Robert
De Niro ha recitato in solo otto dei venti lungometraggi diretti da Martin
Scorsese, ed ha interpretato un ruolo da protagonista solo in sei di questi.
Eppure, mai nella storia del Cinema un attore è stato così profondamente
associato ad un regista. A partire da “Mean Streets - Domenica in chiesa,
lunedì all’inferno”, De Niro diviene l’incarnazione stessa dello stile di
Scorsese. Il suo approccio all’interpretazione, frutto della tecnica dell’Actor’s
Studio e del Metodo Stanislavskij, prevede un’immersione totale nel personaggio
alla ricerca delle sue emozioni e si basa sulla ricerca di affinità tra il
mondo interiore del personaggio e quello dell'attore. Durante le riprese di “Taxi
Driver” e “Mean Streets”, Martin Scorsese affina insieme al suo interprete un
metodo che coinvolge totalmente l’attore nella costruzione del personaggio, al
punto da modificare la sceneggiatura in funzione dei risultati di questa
ricerca.
Nei film di Scorsese, De Niro non cerca mai di essere seduttivo come
può fare Jack Nicholson, o di suscitare compassione come è capitato a Dustin
Hoffmann. De Niro vive il personaggio che interpreta. Pur essendo stata
costruita sulle stesse solide basi del “metodo” la sua è una recitazione sotto
le righe, lavorata in sottrazione, completamente differente rispetto a quella
di Al Pacino, sopra le righe, sempre pronto ad esternare e a mostrare tramite
una più spiccata gestualità le emozioni provate dai personaggi interpretati. “L’importante
non è recitare con enfasi per suscitare facili emozioni. La gente tende a non
manifestare i propri sentimenti cercando piuttosto di nasconderli” (cit. De
Niro). I punti più alti toccati dal duo Scorsese - De Niro rimangono “Raging Bull”
e “Taxi Driver”. Nel primo caso De Niro realizza un autentico exploit fisico,
modellando il suo aspetto in base alle vicissitudini indicate nella biografia
del suo modello, Jake La Motta, e riesce a immergersi negli abissi della sua
anima. Tuttavia il film appare fin troppo perfetto e viene accusato di essere
un misero esercizio di stile cinematografico e una prova di autocompiacimento
della bravura di De Niro e Scorsese. Diverso esito avrà il secondo. Nell’estate
del 1975 Paul Schrader propone al regista italo-americano, che affida a De Niro
il ruolo da protagonista, la sceneggiatura di Taxi Driver che viene costruito
da Scorsese in modo radicalmente diverso rispetto a Mean Streets. La comunità,
difatti, è scomparsa, e la città diviene la proiezione dei fantasmi e delle
angosce di un solo individuo. Nei panni di Travis Bickle, protagonista del
film, De Niro non è bravissimo, è un monumento al cinema. Utilizza la
gestualità, la voce e il suo sguardo suggestivo, quasi ipnotico, per
trasmettere agli spettatori le inquietudini che caratterizzano quest’uomo
veterano del Vietnam in congedo, che soffre d'insonnia e decide di impegnare le
proprie notti facendo il tassista. Completamente disadattato ma idealista,
l'uomo si invaghirà di una ragazza e le chiederà di uscire. Quando le cose tra
i due andranno storte, Travis, definitivamente disilluso riguardo la società,
si chiuderà in se stesso. Comincerà così per il tassista una claustrofobica
discesa nel baratro della solitudine, in bilico sui margini della sanità
mentale.
Determinato
a purificare la città dai suoi orrori, si sente investito da una missione
divina: “Vengono fuori gli animali più strani, la notte: sfruttatori,
mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o
l'altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per
sempre”.
Travis, alienatosi dal mondo esterno, ha una percezione di esso
unicamente tramite i personaggi ripugnanti che lo popolano: il marito guardone
e omicida, interpretato dallo stesso Scorsese, e il criminale Harvey Keitel.
Celebre il “Ma dici a me? Ma dici a me?” non previsto nella sceneggiatura e
improvvisato da Robert De Niro, episodio entrato a far parte delle scene più
forti della cinematografia mondiale e rappresentante il critico livello
schizofrenico raggiunto dal protagonista, che tocca l’apice nella sparatoria
finale, scena madre del film, che Scorsese dovrà desaturare (il rosso dei
fiotti di sangue provocati da Travis) per evitare la proibizione del film ai
minorenni. La fotografia di Chapman, che fa vibrare le luci della città, e
l’ossessiva colonna sonora di Bernard Herrmann, compositore tra gli altri per
Welles e Hitchcock, accompagnano il climax di violenza fino all’apocalittico
finale che secondo Scorsese doveva avere una valenza catartica, ovvero non
suscitare rabbia presso il pubblico, ma consentire una “purificazione
interiore”. Mai alcun finale fu più contraddittorio e ironico di questo. Travis
medita infatti di uccidere il senatore Palantine, uomo politico che considerava
responsabile di tutti i mali, ma una volta bloccato, rivolge la sua 44 Magnum
contro mafiosi e criminali in difesa di una minorenne per nulla intenzionata ad
essere redenta. Tutto ciò sottolinea la volubilità del destino, i media
trasformano Travis in un eroe, mentre se fosse riuscito ad uccidere il
senatore, lo avrebbero descritto come un assassino. Quando il film si chiude,
il misantropo ha lasciato il posto ad un cittadino modello che affronta
criminali e ladri per salvare una ragazzina. Martin Scorsese ha rivoluzionato
il modo di fare cinema utilizzando steadycam, piano sequenze, inquadrature
panoramiche e movimenti di macchina dall’alto, Taxi Driver è in un certo senso
un film profetico, capace di cogliere la follia americana (ma non solo) che
incolpa a prescindere gli uomini politici, la critica lo ha inoltre indicato
come il primo film che tratta, seppur indirettamente, l’impatto della guerra
del Vietnam sui soldati che vi hanno combattuto e la loro difficoltà nel
reinserimento sociale. Travis il tassista è una metafora perfetta: incarna
infatti la perenne condizione dell’uomo (accentuata negli ultimi anni dalla
Zuckerberg-mania dei social network) costantemente in mezzo alla gente, sia
reale sia virtuale, tuttavia senza amici, simbolo della solitudine urbana.
De
Niro si cucì addosso il ruolo e nei sei mesi antecedenti alle riprese ha
studiato le malattie mentali e ha lavorato come tassista per le strade di New
York. A livello internazionale, la Palma d’Oro vinta da Scorsese nel 1976 ha
segnato il consolidamento della sua reputazione. Il film ha, inoltre, ricevuto
quattro nomination all’Oscar non portandone a casa nessuno. Nel 1977 il Premio
Oscar al miglior film lo vinse “Rocky“. Probabilmente l’America era più pronta
ad incoronare l’ascesa verso il successo sportivo di un uomo anziché vedere
scandagliate e riconosciute le proprie paure.
Scritto da Matteo Marescalco
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