Regista raffinato e dallo spiccato senso visivo, gay dichiarato, icona
del cinema sperimentale e indipendente, Gus Van Sant è stato in grado, durante
la sua carriera, di alternare film intimisti a basso budget interpretati da
perfetti sconosciuti a produzioni hollywoodiane dalle maggiori ambizioni in cui
comunque ha mantenuto il suo stile senza cedere ai ricatti dell’industria
cinematografica americana.
Capace come nessun altro di sviscerare l’età dell’adolescenza con la
conseguente perdita dell’innocenza e i suoi relativi problemi, di scavare all’interno
degli animi dei giovani, ha portato avanti un percorso filmico, in gran parte
sperimentale e a basso budget, dedicato al mondo dei teenager che comprende
opere quali “Belli e dannati”, “Elephant”, “Paranoid Park” e “Restless”. Molti
dei suoi film propongono inoltre temi e personaggi omosessuali.
Particolarmente amato dalla critica è “Elephant”, diretto nel 2003, film
che ha portato Van Sant alla vittoria della Palma d’Oro al miglior film e alla
miglior regia al Festival di Cannes.
L’opera tratta del massacro della
Columbine High School, compiuto da due studenti nei confronti di compagni e
professori del liceo, tema precedentemente affrontato da Michael Moore nel
documentario “Bowling for Columbine”.
Il titolo Elephant
deriva da un’espressione tipica della lingua inglese per indicare una verità
che, per quanto ovvia e manifesta, viene ignorata o minimizzata.
“Un giorno qualunque
di scuola superiore. Peccato che non lo è” è lo slogan del film.
La vicenda si svolge
nell’arco di una giornata apparentemente normale e i personaggi centrali sono
Eric e Alex, due ragazzi appassionati di armi, musica e videogames violenti,
che a fine giornata scolastica, in tuta mimetica, si recano a scuola seminando
morte e violenza.
Van Sant descrive lo
svolgersi degli eventi da diversi punti di vista, difatti le scene si ripetono
riprese da diverse angolazioni, attraverso gli occhi dei vari protagonisti,
ripresi in soggettiva, e con l’uso di raffinati e virtuosistici piani sequenza
con steadycam.
Girato interamente a
luce naturale, come “Barry Lindon” di Kubrick, ha una colonna sonora costituita
unicamente da sinfonie del “Ludovico Van” in omaggio ad “Arancia Meccanica”.
Il cast è formato da
attori alla loro prima esperienza e da tre attori professionisti che spesso
improvvisano.
La prima metà dell’opera
è caratterizzata da una fotografia dai colori più caldi che lascia il posto,
man mano che i protagonisti si avvicinano alla distruzione, a colori più
freddi, quasi come se stesse calando il freddo della morte sulla scuola di
Columbine.
A causa dell’eccessiva
presenza di lunghi piani sequenza, il film appare freddo e distaccato, come un
mero e vuoto esercizio stilistico del regista che dimostra tutta la sua bravura
nel muovere le telecamere. Ma forse è proprio questa l’impronta che Van Sant ha
voluto lasciare, sottolineando il vuoto esistenziale e la banale quotidianità
della morte e della tragedia.
I personaggi di contorno
cadono nello stereotipo, a mio parere voluto, che tende ad esaltare la diversità
dei ragazzi killer che apparentemente sembrano come gli altri ma che in realtà
amano Beethoven, coltivano in segreto la passione poco ortodossa per la musica
classica, per i documentari storici sul nazismo e per le armi da fuoco, con
evidente difficoltà nel relazionarsi con l’ambiente esterno.
“Elephant” tratta gli
eventi accaduti a Columbine con distacco e in modo abbastanza oggettivo, i
protagonisti, veri e propri kamikaze americani, non vengono redenti né
incolpati, Van Sant si limita a descrivere una delle loro giornate tipo,
devastata dalla casualità e dall’ineccepibilità del Male. Il film vuole
criticare la società americana, il sistema, piuttosto che i giovani stessi, che
spesso sono portati ad isolarsi e a distaccarsi dalla vera realtà giocando ai
videogames e costruendosi un’esistenza perfetta in cui sono eroi per
soppiantare quella reale. Realtà che per quanto possa essere vuota, magari
vana, va comunque vissuta al pieno delle proprie possibilità. I killer sono spesso inquadrati con riprese
in soggettiva riprendendo la visuale dei videogame sparatutto. Van Sant vuole
criticare la mancanza di valori in cui credere e di personalità a cui ispirarsi
che fa precipitare i giovani in un turbinio di incertezze, tanto più maggiori
quanto più debole è il loro carattere.
In definitiva, per lo
spettatore medio che non riesce ad apprezzare i fluidi movimenti della macchina
da presa, il film potrebbe apparire lento e a tratti noioso, seppure di breve
durata. Al cinefilo, invece, non resta altro da fare che abbandonarsi alla
fluidità delle riprese e alle “onde del destino” che si delineano sotto le
direttive del regista che ha creato un vero e proprio capolavoro.
Scritto da Matteo Marescalco
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