martedì 17 aprile 2012

The Artist





George Valentin, è un’affermata stella  di quella “Hollywoodland“  degli anni che precedono la Grande Crisi economica e quel che di li a poco avrebbe  segnato profondamente le sorti del cinema e dell’attore stesso. Siamo nel 1927, e sugli schermi appare “The jazz singer“, di Alan Crosland, film che inaugura la cosiddetta era del sonoro.  L’incredibile novità non sarà però accettata da Valentin, tanto che l’attore firmerà da sé la propria rovina pur di non tradire l’orgoglio. A riempire le sale, mentre il povero George sprofonda nel baratro e nel dimenticatoio, è la giovane Peppy Miller, una deliziosa Bèrènice Bejo, tanto decisa a sfondare nel mondo del cinema da riuscire perfino a farsi fotografare accanto a Valentin e finire sulla prima pagina di Vanity, facendo chiedere a tutto il mondo: Who’s that girl?   
Hazanavicius quasi sconosciuto in Italia, affermatosi per pubblico e critica con la commedia-parodia OSS 117: Le Caire nid d’espions del 2006, porta a termine davvero un’impresa. Il suo The Artist è una storia semplice, umana, la quale  silenziosamente ripercorre sei anni nevralgici per la storia del cinema. Un nostalgico affresco privato del suono e del colore, che legittima la sua ragion d’essere tra sfumature di grigi che variano al variare degli stati d’animo dei protagonisti.                                                                                                                                                                                                                                                                                               

Complici indiscussi un’orchestra diretta magistralmente da Bource(tanto da dar filo da torcere alle superbe musiche che il maestro Williams firma per lo Spielberghiano War Horse), musiche non solo d’accompagno al film, bensì di “commento“ , e quindi tali da significare ogni singolo fotogramma; e le straordinarie performance espressive degli attori protagonisti,  con un incredibile Jean Dujardin e il suo sorriso spavaldo da eroe cavalleresco, così naturale, tanto da farlo sembrare un reale collega delle star di quei tempi, magari di un Douglas Fairbanks o di un Jhon Gilbert(proprio a quest’ ultimo tra l’altro si fa riferimento nel “Singing in the rain“ di Donen e Kelly). Ricordiamo poi il preziosissimo cammeo di un ormai sessantanovenne Malcolm Mc Dowell (il quale nel 1971 canticchiava proprio Singin’ in the rain nel capolavoro di Kubrick, A clockwork orange. Sarà forse un caso?). E il piccolo Uggie, vero co-protagonista del film, una star destinata ad esser ricordata dal pubblico nonostante una recitazione“ da cani “(…vedere per credere…).                                                                                                                                                                                            

Poche parole, momenti di stasi a livello uditivo che mai avremmo immaginato di vivere. Dimentichiamo quasi l’assenza delle voci, dei rumori(che irrompono il silenzio solamente in un paio d’occasioni fondamentali in fase di analisi del film, come la straordinaria sequenza della scoperta di George dei rumori e dei suoni che gli oggetti sono in grado di produrre). 

Crediamo di non aver mai abbandonato il cinema della vecchia Hollywood, come se fossimo ancora noi quel pubblico abituato all’assenza di voce e ammaliato dai chiaroscuri. Non c’è stupore, né sgomento, solamente l’inaspettato  riscoprisri in grado di apprezzare un film senza il suono delle parole, senza colori, semplicemente con il più vecchio degli espedienti cinematografici, quello che rapisce uno spettatore qualsiasi, e lo ammalia attraverso la magia delle immagini che si susseguono sullo schermo. Chissà, forse è davvero così, forse le esigenze di oggi e quelle di ieri non sono poi così diverse(?).

Di Valentina Orsini

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