giovedì 23 aprile 2015

Aghi di pino e carta straccia

 

Quasi quasi vi propino tutto ciò che mi scartano gli editori...
Che dite?
Aspetta però, Vale...tu ancora non hai scritto a nessuno, lo hai dimenticato?
Fifona!
 
Ok ok, quella è un'altra storia però. Lo farò. Giuro!
Oggi vorrei proporvi il primo racconto del primissimo concorso a cui ho deciso di prender parte.
Non è un racconto vero e proprio, o sì.
In realtà è una lettera.
A parlare è qualcuno, senza specificare chi.
Destinatario...stessa cosa. Non specificato.
Il mio intento era quello di rendere attraverso una lettera - il modo più diretto e sincero di entrare in contatto con l'altro e con sé stessi, a mio avviso - alcuni sentimenti universali.
In particolare qui, si parla di nostalgia.
E della fugacità dei rapporti. Soprattutto.
Perché per quanto un rapporto abbia le migliori premesse e sembra immortale, è destinato comunque a spegnersi o, nella migliore delle ipotesi, a cambiare.
 
*L'immagine che vedete è un olio su tela di Marc Chagall. Sopra la città, 1918
 
Aghi di pino e carta straccia
 
"Nessuno sceglierà per noi", era quello che ci promettevamo sempre. Il nostro grido di battaglia prima di iniziare a combattere, contro le bocche storte degli invidiosi, di chi non ci credeva mai. Contro la vita stessa che ci aveva quasi convinto dell'eterna bellezza di quegli anni, illudendoci che ogni speranza nutrita con tenacia e pazzia, prima o poi, sarebbe diventata bellezza vera.
Vera come lo eravamo noi.

E mentre scrivo torno un po' indietro ad afferrare i ricordi, e mentre li afferro il cuore un po' si affanna. Le sere d'estate a cercare ristoro e a pianificare nuovi progetti, abbellendo quei sogni di cui ci nutrivamo. Il giorno e la notte si incontravano di nascosto come due amanti. Era come se io e te, al contrario del mondo intero, io e te soltanto, lo sapessimo. E godevamo di quel momento, unico, poiché il sole ad un tratto iniziava a muoversi piano, e non faceva né troppa luce né troppa ombra. Non temevamo confronti, ed è lì che ancora oggi rimane, quel pezzo di eterna bellezza per cui tanto abbiamo corso.
"Insieme" era la sola cosa di cui realmente ci importava. La prima sigaretta insieme. La prima sbronza in discoteca insieme. La prima di tutte le prime volte insieme. E se agli altri faceva paura, a noi no, era categoricamente vietato.
Non avevamo regole, nemmeno limiti. Forse per questo camminavamo lungo le strade di un mondo che era di tutti ma nostro soltanto.
Se dovessi spiegare ai miei figli cosa eravamo, io e te, direi una cosa sola fatta di due. Oppure mi affiderei al primo pensiero che renderebbe felice un bambino, come una busta di caramelle ancora piena, un gelato tuttigusti che non cola e non appiccica le dita. Un sapore buono che non cambia mai, un rumore che non riesci a spiegare ma ti piace, ti piace da impazzire.

Di quel rumore oggi non resta che il ricordo, lo stesso in grado ancora di aggrapparsi alle quinte scorrevoli di una vita già passata e presente, dove noi non siamo più.
Mi chiedo quale senso abbia, ora, questa lettera triste, destinata a rimanere tra le mani di chi l'ha scritta. E nel volere a tutti i costi una risposta che abbia un poco di senso, ritorno indietro negli anni. E ancora un ricordo mi abbraccia, affonda la lama, uccide e poi cura.
Forse è qui, la risposta.
Come un fiore che lentamente muore, tutto è cambiato. Lentamente, ma non così tanto da darci la giusta consapevolezza, o il desiderio. Perché se solo avessimo voluto davvero cambiare qualcosa, lo avremmo fatto. Come si fanno tutte le cose. Come si respira per sopravvivere, come si guarda in alto per trovare il cielo, come si sorride nonostante tutto.
Come facevamo noi, ricordi?
Pioveva tanto da bagnare tutto, ma il dolore dentro restava. Quando la madre di Damiano non aveva più nemmeno le lacrime da versare, come grida disperate, sul corpo di un figlio morto a vent'anni. E noi lì ad elemosinare una ragione, anche una soltanto che potesse spiegare la bruttezza della vita. Mai stata  così spietata e infame.
Agosto ad un tratto divenne l'inverno più lungo, buio. Fitto di buchi da riempire, di ammassi spinosi da sfoltire. Pezzi di vite sfasciate da risistemare, ma noi non potevamo. Come avremmo potuto?
E ce ne facevamo una colpa, ci sentivamo responsabili.
Ad un tratto la vita spensierata divenne più complicata. Nonostante trovare il colpevole fosse impossibile, capimmo che la sola alternativa a tutto quel dolore, era trovare un rimedio, una cura. Ma anche lì, nessuno ci avrebbe capito. E così è stato.
Ci ritagliavamo quel pezzo di mondo che più ci appagava, tanto da risultare gli scemi del villaggio.
Damiano non c'era più, e noi lo sapevamo.
Passammo notti terribili, incubi ricorrenti, maledetti. Accanto a lui nella macchina poco prima dello schianto. Damiano che sorrideva per l'ultima volta e continuava a prendersi gioco di noi. Ma col suo fare un po' da bullo, un po' sborone, ti spiegava pure come evitare cazzate. Le stesse che poi, alla fine, hanno fregato lui. In maniera definitiva.
La vita è il boss dei boss, tutti devono rendere conto a lei. Lei si concede agli uomini, lei li perdona, li abbraccia, li ammazza.
La vita è una puttana.
Lo dicevamo spesso.
Così come ci dicevamo che niente, neanche la vita, ci avrebbe mai fregato. E per noi la fregatura non era morire e basta. Era perdere la nostra intesa, il nostro modo di vedere il mondo senza badare troppo al giudizio degli altri. Faciloni e pigri, nessuno aveva mai compreso il nostro stare insieme senza condizione.

E invece ci siamo fregati da soli.
Bravi fino in fondo, con ostinazione abbiamo costruito e con altrettanta ostinazione abbiamo sfasciato ogni fatica, gioia. Tutto di tutto.
Quel giorno d'agosto trovammo un rimedio, forse fu l'ultima nostra impresa. L'ultima nostra vittoria. L'attimo prima del disfacimento, in un giorno triste, forse tra i più tristi delle nostre vite.
L'ultima estate della nostra giovinezza condivisa, destinata a restare la più lunga, la più bella e tragica al tempo stesso. Il brusìo delle storie appena nate e i silenzi degli amori finiti nella trappola delle bugie innocenti. Ancora un pezzo da mettere nel jukebox, ancora una partita a "stecca", ancora. Sul tappeto verde lo scrocchio di un tiro perfetto, e a fare da eco una gioia che pareva intoccabile. Lo era.
Me ne rendo conto adesso, mentre torno a respirare quegli attimi persi, stantìi. E un po' di quel vento che allora ci accarezzava, nelle lunghe sere d'agosto, torna a soffiare con grazia sui brandelli dell'anima. A noi il vento piaceva, eccome.
Quante volte avremmo voluto essere come lui?
Come il vento.
Che senza dire niente arriva e sposta le cose.
Quel martedì il vento soffiava ma, per la prima volta lo abbiamo visto fallire.
Poteva portarsi via la morte di Damiano - perché non lo fa? - sì, lo abbiamo gridato a noi stessi senza che nessuno potesse ascoltarci.
E senza che nessuno se ne accorgesse, tentammo di mettere in atto il nostro folle piano.
Avevamo deciso di stravolgere la realtà, perché non ci piaceva. E molti parlarono di noi come di due ragazzini stupidi e viziati. Cercammo disperatamente un motivo per non piangere e, semmai lo avessimo trovato, un po' lo avremmo donato a quella donna distrutta.
Sento ancora il freddo della chiesa investito dalle lacrime, dai ricordi di Damiano sopra le teste di tutti i presenti. Nuvole passeggere piene di materia insostenibile.
Era troppo persino per noi, dovevamo fare qualcosa.
E siccome a noi la parola di Dio faceva troppo ridere – che poi tu iniziavi, e io ti seguivo - cercammo solamente di essere noi stessi senza forzature dettate dalla circostanza. Era la morte quella circostanza, ma non bastava a mandare a monte il piano. Non poteva, non doveva.
Quella fu la cosa più assurda che insieme siamo riusciti a fare: ridere come due scemi durante una messa funebre. 
Era un piano folle, ma pieno di ribellione, il nostro atto rivoluzionario. Ridere in faccia alla morte, ridere alla vita che ancora ci rimaneva e farlo senza avere paura delle conseguenze. Damiano avrebbe capito, ne eravamo certi e a noi bastava questo.
Il nostro ultimo "vero" incontro si concluse lungo il viale alberato che portava al cimitero. Il vento tornava e muoveva appena gli alti pini di quel sentiero che mai, era stato così interminabile. Correvano piano gli aghi di pino mischiati a un po' di quella carta gettata senza cura da mani distratte. Carta straccia.
Non ne abbiamo più parlato. Non abbiamo più parlato.
Ma prima che i nostri soli si staccassero per non ricongiungersi più, abbiamo capito – e io lo so, e tu lo sai – che niente di tutto ciò che io e te siamo stati, avrebbe potuto ripetersi. Né in questa vita, né in infinite altre. Che poi avremmo dovuto capirlo fin da subito sai?
Ma non avevamo i mezzi.

Solo oggi mi accorgo della fugacità dei rapporti, di come un legame, per quanto compiuto possa essere, sia destinato a morire. Persino il nostro, sì. Che quando ci fermavano per strada quasi ci invidiavano, tanto era bello e disinteressato quello stare al mondo che ci contraddistingueva.
E oggi, cosa ci contraddistingue?
A guardarci meglio il solo tratto che ci renda riconoscibili, ancora, è l'indifferenza.
Nemmeno mi riesce guardarti, chissà dove sei.
E nemmeno mi importa chiedertelo - guardami.
Nelle mie domande incompiute, e nelle mie risposte impronunciabili, vedo solo me stessa. Cammino senza porgere mano, senza aspettativa che somigli a un cenno del capo, a un sorriso. Mi muovo spostando i ricordi, ma in realtà tutto resta immobile, identico.

La leggerezza è propria del vento, non mi appartiene.

Torna il sapore di ciò che eravamo, amanti, amici, parenti, complici. Lo stesso che poi ci ha portato ad oggi, a un mucchio di bugie, affari che nemmeno dovevano riguardarci.
A una lettera triste.
Non c'è un tempo da coniugare a cose o persone. Della verosimiglianza non resta che un aspro ricordo. Ciò che resta giace invadente sopra parole piene di ipocrisia. Bagnate di lacrime di circostanza, pregne di quell'insolenza tipica degli uomini. E ci siamo cascati anche io e te, nella trappola delle bugie non più innocenti ma letali. Ci siamo guardati senza più capirci, ci siamo dati le spalle per non voltarci più.

Mentre ci penso rallento i passi, cammino guardando ancora una volta i miei figli, e nel loro sorriso perfetto, in quell'attimo, prendo un po' di quel vento che sempre mi sfiora, insolente, amico. Abbasso lo sguardo solo per godere di quello spettacolo, l'unico che ancora oggi conservi di noi un ricordo degno di eterna memoria.
Alzo gli occhi giusto per capire dove si arresti il verde intenso di un arbusto imponente.
Vengo rapita dal sottilissimo sfregolìo fatto di aghi e carta straccia. Sorrido ai miei figli, e alla sola promessa che sia stata mantenuta.

Abbiamo scelto noi.


4 commenti:

  1. Finalmente ho letto il tuo racconto, riservandogli il giusto tempo :P
    Devo dire che lo trovo molto coinvolgente e molto "onesto", nel senso che credo ci sia parecchio di te in quelle parole.
    Sembra la descrizione di quel momento in cui - in definitiva - si cresce e si capisce davvero cosa significa che la vita è un po' puttana...
    Brava Valentina!
    Mi stupisco perché hai mille interessi e doti *__*

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  2. Che bello sapere che tu lo abbia letto! Davvero, ci speravo. ^_^
    Per me è straordinario sentirmi dire che ciò che scrivo e provo a comunicare, alla fine, arriva. Perché sono sentimenti universali, rumori che prima o poi sentiamo tutti, all'improvviso, e grazie ai quali capiamo davvero di essere cambiati. In meglio o in peggio, chi lo sa. Ma cambiamo così, tutto cambia insieme a noi, inevitabilmente!
    Grazie di cuore...<3

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