno la guerra.
C’era Peppino detto “il
Gobbo”, insieme a due amici del Quarticciolo. E c’erano tre soldati tedeschi,
ubriachi di vino e follia, e l’aria era tesa e dura come il marmo. Renato di
quell’ultima Pasquetta dal sapore campestre, ricordava solo gli spari e la fuga
di tutti i presenti. I fagotti erano volati in aria, a terra giacevano i corpi
dei tre soldati. Del Gobbo e dei suoi amici poi, nessuno seppe più nulla. Una settimana dopo, a
seguito del terribile fatto avvenuto all’Osteria, scattò la cosiddetta
“Operazione Balena”. Quelli andarono
nelle case di tutti, strappando alle mogli i loro uomini, e nel giro di una mezza
giornata erano già “pronti”. Renato aveva quindici
anni, quando udì per l’ultima volta i passi del padre. “Papà è andato via per
lavoro”, diceva la mamma. E quel via non conobbe ritorno.
“Papà ha fatto la
storia Renatì, non lo scorda’! Abbiamo fatto La canzone dell’amore. La storia, Renatì!”
Insieme a quelle
parole, restava intatto il ricordo di un uomo che amava senza riserve il
proprio lavoro. Suo padre era
macchinista alla vecchia Cines. Un giorno normalissimo tornò a casa con una
valigia vecchia e piena di oggetti strani. Renato aveva sì e no undici anni. Racchette,
scarpe da uomo e da donna. Un cocomero, una scatola con dentro la sabbia.
Bottoni grandi e piccoli e per finire una noce di cocco.
“Renatì, questa è tua. Me
l’ha regalata n’amico caro. Tienila co’ te. Sempre”.
E in quel momento il
ragazzino non sapeva se essere felice o stordito da così tante bizzarrìe.
Osservava quelle scarpe da donna, e non capiva. “Dovrò indossarle?” – pensava
in segreto.
Una volta passato lo stupore,
Renato inizò a familiarizzare con tutti quegli oggetti. Passava le sue giornate
a imitare tutto ciò che avesse un suono. Con particolare ossessione per i
cavali al galoppo. Scoprì il cinema, e
capì che tutti i suoni e i rumori dei film, lui poteva ricrearli con la voce.
Per non parlare di come fossero d’aiuto gli oggetti misteriosi della vecchia
valigia. Insomma, col tempo
arrivarono tutte le risposte, e quel ragazzino divenne “il Signor Foley”. Uno
dei più grandi rumoristi del cinema italiano.
Era un tardo pomeriggio
d’aprile, il sole stava lì lì per cadere dal cielo e l’aria era briosa,
leggera. In compagnia del vecchio Armando e della signorina Norma, il Signor Foley
camminava nel parco. L’uno e
l’altra necessari, compagni di vita e sventura, da ormai sei anni. Da quando il
male lo aveva privato per sempre di quell’istinto naturale che permette di
vedere dove nascono e muoiono le cose. Ma il Signor Foley, ottantasei anni e
una vita piena, sapeva quasi tutto delle cose. Le teneva a mente con cura, e
salda memoria. Sapeva bene, ad
esempio, che all’ingresso del parco in Via degli Argonauti, ad attenderlo,
c’era sempre lo stesso scalino. E nel buio più nero, pensate, aveva imparato a
evitarlo.
Poco prima di varcare
l’ingresso, tutte le volte, si chinava con grazia fino a toccare la punta delle
scarpe. Quel gesto, che a molti potrebbe apparire ridicolo o trascurabile, per
il Signor Foley era necessario. Anticipava lo scalino, fermandosi nell’attimo
che precede il passo, con tanta naturalezza che sembrava ancora potesse
sfruttare la vista. Il pensiero, in silenzio, scivolava giù fino a quel paio di
scarpe. Vecchie o nuove, non importava. Doveva solo accertarsi che nulla le
avesse scalfite. Solo così avrebbe potuto continuare, a camminare, a vivere. Non poteva vederle con
gli occhi, le sue tanto amate scarpe. Ma le mani avevano sviluppato una
capacità incredibile di carpire lo stato d’animo di ogni cosa. Al Signor Foley
bastava sfiorarle appena, seguire le curve tonde o squadrate, accarezzare i
difetti e le virtù. Non gli riusciva solo con le scarpe, sia chiaro. Certo le
scarpe, erano la sua specialità.
Il Signor Foley scovava
l’aspetto e persino l’anima delle persone. Il droghiere ad esempio, aveva un
trombone al posto delle corde vocali, e quando parlava si prendeva spesso una
pausa. Nessuno aveva mai descritto l’aspetto di Vincenzo al Signor Foley, ma
quella pausa poteva significare solo una cosa: un grosso e folto paio di baffi!
Così era.
Il Signor Foley annusava
l’aria come quando si attende qualcosa. Con una mano si
prendeva cura di Armando, sedutogli accanto, con l’altra picchiettava il
ginocchio e poi la panchina. Faceva cerchi nell’aria con le dita, poi un tocco
leggero alle scarpe e, per finire, il
meritato riposo. Dal rumore delle foglie
arricciate a terra, poco distanti dalla panchina su cui stava, insieme ad
Armando, arrivò un sibilo sottile. A seguire, pochi ma decisi, passi
impalpabili.
Un ragazzino imitava il
fischio di un trenino a vapore, si muoveva disinteressato, calpestando e
accartocciando ancora di più, quel tappeto rinsecchito e malinconico. Quelle
foglie a terra non avrebbero mai incontrato primavera, e il Signor Foley lo
sapeva. La maglia a righe
nascondeva i contorni di un ragazzino smilzo, agile e in piena armonia con i
suoi dieci anni. I capelli spettinati e un paio di occhiali con le lenti
grandi, un calzino rosso, l’altro blu. Quel ragazzino era un disastro amabile.
Scombinato e inconsueto, distratto. Il Signor Foley non poteva vederlo, ma lo
capiva già meglio di chiunque altro.
“Mi scusi signore.
Chiedo scusa!”
Armando capriolò su se
stesso, lasciando sulla panchina il trenino a vapore che non suonava più. Il Signor
Foley poco irritato e molto incuriosito, afferrò il giocattolo del ragazzino
piombatogli addosso.
“Ma questo trenino lo
facevi suonare tu con la bocca?”
Cercava la risposta del
ragazzino distratto, attendeva nell’aria qualcosa, un ritorno di voce.
“Beh, sì. Mi diverto a
rifare i suoni. Questo è il mio preferito, il trenino a vapore. Ma so fare
anche tanti altri rumori…"
Il ragazzino ne andava
così fiero.
“Accidenti! Sei bravo
allora”.
Norma prese Armando per
una passeggiata, posò la rivista proprio dove stava seduta, e informò il Signor
Foley.
"Sì Norma, vai
tranquilla. Io me ne starò ancora qui. Ho trovato un amico, non vedi?”
L’umorismo non gli era
mai mancato.
“Vuole sentirli? Tutti
i miei rumori?”
Il ragazzino ormai
smaniava per mettersi alla prova, il Signor Foley non poteva che assecondare
quel desiderio, tanto familiare.
“Avanti. Fammi sentire
che sai fare!”
Il piccolo rumorista si
esibì in contorsioni delle labbra e smorfie di ogni tipo.
Il cavallo al galoppo.
"Ptcò – ptcò – ptcò".
E la Ferrari.
“Uuuuuuaaaaaah –
Meeeeeeeeeeeh – Frrrrrrrrum”.
E per finire il vento.
“Fffffuiuuuuuschhhhhh”.
Il Signor Foley se ne
stava lì seduto, immobile, rapito dall’imperfezione dei suoni, mai stata così
piacevole.
"Il cavallo è stato
decisamente il migliore. Bravo!”
E lui batteva le mani
saltellando, con un sorriso che a fatica rientrava in quel viso mingherlino.
“Perché non mi guarda
mai in faccia, signore?”
“Perché non cambierebbe
le cose. Sono cieco. Ma ci sento benissimo, e so per certo che tu hai del
talento!”
Il ragazzino dimenticò
in fretta gli occhi del Signor Foley.
“Davvero? Lei crede?”
“Assolutamente! Certo,
devi lavorarci su…”
“La mamma dice sempre
di smetterla, con questi rumori. Li trova fastidiosi, soprattutto quando guarda
i suoi programmi preferiti alla tv”.
“E quando lei ti
sgrida, tu che fai?”
“Mi chiudo in camera e
continuo a fare i miei rumori”.
Il Signor Foley sorrise,
e in quello squarcio la luce scostò la notte, ormai prossima.
Era un ricordo.
"Renatì, Renatì… mo'
basta co 'sti cavalli!”
Io lo trovo veramente delizioso. Si percepisce il sapore di cose antiche, si riconosce la voglia di giocare con le cose e con la vita. La malinconia del non poter più fare e la speranza di poter ancora dare. Bello.
RispondiEliminaio lo trovo buono
RispondiEliminaforse manca un po' il cuore, quello che, paradossalmente, ti ho sentito addosso in altre cose che hai scritto, anche non racconti
Molto carino! *__* Forse appena affrettata la parte dedicata al Foley bambino, ma pieno di ispirazione questo racconto!
RispondiEliminaGrazie di cuore Massi! In effetti era proprio quello che volevo raccontare. Incarnare in Foley quello stato d'animo che tu sei riuscito a cogliere. E ad apprezzare.
RispondiEliminaGrazie!
Grazie Patalice!
RispondiEliminaBe', sai che quando scrivo non faccio caso a quanto cuore ci metto davvero? Voglio dire, mi rendo conto di aver parlato di me, della mia vita, anche inconsapevolmente, solo dopo aver scritto. Ma dopo un bel po' di tempo. Forse qui di mio c'è pochissimo, credo di aver preso un'idea e montato su una storia. Partendo da un momento storico che mi affascina da sempre, e puntando su un sentimento universale. La nostalgia.
Un abbraccio!
Grazie Glò! *_*
RispondiEliminaEeeh, colpa del limite che impone il concorso!
Infatti io non amo questo genere di cose, ho partecipato pochissime volte proprio perché mi son sempre sentita "in gabbia". Quel freno a volte interrompe lo scorrere della storia che si ha in testa. E non è mai un bene. Magari più in là riprenderò il Signor Foley senza trascurare nulla, senza badare a quante battute ho ancora a disposizione. ^_^